La Sicilia e la “scoperta” del classico.
Il 28 dicembre 1823 , dopo aver trascorso una notte a Sciacca, l’architetto bavarese Leo von Klenz arriva ad Agrigento. Qui resterà per circa tre settimane, preso dall’impegno di rilevare i templi, tanto da rinunciare anche a proseguire per Siracusa, Taormina, Catania e Messina. Solo il 20 gennaio Klenze ripartirà da Agrigento alla volta di Palermo, per ricongiungersi con il principe. Appena arrivato ad Agrigento, dove alloggia presso la villa dell’antiquario Giuseppe Panitteri, egli utilizza la giornata piovosa, inutile per lavorare sulle rovine, per visitare la città e in particolare il duomo e il palazzo arcivescovile.
L’intento dei viaggi di Klenze, soprattutto di quello del 1823-24, si può ricondurre in massima parte all’interesse scientifico per il dato archeologico, come dimostra proprio la campagna di rilievi effettuata in Sicilia. Tale approccio si differenzia profondamente da quello di Schinkel, lontano da qualsiasi velleità di natura filologica e fondato su una modalità gnoseologica prettamente emotiva.
L’interesse di Klenze per i monumenti dell’antichità non ha nulla di superficiale e i suoi disegni non tendono solo a ricreare l’atmosfera dei luoghi; più di ogni altro architetto della sua epoca, egli mostra per i templi greci un interesse meticoloso, analogo solo a quello del collega e rivale Jakob Ignaz Hittorff. I rilievi dei due studiosi offrono il migliore esempio della convergenza delle figure di architetto ed archeologo. «Quando ho osservato questi edifici da vicino – scrive Klenze alla moglie nel gennaio del 1824 – ho constatato che tutto quello che abbiamo appreso dalle opere francesi e inglesi è davvero impreciso. Perciò ho deciso di misurare e disegnare tutto da capo». Il terreno di battaglia è costituito dal maestoso tempio di Giove Olimpico ad Agrigento, l’Olympieion, il più grande tempio dorico del mondo greco: qui l’architetto tedesco lavora senza sosta dall’alba al tramonto per rilevarlo, continuando la sera per riorganizzare il lavoro della giornata.
Uno sforzo di questa portata è compiuto con grande fatica dal trentanovenne Klenze solo per la passione sinceramente nutrita nei confronti dell’architettura greca e nel tentativo di restituire la grandezza degli antichi. Bersaglio della critica di Klenze è certamente, tra gli altri, il lavoro di William Wilkins (1751-1815), pubblicato nel 180753, di cui egli scrive: «tutto è così sbagliato da stentarsi a credere che Wilkins abbia realmente misurato tali monumenti»54. Tra gli architetti a suo parere degni di stima, v’è invece Charles Robert Cockerell (1788-1863), nel 1811 scopritore in Grecia, insieme al tedesco Carl Haller von Hallerstein, delle sculture del timpano del tempio di Giove ad Egina, e l’anno successivo del fregio del tempio di Apollo a Bassae.
Nel 1812 Cockerell era giunto ad Agrigento da Malta per rilevare l’Olympieion, incontrandosi qui con il pittore ed archeologo siracusano Raffaello Politi, futuro cicerone anche del principe Ludwig di Baviera nel 1817. Politi incontrerà pure Klenze dopo aver conosciuto nell’estate del 1823 Jakob Ignaz Hittorff, giunto anch’egli per disegnare il tempio di Giove. Hittorff, il maggiore e più temibile “concorrente” di Klenze nella competizione per il lavoro di misurazione e disegno dei templi siciliani, era anche stato tra i primi a ipotizzare la presenza di colore sugli antichi templi.
Nel 1814 Quatremère de Quincy (1755-1849) aveva pubblicato Le Jupiter Olympien…, incentrato sulla scultura “toreutica”, composta di materiali e colori diversi, uno studio considerato da Semper «uno dei fatti più importanti nella critica d’arte e un trionfo del nostro secolo» – in particolare per aver sottolineato il ruolo della policromia nell’arte greca – e citato anche da Klenze nel suo libro sul tempio di Giove Olimpico.
Anch’egli contrario alla ricostruzione di Wilkins, Quatremère intende dimostrare l’omogeneità del dorico in tutte le sue manifestazioni, abbandonando la tesi di Winckelmann sull’eterogeneità delle diverse fasi dall’arcaica alla matura; le sue argomentazioni, basate sul viaggio del 1779 e sulla conferenza del 1805, centrate sulla policromia della statua di Zeus a Olimpia, risultano però ormai superate dopo la liberazione dalla vegetazione, nel 1804, dei grandi telamoni del tempio di Agrigento, in grado di aprire nuovi scenari all’ermeneutica dell’arte greca.
Diffuse già nel 1826 attraverso la raccolta di incisioni altrui curata dallo svizzero Jean-Frédéric d’Ostervald, le tavole di Cockerell sono pubblicate da lui solo nel 1830, prima nei supplementi alle Antiquities of Athens di Stuart e Revett, poi nel volume The Temple of Jupiter Olympius at Agrigentum59. Il tempio era stato liberato dal terreno a partire dal 1802, su incarico del governo borbonico, dal sovrintendente Giuseppe Lo Presti con la supervisione del marchese Jakob Joachim Haus, tanto che già Schinkel nel 1804 aveva potuto osservarne le strutture. Nato a Würzburg e divenuto precettore del principe ereditario, il futuro Francesco I di Borbone, Haus era entrato in polemica con Politi proprio a proposito delle ipotesi restitutive dell’Olympieion agrigentino, nel tentativo di aggiornare la riflessione di Winckelmann sulla mimesis nell’arte greca attraverso l’idea di raggiungimento progressivo della perfezione.
Haus pubblica le Considerazioni sullo stile de’ Greci nel 1823, quello che appare come un anno decisivo per l’archeologia e più in generale per la riflessione sull’estetica nell’ambiente siciliano: in quell’anno Hittorff arriva in Sicilia, ad Agrigento, mentre a Selinunte Angell e Harris scoprono le prime metope, rilevanti proprio ai fini del dibattito sulla policromia, ed a Palermo inizia la pubblicazione del «Giornale di Scienze, Lettere e Arti», tra le sedi principali della discussione archeologica. In tale contesto culturale il tempio di Giove Olimpico svolge un ruolo di primo piano. Lo stesso Haus aveva pubblicato in forma anonima nel 1814 il suo Saggio sul tempio agrigentino, cui segue la Lettera indirizzata nel 1819 da Politi all’antiquario Panitteri, alla quale Haus dedica nello stesso anno una Risposta.
Nella Lettera Politi presenta la propria ricostruzione del tempio, alternativa anche a quella fornita da Cockerell ma non ancora pubblicata, allegando per la prima volta alcuni disegni. Anche Klenze, prima di recarsi in Sicilia, aveva pubblicato nel 1821 un suo studio, Der Tempel des olympischen Jupiter zu Agrigent, basandosi sulle ricostruzioni precedenti, e in special modo su quella di Politi del 1819 e su quella di Cockerell, il primo considerato però meno attendibile del secondo. Curiosamente, l’architetto bavarese nell’introduzione motiva il proprio lavoro lamentando l’inaffidabilità delle 77 ricostruzioni precedenti e sostenendo di avvalersi di proprie – ancora non effettuate – misurazioni. Sebbene il progetto di ricostruzione ipotetica sia sostanzialmente diverso, in alcuni casi le tavole firmate da Leo von Klenze non differiscono quasi per nulla da quelle di Politi.
Questo potrebbe essere il motivo della iniziale freddezza con cui Politi accoglie Klenze all’arrivo ad Agrigento, sebbene il tedesco la attribuisca all’orgoglio ferito di architetti e archeologi siciliani, superati da uno straniero. La principale materia della contesa riguarda il numero e la posizione dei telamoni, da cui dipende la morfologia dell’intera costruzione: per Cockerell sono ventiquattro e si trovano sulle pareti laterali della cella di cui sorreggono la copertura, mentre per Politi questi sono tre e si collocano intorno a un pilastro centrale situato sull’ingresso orientale del tempio; Klenze concorda con Cockerell sulla posizione dei telamoni e con Politi sulla facciata del tempio, immaginando una colonna al posto del pilastro.
Quando Klenze giunge ad Agrigento il 28 dicembre 1823, una settimana dopo la partenza da Palermo, decide quindi di dedicarsi ad un’opera non solo complessa e faticosa, ma al centro dell’attenzione generale e destinata a costituire uno dei principali temi di dibattito della tarda stagione neoclassica: una struttura colossale le cui rovine mostrano una base di 56×113 metri allo stilobate e semicolonne dal diametro di quattro metri e alte probabilmente diciotto. Il suo rivale sul suolo di Monaco, Friedrich von Gärtner, nel 1816 non aveva dedicato al tempio un’attenzione particolare, sicché i disegni di Klenze dovranno superare specialmente quelli di Cockerell, poi pubblicati nel 1830, e di Hittorff.
L’architetto bavarese si stabilisce nei pressi delle rovine nella casa di Panitteri, proprietario anche di una collezione di antichità, di cui diversi pezzi saranno acquistati dal principe Ludwig proprio su consiglio di Klenze «ad un prezzo straordinariamente conveniente».
Il comportamento di Klenze lascia presumere che, entro certi limiti, egli abbia voluto evitare di acuire lo scontro con Hittorff, lasciando subito Selinunte per rivolgere la propria attenzione ai templi agrigentini, in particolare all’Olympieion ma anche agli altri due, che non offrono spunti problematici e non necessitano di complesse ipotesi ricostruttive.
Una volta tornato in Germania, Klenze sarà preso dall’intenso lavoro per i progetti monacensi e non avrà tempo nemmeno per riorganizzare i disegni e i rilievi effettuati in Sicilia, tanto che nel 1827 pubblicherà la seconda edizione del suo libro sull’Olympieion, redatto prima di visitare la Sicilia, riproponendo i vecchi disegni fondati solo sulla bibliografia esistente, accompagnati da una nuova prefazione in cui affronta il problema della policromia. Diversamente da Hittorff, che intende affermare le proprie capacità di architetto anche attraverso le pubblicazioni, Klenze non ne ha bisogno: da un lato il rilievo e lo studio dell’antico rientrano imprescindibilmente nella sua formazione culturale e dall’altro, in maniera assai concreta, offrono modelli per gli edifici da costruire in Baviera.
In: Andrea Maglio, L’arcadia è una terra straniera, gli architetti tedeschi e il mito dell’Italia nell’Ottocento