Personaggio complesso Turiddu Malogioglio. che andrebbe trattato, con la storia del tempo della città di Agrigento
Era l’I marzo 1981, “una giornata di carnevale” come scrive Giuseppe Grillo nell’introduzione alla pubblicazione anastatica de “La Scopa”, giornale di Agrigento anni 1970/76, a cura del Comune di Agrigento, per conservare la memoria dell’Avv. Salvatore Malogioglio.
Erano presenti alle esequie funebri, appena sette persone, a dare l’ultimo saluto ad un uomo che dal 1948 al 1976, era stato l’anima, assieme all’altro proprietario Peppe Grillo, di un giornale di costume, che cercò di spronare gli agrigentini, di sollevarli dalla loro apatia nei confronti dei politici, dei cattivi amministratori chiamandoli nei suoi comizi “popolo cornuto” e ricevendo applausi da migliaia di persone. Pubblicò il suo giornale, a periodicità quindicinale, sempre a sue spese, distribuendolo, gratuitamente. Nella testata vi era l’importo degli abbonamenti, anche sostenitori, mai pervenuti, mai sollecitati.
Nella grafica, un giovane con una scopa (da qui il nome) che si doveva al pittore Raffaello Politi, amico del fondatore, Libertino Alaimo.
Ad accompagnarlo all’ultima dimora appena sette persone. Lo dice Gigi Malogioglio, il nipote che gli fu più vicino non solo a lui ma anche alla zia Margherita, la tenibile Preside dell’Istituto Magistrale. Anche lei, a suo modo, una fustigatrice dell’ignoranza che si trovava, anche, a quei tempi, nella scuola.
Personaggio complesso Turiddu Malogioglio. che andrebbe trattato, con la storia del tempo della città di Agrigento, di cui fu interprete ed anche Don Chisciotte, maneggiando al posto della lancia, la penna, in uno studio completo, come pensava l’ispiratore della pubblicazione “Uomini illustri”, Prof. Mario La Loggia, da poco deceduto.
Di famiglia borghese, molto agiata, per i proventi pervenuti al padre, famoso avvocato degli inizi del secolo, dall’oratoria travolgente, spesso alla fine dei suoi processi vittoriosi, veniva, entusiasticamente, portato a spalla, all’uscita del Tribunale.
Aderì, nell’entusiasmo giovanile, al fascismo; si fregiava del titolo “Marcia su Roma”, come altri personaggi agrigentini, che avevano si e no, partecipato, agli assalti delle Camere del Lavoro. Non un uomo della destra, tuttavia può definirsi spirito contraddittorio. Quando venne chiamato dal Federale fascista perché non si era arruolato volontario per la guerra, flemmatico chiese un foglio. Il Federale si appoggiò soddisfatto allo schienale pensando di aver richiamato al suo dovere “il renitente”, ma quale fu la sua reazione quando lesse “non intendo arruolarmi volontario, perché vigliacco”.
Per il resto della famiglia era un fratello strano, uno zio strano. Viveva prevalentemente di rendita, la quota parte venutagli dall’eredità del padre e poteva dare quindi sfogo al suo spirito umanitario: fece imbiancare i catoi del centro storico, abitati dalla povera gente; costituì la Cooperativa “Lo Sparagno” perché i ceti più poveri potessero acquistare i beni di prima necessità; costruì per le orfanelle del Boccone del Povero, perchè avessero il sole, una casa al mare, alla foce del fiume Akragas.
Realizzò anche una fiera delle attività agrigentine, al Viale della Vittoria. Il tutto sempre a sue spese, rinunciando, per la sua indipendenza, ai contributi pubblici del settore. Il tutto vendendo qualche proprietà.
Fece affiggere all’ingresso della Villa di S.Anna (ora ristorante Vulcano) una targa marmorea, riportante la seguente scritta “Anche qui tutto è frutto del mio lavo- ro. Ho rifiutato i contributi che mi spettavano per legge, perché nella mia vita sempre questo è stato il mio motto “Santus Antonius nunquam habuit necessitatis maiolorum, sed maiali Santi Antoni”, Salvatore Malogioglio, 8 dicembre 1964.
Amava San Leone, della quale località fu pioniere
Amava San Leone, della quale località fu pioniere, dove aveva costruito una villetta “u pagliara”, con un bel paio di corna sui due pilastri e nel periodo estivo, invitava i giornalisti per una chiacchierata, fino alle prime luci del mattino, intramezzata dallo sfincione, innaffiato con vino rosso di Cannatello e come frutta, quella secca, lo “scacciu”.
In fondo, era un solitario, laconico, ma gentile ed affettuoso. Il nipote Gigi, lo seguiva felice, assieme alla zia Margherita per i quindici giorni di ogni anno, trascorsi in un ex Monastero del 700, a Montaperto. Si raccoglievano le mandorle ed altre derrate. Nel 1940, all’epoca delle nozze, l’aveva fatta pitturare tutta rosa. Era stata ristrutturata, con servizi moderni, ma…mancava l’acqua.
Veniva portata, in bidoni, dai mezzadri e versata nei serbatoi. Per Gigi, diceva zia Margherita, vi era sempre “una cella” e lui, felice, lontano dalla confusione di casa, con tutti quei parenti ed amici, scorrazzava con la sua Vespa.
Il giornalista Michele Bella, conserva il simpatico ricordo della chiamata “a gran voce” ogni mattina, quando passava, davanti alla villetta. Il rito consisteva nelle ultime notizie di cui era avido, e nell’accettare una sigaretta che prelevava per un concetto un po’ strano dell’igiene, dal fondo del pacchetto che spaccava, dalla parte inferiore.
Gli ultimi anni, li visse, praticamente, assieme alla moglie, in un piccolo fabbricato che aveva realizzato, vicino la Prefettura e che era anche la sede della Redazione de “La Scopa”.
Pochi ma significativi i personaggi che gli gravitavano attorno: la moglie, l’amico Grillo; la sigma Maria, una orfanella che aveva preso dal Boccone del Povero; Gerlando Ciulla che lo collaborava nella stesura del giornale. Il fratello della zia Margherita, era escluso. Si chiamava Emilio; era molto popolare in città; un tipo dall’intelligenza strana
Di questo personaggio, pochi giovani ne hanno sentito parlare. Le raccolte anastatiche sono disponibili alla Biblioteca Comunale, ma come si fa a chiedere qualcosa che non si conosce.
Le sue battaglie per la città sono ancora, dopo tanti anni, attuali.
Una commemorazione sarebbe auspicabile.
di Ermogene La Foreste