DI ALESSANDRO CARLINO
Fino al Cinquecento, l’oblio dei templi greci di Akragas è quasi totale. Se il mito classico della città non si eclissa, soprattutto per merito dell’evocazione di figure quali Empedocle o Falaride, i resti materiali dell’antica colonia greca sono solo un lontano ricordo, una cornice che talvolta confusamente riappare come sfondo di narrazioni storiche o letterarie.Una prima descrizione dei templi greci di Agrigento compare nell’opera di Tommaso Fazello,
De rebus Siculis decades duae che viene giustamente considerata il momento d’inizio della storiografia siciliana dell’età moderna. In essa, a margine della narrazione delle vicende sociali e politiche dell’isola, rinveniamo i primi accenni alla descrizione del territorio agrigentino, fondati sulle fonti antiche, ma anche su una diretta ricognizione dei luoghi. Un modello che costituirà l’archetipo delle successive opere seicentesche del Cluverio e del Bochart.
Bisognerà, però, attendere il XVIII secolo affinché una disamina sistematica e l’analisi delle architetture doriche della città prendano forma. Prima di molte altre regioni del sud Italia, la Sicilia entra nel percorso del Grand Tour , isola da raggiungere via mare, scavalcando da Napoli a Palermo, tutto il mezzogiorno. Dalla metà del Settecento con la riscoperta «della più bella città dei mortali» di pindarica memoria, l’antica Akragas diventa una tappa fondamentale degli eruditi nel viaggio verso la riscoperta delle radici classiche della cultura europea. A favorire tale rinascita contribuiranno, in maniera decisiva, diverse pubblicazioni: dettagliati resoconti di viaggiatori e studiosi in cui venivano descritti i percorsi attraverso le antichità dell’isola e gli oggetti d’arte,spesso accompagnati da ampi repertori figurativi.
Il monumento antico, nei testi di antiquari ed eruditi, è interpretato in modo ideale, come espressione di canoni di bellezza assoluti e irripetibili, testimonianza di un mondo mitico i cui tratti originari sopravvivono nel ricordo delle fonti classiche. I templi agrigentini e, in particolare, il tempio della Concordia, con le sue forme doriche ‘alla greca’, rappresenta la perfetta materializza-zione di questa età dell’oro in cui gli artisti avevano «studiato il più profondamente possibile le proporzioni e le forme della bellezza»in modo che«non era possibile uscirne né all’interno, né al-l’esterno senza commettere un errore»,e avevanocosì definito un «concetto della bellezza che nonpoteva venire ulteriormente elevato».
Da questi presupposti concettuali muovono le opere dei viaggiatori che arrivano in Sicilia alla scoperta delle vestigia classiche. I loro resoconti testimoniano l’evoluzione e i mutamenti di sensibilità della ricerca antiquaria: da un’iniziale erudizione intrisa di estetismi edonistici più che di un’effettiva consapevolezza storica, si arriva in seguito a idealizzare il monumento come oggetto di culto da adorare. I sostenitori della prima posizione vedeva-no nel tempio la conferma della veridicità degli scrittori classici e, di fronte ai resti antichi, erano spinti dal fervore della conoscenza a spoliazioni e demolizioni pur di agevolare i riscontri letterari; gli altri legittimavano la rimozione delle integrazioni e delle aggiunte, ritenendo che occorresse restituire le antichità alla loro immagine originaria.
In bilico tra le due posizioni, in un primo tenta-tivo di sperimentazione archeologica, ma non esente da eccessi eruditi, possiamo collocare l’opera del padre teatino Giuseppe Maria Pancrazi
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