Nell’ora del maggior trionfo del romanticismo vennero in Sicilia parecchi romantici francesi: fra essi Paul de Julvecourt, Alexandre Dumas, Charles Didier e Paul de Musset.
Nato a Ginevra nel 1805 il Didier apparve destinato per tutta la vita a trascinare un duplice angosciante retaggio: quella della sua origine, essendo egli un figlio naturale, e quello di una rigida educazione calvinista. Ginevra, la città della pace dei fiori, la regina del Lemano, porta con sé questa secolare contraddizione. Lo sanno quanti hanno visitato la gelida cittadella della sua fede – la cattedrale di Saint Pierre – e si sono affacciati dall’alto della torre. Il lago splende di gioia dinanzi allo sguardo cupido, ma sembra tanto lontano, solo che lo sguardo stesso si abbassa sui quartieri che circondano la massiccia costruzione religiosa. La legge antica, velata e ingentilita dal sorriso, allora vi afferra e vi fa intendere appieno la disperazione di un poeta come Charles Didier.
L’ombra della sua precoce serietà calò sul suo spirito con brividi di inquietudine dinanzi ai quali ripiego sconfortato il suo slancio naturale. Spinto verso una soluzione, Charles Didier, – già autore di felici poesie di intonazione romantico popolare come “La Harpe Helvetienne” e “Melodie helvetiques” – sceglie la via d’Italia con un desiderio di pace verso il suo popolo che all’anima tanto meno complessa.
Visita prima Firenze, poi Roma che gli ispira motivi profondissimi di riflessione. Egli non è solo un poeta, un ricercatore degli spunti più umani della vita sociale, e questi spunti cerca descrivere con la sua prosa che – pur essendo generalmente priva di energia e di rilievo stilistico – si solleva talvolta a forme grandemente suggestiva.
Venne in Sicilia nel 1829. Purtroppo non abbiamo molti ricordi personali del suo viaggio che durò parecchi mesi egli consentì di visitare le città più interessanti dell’isola.
Alla Sicilia gli dedicò però varie sue fatiche letterarie. Trascureremo l’opuscolo “Question Sicilienne”, scritto nel 1848 perché di intonazione politica e quando il Didier veniva dal Lamartine incaricato di lavorare nella diplomazia della seconda Repubblica; e trascureremo anche il suo “Recueil” di costumi calabrese siciliani perché da lui stesso ripudiato come infelice suo parto. Ma “Caroline en Sicilie” – un’opera che non è degna di Walter Scott – merita più di una semplice citazione. Ancor oggi di quest’opera, apparsa per la prima volta nel 1844 appuntate su “Democtatié pacifique” e poi nel 1845 il libro, e più volte ristampata, sono vive molte pagine.
“Caroline en Sicilie” oggi dimenticato, è un romanzo storico di molto pregio anche perché riesce utile ai fini di una ricostruzione d’ambiente e di atmosfera. L’autore lo scrisse per vivere, sobbarcandosi ad un lavoro estenuante senza ricavare quel vantaggio economico che si attendeva, né quel calore di consensi che giustizia avrebbe voluto. L’opera non sufficientemente apprezzata in Francia incontrò maggior successo in Sicilia. Un’edizione italiana apparve nel 1848 a Palermo. Ne seguirono altre a Milano. Il romanzo si svolge in Sicilia durante il regno di Ferdinando IV di Carolina, mentre gli inglesi la fanno da padroni. L’opera del Didier rappresenta vividamente la politica inglese verso l’isola mediterranea.
A noi sembra che sia più utile soffermarci sui giudizi dati su luoghi ed ambienti siciliani. Certe impressioni sono felicissime. “I suoi chiostri hanno l’aria di minareti, le sue chiese di moschee, e ci si attende di vedere apparire dei turbanti sulla sommità dei suoi muraglioni”.
Scegliamo a caso nello scrigno delle sue impressioni.
Il Didier viaggia intorno a Selinunte: “un silenzio inflessibile, etereo, e succeduto al canto degli schiavi, il cui lavoro ha lasciato delle tracce profonde vive…” E su questo silenzio il poeta riconosce come uniche manifestazioni di vita gli schieramenti e le trincee di cactus e il fico e l’ulivo selvaggi che crescono sui fianchi delle rocce, mentre il mare lontano manda un mormorio che soffocato dalle dune.
Ancor migliori le pagine destinate a sue gesta dove il Didier immagina una riconciliazione fra due fidanzati, ritorno di Fabio verso un amore tradito, la morte di Fabio presso il tempio maestoso sul vasto piano ondulato.
Ma fu ad Erice che il poeta raggiunse il massimo della commozione della perfezione. La città aerea, voluta dalla pietà di San Giuliano, dei tempi remoti, e rimasta intatta tra cielo e mare quasi a significare un’ideale di pace perfetta, era senza dubbio la più propizia per il poeta errante. Egli era venuto in Italia inseguendo il suo sogno di tranquillità. Man mano che era andato avviandosi verso mezzogiorno il suo sogno, la figura era divenuta realtà.
Qui, al confine tra l’Europa e l’Africa, gli era venuta incontro la città del silenzio ancestrale, con le sue donne bellissime come le sacerdotesse antiche, ma al peccato sacro sottratte dal soffio della fraternità cristiana. Piene di ombra le torri medievali, piene di segrete di misteri le rovine della città che aveva ascoltato il passo di Enea. Tutto un chiostro quasi la città che nell’età classica era stata un solo grande in pudicissima altare elevato a Venere Ericina per il conforto la devozione dei navigatori del periglioso Mediterraneo.
Charles Didier si affacciò dall’alta rocca, respirò l’incenso antico e l’aloe vivo, colse il porto di Trapani disteso tra il mare smeraldino e le saline scintillanti, vide l’arcipelago delle Egadi accogliere la morte di porpora del sole, e salutò l’ Africa sognata.
Poi riprese la sua via, tornò nella sua terra, ne ripartì, percorse in saziato tutti gli itinerari, e, fra i più lontani predilesse quelli di Oriente.
Soggiorno a Parigi, insoddisfatto. Poi, venne per lui la cecità, la desolazione, la triste risoluzione del suicidio, l’esasperazione mortale del suo tormento romantico. Insieme alla luce lui l’anima si era spenta.
Forse un ultimo brivido di conforto gli sarà venuto dalla visione di un chiaro mattino dell’area città di Sicilia.
Gaetano Falzone in Giornale di Sicilia 25 luglio 1950
Scarica l’opera “Carolina in Sicilia”
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