Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. II, pp. 155-156, 169-192
La grande crisi
La svolta dell’87
Il decennio 1887-1898 fu quasi interamente caratterizzato dalla presenza siciliana alla direzione politica del paese. Francesco Crispi fu presidente del consiglio dal luglio 1887 al maggio 1891. Antonio Starrabba di Rudinì gli succedette dal maggio 1891 al maggio 1892. Quindi, fino al dicembre 1893 ci fu il governo Giolitti. Caduto il quale, dal dicembre 1893 al marzo 1896 ci fu il secondo ministero Crispi e dal marzo 1896 al giugno 1898 il secondo ministero di Rudinì.
Sotto il profilo della storia italiana, la conclusione di quel decennio, ben a ragione definito crispino, per il peso esercitatovi dallo statista siciliano, fu un periodo di transizione, e anche di crisi profonda. Pur dopo traumi, drammi e sussulti, fra i quali una caduta dell’economia ai livelli più bassi, una guerra coloniale perduta e un colpo di stato avventurosamente scongiurato, alla fine, l’Italia si trovò ad essere politicamente più matura, socialmente più evoluta ed economicamente più forte.
Nel quadro della storia della Sicilia, il decennio 1887-1898 non si configurò negli stessi termini. La Sicilia in vari campi si ritrovò ad essere lontanamente confrontabile con quella che era stata nel periodo precedente. Rispetto al 1886, più che un salto di qualità, aveva fatto una caduta di qualità. I livelli di sviluppo toccati allora nell’economia, nella politica e nella cultura risultavano seriamente compromessi. Nel solo settore viticolo, la superficie coltivata era diminuita di oltre 96 mila ettari, e la produzione era scesa dai 7.750.000 ettolitri (quadriennio 1879-83) a 4.386.000 ettolitri (quadriennio 1895-98). Ma dappertutto erano evidenti i segni della devastazione provocata dalla crisi. La popolazione attiva dedita all’industria dai 513.827 del censimento del 1881 era scesa ai 373.726 del censimento del 1901. Al di là dei singoli dati, tuttavia, ciò che soprattutto colpiva era che la società isolana, e per essa la sua classe dirigente, non mostrava più di possedere la capacità di iniziativa precedentemente dimostrata. I segni più macroscopici della sofferta depotenzialità erano nell’evidente difficoltà di mettersi al passo col nuovo crescente ritmo dell’economia nazionale, pur nei settori più dotati di capacità espansiva. La fine dell’età crispina coincise pertanto con una ripresa non già vigorosa, come quella nazionale, bensì fiacca, sfilacciata, e quasi priva di volontà rigeneratrice. In ogni caso, il punto di partenza non fu più il 1886, il cui livello rimase una sorta di traguardo da raggiungere, e in alcuni comparti solo raggiunto nella seconda metà del secolo XX.
La questione contadina
La crisi agraria annoverò fra i suoi effetti anche la messa all’ordine del giorno in tutta Europa della questione contadina.
In Italia, la nascita di una questione contadina fu motivo di sorpresa, di preoccupazione e di allarme, prima ancora che occasione di interessamento positivo a ciò che nelle campagne si stava manifestando o andava a determinarsi. Durante la grande inchiesta agraria Jacini, disposta dal parlamento, fu tutto un interrogarsi non tanto sulle condizioni di vita dei lavoratori dei campi, quanto sul loro comportamento in rapporto al principio di autorità, al rispetto della legge, all’accettazione delle diseguaglianze sociali ecc.
Allora sembrava escluso che vi potesse essere un protagonismo contadino di rilevanza economico-sociale e meno ancora di portata politica. Il primo allarme in tal senso venne, in effetti, dalla provincia di Mantova, nel 1884. Una improvvisa ma abbastanza ordinata agitazione vide scendere in lotta, abbandonando il lavoro, migliaia di braccianti agricoli rivendicanti miglioramenti salariali al grido ‘La boje! La boje! (La bolle! La bolle!)’. Fu come un fulmine a ciel sereno. Di scioperi in Italia, specialmente in Lombardia, ce ne erano stati diversi; alcuni erano stati anche assai aspri; ma generalmente si era trattato di scioperi operai. Lo sciopero contadino non era mai accaduto, e comunque veniva considerato per lo più come un fatto insolito, anomalo, incomprensibile, e come tale da respingere in linea di principio e in ogni caso da non tollerare sul piano pratico. I proprietari mantovani rifiutarono di venire ad un accordo con gli scioperanti. Intervennero i carabinieri ed i soldati, indi la magistratura, che dopo un anno di detenzione mandò assolti gli imputati.
Lo sciopero contadino mantovano pose il problema del rapporto fra l’Italia borghese e il risveglio e la presa di coscienza dell’Italia contadina. Alle classi dominanti italiane della città e della campagna fu più difficile accettare la formazione di un movimento contadino che il ben più impetuoso sviluppo del movimento operaio. Concorsero in tal senso interessi di classe, che nelle campagne furono più ostinati e riottosi che nelle città; influì la più generale aspettativa che la campagna costituiva una riserva di conservatorismo, senza la quale sarebbe stato difficile fronteggiare l’incombente questione operaia nelle città, donde la necessità di troncare in germe qualsiasi manifestazione di sovversivismo; pure ebbe peso la circostanza che il paese era allora in maggior parte fondato sulle strutture dell’agricoltura e non dell’industria.
Il conflitto fra questione contadina e cultura e mentalità anticontadine, più o meno attivo in ogni parte d’Italia, in Sicilia divenne esplicito ed evidente, allorché il Sonnino diede alle stampe la sua inchiesta, nel dicembre 1876. Le reazioni a quel libro furono clamorose e in qualche caso smodate. Lo studioso toscano scrisse che i segni di tale movimento si erano già espressi in alcuni comuni delle province di Palermo, di Caltanissetta e di Messina, e che c’era tutto da guadagnare, e nulla da perdere, dalla loro futura diffusione in aree più estese dell’isola. Il suo, nondimeno, fu più un avvertimento fatto ai proprietari e ai loro rappresentanti che un suggerimento volto ai contadini e ai loro possibili dirigenti. Sui contadini non c’era molto da sperare.
L’argomento è ingrato, — scriveva, — perché sappiamo di parlare al vento. I contadini non sono in grado di apprezzare consigli; questi anzi non possono ora nemmeno giungere ai loro orecchi. Potremmo, è vero, appunto perciò, parlare più chiaro, senza timore di destare nessuno spirito di ribellione in quegli animi abbrutiti e ancora in gran parte inconsci della propria abiezione; ma a che sfiatarsi quando nessuno vi ascolta?[1]
Dagli altri, invece, ciò che soprattutto si temeva era che, pur senza volerlo, a forza di parlar chiaro, si concorresse a svegliare quel sonnecchiante spirito di ribellione. Come rilevava Vito Cusumano, un giovane seguace del socialismo, il disprezzo per il villano era un fenomeno molto diffuso. «Fa veramente pietà, – scriveva un anno dopo la pubblicazione dell’inchiesta sonniniana, – il modo schernevole con cui il contadino viene trattato in alcune provincie italiane. Lo si considera generalmente come zotico e superstizioso, facile ai sospetti ed alle vane astuzie, corrivo al litigio coi vicini e talvolta inclinato ai piccoli furti di campagna, e gli si rimprovera sovente la mancanza d’istruzione che non si sa se debba incolparsi maggiormente alla società o al contadino».[2]
Un senso di inquietudine e di disagio esprimeva Salvatore Salomone Marino, specialista di tradizioni popolari, allorché dichiarava di prediligere i lavoratori dei campi, la parte più eletta del popolo, la più ingenua, la più sana, la più laboriosa, la più onesta, ma aggiungeva che egli considerava meritevoli di tale stima solo i contadini di vecchio stampo. I nuovi contadini, invece, non facevano al caso suo, egli li preferiva «non giunti ancora o sfiorati appena dall’influsso modificatore della civiltà… rozzi… superstiziosi, ma non attossicati per anco dall’alito corruttore che logora oggi le viscere delle plebi cittadine».[3]
Ma forse il siciliano che, più e meglio di tutti, diede forma e nobiltà letteraria alla mentalità anticontadina fu il patrizio modicano Serafino Amabile Guastella. Studioso anche egli di tradizioni popolari, non fece differenza fra contadini vecchi e nuovi. Le parità e le storie morali dei nostri villani, pubblicate a Ragusa nel 1884, costituirono non tanto un contributo allo studio del folklore campagnolo siciliano quanto una partecipazione al dibattito sulla condizione e sulle prospettive della classe contadina. Dopo l’avvento della Sinistra al potere, il problema dei contadini divenne in Sicilia, come in tutta Italia, di vivissima attualità. Più che le condizioni materiali di vita e di lavoro, egli imprese ad indagare la concezione del mondo e della vita propria dei contadini, per individuarne la morale, ed anche la psicologia del profondo e la mentalità. Le parità del Guastella, oltre che della mentalità contadina, sono un documento insostituibile soprattutto della mentalità agrario-borghese del suo autore e del suo ceto di appartenenza.
Sotto il profilo di tale mentalità, il rapporto padroni-contadini, ancora negli anni ’80, appariva contrassegnato da alcune costanti di giudizio e di pregiudizio tese a sottolineare la differenza fra i contadini e gli altri. Fra i tratti fondamentali del prototipo di villano colti e rappresentati dal Guastella, il primo era quello dell’egoismo.
Non so del resto della Sicilia, — scriveva egli, fin dalla prima pagina, dal primo periodo e dal primo rigo, — ma a lamentarci del villano della nostra antica Contea è proprio un lamentarci della buona misura, come si dice in dialetto. Certo non è più il tipo antico, ma, scaduto com’è, è sempre un bel tipo: laborioso, allegro, motteggevole, rassegnato alla volontà di Dio, dal linguaggio sentenzioso, dalla testa dura e dai garretti di acciaio. Egli è vero che in lui c’è molto dello sbracato, e che, è, un po’ falso, un po’ mordace, un po’ avido, un po’ vendicativo, ma diamine, chi è senza difetti nel mondo? Una sola cosa per altro è difficile che gli si perdoni, ed è il duro egoismo in che s’inguscia dal primo all’ultimo giorno dell’anno: egoismo tenace da cui, come il riccio, solleva il capo nelle occasioni solenni più per l’occhio del mondo che per risveglio di affetto.[4]
Altro tratto fondamentale del prototipo del villano era l’assenza o la scarsa efficacia di passioni e di affetti duraturi per i propri simili in generale e per i parenti più intrinseci in specie. Ma detto così era un errore, perché in realtà il contadino aveva un odio profondo per il birro, e un vivo costante vero ed unico affetto per l’asino.
Posto al bivio di scegliere fra la morte della moglie o del ciuco, non starebbe in forse un momento. Un’altra donna è presto trovata, ed egli avrà il beneficio di un’altra dote, e della carne fresca, come cinicamente si esprime; ma invece, a comprare un altr’asino, s’impantanerebbe nei debiti, e a trarsene fuori ci vorrebbe l’aiuto di Dio… Dopo l’asino, ma molti gradini in giù, e quando non abbia altro da fare, il villano ama anche la moglie; ma l’ama di quell’amore comodo e senza grattacapi, come si ama il gattino natoci in casa; un po’ per abitudine, un po’ per bisogno.[5]
Naturalmente, un essere cosiffatto aveva un concetto tutto particolare del tuo e del mio o meglio non lo aveva affatto. Perciò, altro tratto fondamentale del prototipo di villano appunto consisteva in ciò: che egli era un ladro, e non aveva scrupolo ad esserlo. Sul piano dei valori, il contadino riteneva per fermo che il vero legittimo padrone della terra avrebbe dovuto esser lui, che la coltivava e la fecondava, e non l’ozioso e intruso possessore, che ingrassava col sudore degli altri. La pericolosità di tale convincimento non aveva bisogno di commenti. Era conseguenziale pertanto che i convincimenti del villano corressero in direzione opposta alle prescrizioni dei codici. Ed era del pari inevitabile che, in ogni perturbazione sociale, quelle idee venissero a galla, come nel 1837 in Monterosso, ove i villani si erano eletti un re del loro ceto; come nel 1820 in Ragusa, ove i villani erano intestati a dividersi il territorio. Ovviamente, anche nel rapporto col padrone, che gli dava a coltivare la terra, il villano si ispirava a quelle stesse idee.
Or dunque se il contadino sottrae qualche tumulo di frumento, qualche cafiso di olio, e qualche barile di vino, o che altro si voglia, in un campo, che ha lavorato con le sue mani, non ne ha il menomo scrupolo, né se ne confessa, ma lo crede un onesto ed esiguo compenso. Codesto onesto compenso potrà però esercitarsi con tranquilla coscienza quando la roba è tuttora nei campi, non quando è stata riposta nei recipienti opportuni: perché, riposta che sia, il compenso cessa e subentra il furto più o meno grave a seconda dei casi. Né dico con ciò che tali teoriche siano rese ad atto da tutti quanti i nostri villani. Oh questo, no! ma dico che tutti quanti le credono lo stillato della vera giustizia, e dove sorga differenza è più nei mezzi, che nella cosa in se stessa.[6]
A tale filosofia naturale del furto faceva riscontro una sostanziale repulsione e più ancora una istintiva refrattarietà ai vincoli della convivenza. Credulone e superstizioso, il contadino era anche e soprattutto un asociale.
È curioso che il nostro villano creda più al soprannaturale che al naturale; né c’è leggenda così spropositata che gli susciti un dubbio: tanto che, per dirla con un bisticcio, il credibile è per lui l’incredibile. — Ma quanto alla bontà degli ordinamenti sociali, quanto alla virtù collettiva, quanto all’amor per la patria e, peggio, all’amore per l’umanità, quanto al sacrifizio, alla buona fede, alla giustizia umana, è peggio di un nihilista, e non ne crede una buccia. Crede però all’interesse, e lo stima (né a torto) la molla segreta o palese di ogni azione dell’uomo; e va tanto in là, che ritiene ogni legge essere fatta per danno del povero e per vantaggio del ricco. Oh quanto a questo è di uno scetticismo sì ritroso, sì ferreo, che nessuna argomentazione varrebbe a scuoterne la credenza. Di fatti, si aprono le scuole per educargli i figliuoli? Marameo! chi sa che birbaria c’è nascosta. Si nettan le strade? La abbiamo intesa: c’è il colera per aria. S’inaugura un asilo infantile? Vorrebbero guastarci i figliuoli!.[7]
Il tratto più incisivo e determinante, tuttavia, era che, sotto l’apparente mitezza d’indole e la manifesta sottomissione all’ordine costituito, il villano, nel profondo del suo essere, era un ribelle, un sovversivo, un sanguinario ammazzatutti, artefice delle più tremende jacqueries.
A conferma di tale istintiva incorreggibile propensione alla rivolta, il Guastella trascrisse e pubblicò, a parte, un canto della messe, in cui l’odio e il risentimento contro ogni ordine della società esplode con inusitata e non repressa violenza. A recitar quel canto sarebbero stati i braccianti modicani, mentre con la falce in pugno mietevano il grano nei campi infuocati del sole di giugno.
Annota Leonardo Sciascia: «È il canto della scatenata anarchia contadina, dell’odio verso ogni altra classe e categoria sociale, della devastazione di ogni valore, anche del valore stesso cui il mondo contadino dava, e continuava a dare, tragico contributo: la fedeltà della donna, l’onore. Al Guastella pare di trovarsi di fronte ad un altro uomo; ad un uomo ben diverso nelle esigenze, nel comportamento, nel linguaggio – da quello che per tutta un’annata ha curvato la schiena nel lavoro di zappa, ha pagato le decime e i balzelli, ha tremato davanti ai padroni e ai campieri, si è inginocchiato davanti al prete, ha implorato bottegai e mastri di fargli credito. Ma è, in realtà, l’uomo che poteva venir fuori dalla pelle dell’altro».[8] Oppure – ipotesi non meno fondata – che si temeva che potesse venir fuori dalla pelle dell’altro. Ché il guastelliano canto della messe poteva essere anche inteso come il modo rovesciato di vedere il mondo contadino da parte degli altri, che avevan motivo di temere il suo risveglio vendicatore delle angherie e degli abusi sofferti. I riflessi di quella lettura rovesciata erano percettibili nella novella Libertà di Giovanni Verga, pubblicata nel 1882. L’artista, nella libera rievocazione dei fatti di Bronte, aveva affrontato il tema della ferocia della rivolta contadina, iniziando col famoso e potentissimo attacco:
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!». — Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciola: — «A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!». Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. «A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!». «A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!». «A te, sbirro! che hai fatto giustizia solo per chi non aveva niente!». «A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!». — E il sangue fumava ed ubriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! «Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! Ammazza! Addosso ai cappelli!».[9]
Uscendo dalla letteratura, ed entrando nel regno della ricerca positiva, la più ampia e sicura documentazione dell’atteggiamento dei ceti superiori e medi sulla questione contadina era senza dubbio quella di proposito raccolta e riportata negli Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola. Già era lo stesso deputato relatore ad esprimere quella sorta di timor panico sul futuro, stante la condizione intollerabile del mondo agricolo subalterno.
Invero, — scriveva, — quali sentimenti può provare questo contadino per le classi abbienti, quale interesse per il mantenimento dell’ordine sociale? Come esigere rassegnazione, virtù e sacrifizi da questa plebe che, sotto la sferza d’un torrido sole e talvolta colle membra percorse dal brivido della malaria, lavora la terra non sua per un compenso insufficiente? Perché meravigliarsi se una plebe, cui è riservata la fatica, la fame, gli stenti, la morte, prorompa talora… in fremiti di protesta e… di sdegno? Chi può prevedere dove s’andrà a finire perdurando questo stato d’abbrutimento? Non dimentichiamo che in tempi di rivoluzione furono specialmente i contadini i quali assalirono i possidenti nelle persone e ne danneggiarono le possidenze: il 1848 e il 1860 segnano due epoche terribili di manifestazioni popolari: in alcuni comuni dell’isola si ebbero a deplorare fatti di sangue, vendette, incendi di archivi pubblici da parte di una moltitudine oppressa, ubriaca, nell’intento di «vendicare l’onda della miseria patita a causa dell’odiata classe dei proprietari».[10]
Ma il campionario più vasto, e la testimonianza più attendibile di quel sentimento di distacco e di mancata comunicazione fra le classi dominanti e i ceti contadini subalterni erano forniti dalle risposte ad apposito questionario dei magistrati di pretura di tutti i mandamenti dell’isola. A manifestare le proprie considerazioni furono ben centottanta pretori, sparsi in ogni angolo della Sicilia.
Fra i vari quesiti volti all’accertamento delle condizioni morali e delle relazioni sociali dei contadini siciliani, di particolare importanza, ai fini di una indagine sulla mentalità delle classi abbienti in riferimento alla questione contadina, erano quelli sul sentimento religioso dei contadini; sul concetto dei loro obblighi verso il proprietario e i suoi rappresentanti; sul genere di relazioni esistenti fra lavoratori e padroni della terra; sulle conseguenze del servizio militare nei loro comportamenti; sul livello di partecipazione contadina alla vita politica per effetto della riforma elettorale del 1882.
In fatto di onestà nella custodia e consegna dei prodotti agrari, per i 141 mandamenti di pretura dai quali si ottennero risposte, in 86 i contadini risultarono onesti con molte riserve e in 55 furono qualificati come senz’altro disonesti. In riferimento a ciascuna delle 7 province, le conclusioni furono:
Caltanissetta. «In questa provincia non si riscontra onestà nella custodia dei prodotti agrari». Mandamento di Gela: «Persuaso il contadino che il buon Dio ha malamente disposto le cose in questo basso mondo, tutte le volte che gli riesce di sottrarre una parte del prodotto, non ci pensa due volte a trafugarla per conto proprio, massime se il proprietario sia un cavallaccio (persona civile)».
Catania. «I risultati dell’inchiesta condurrebbero a ritenere che non vi sia molta onestà nella classe agricola di questa provincia per quanto concerne la custodia e la consegna dei prodotti agrari». Mandamento di Adernò: «Ove i proprietari non stessero vigilanti ad impedire le frodi in loro detrimento, questi contadini sarebbero capaci di infedeltà nella custodia e consegna dei prodotti agrari: ciò quando fossero sicuri del segreto e dell’impunità, non dissimili da tutti i villani del mondo»; di Regalbuto: «Il contadino ha poca onestà nella custodia e consegna dei prodotti agrari e se lo potesse, senza incorrere nelle pene sancite dalla legge, deruberebbe il proprietario senza fallo»; di Biancavilla: «Il contadino è generalmente infedele ed un proprietario oculato non si fida ciecamente».
Girgenti. «In generale i dati della inchiesta porterebbero a credere che il contadino adempia agli obblighi contratti verso il proprietario e sia onesto nella custodia e consegna dei prodotti agricoli. Mettendo questo tatto a confronto con quelli risultanti dalle non buone condizioni della moralità pubblica esaminate finora sembrerebbe una contraddizione. Ma non lo è invero per chi consideri che il modo di cultura dei campi non lascia il contadino gran fatto in possesso dei prodotti, e come esso abbia interesse a mantenere, se non altro, l’onestà». Mandamento di Bivona: «Il contadino non è onesto nella custodia e consegna dei prodotti agrari, essendo un uso inveterato in Sicilia di sottrarre parte delle sementi e fare sparire qualche covone, quasi a titolo di antiparte e per reazione dei soprusi che gli usa il proprietario durante l’anno»; di Canicattì: «Naturalmente, prevale l’arbitrio del padrone perché più ricco, più forte e più potente. Il contadino pertanto osserverà gli obblighi verso il padrone tante volte quante l’inadempienza gli potrà portare peggio; ma ove impunemente possa non adempierli, non trova alcun freno nella propria coscienza».
Altrettanto emblematiche furono le risposte dei pretori sugli altri quesiti. In tema di sentimento religioso prevalse la considerazione che il Damiani espresse relativamente alla provincia di Caltanissetta: «Nella classe agricola di questa provincia predominano le superstizioni, la fede vi è superficiale, i precetti del Vangelo non sono compresi e sono talvolta anche derisi, non si crede che ai responsi del clero, ritenuto infallibile, e si dà molta importanza al culto esterno, alla parte teatrale, alle prediche del prete, alle apparenze di religione». Ma alcuni magistrati furono più circostanziati nei loro giudizi, e ne risultò per i rispettivi mandamenti un quadro più preciso. Ne riferiamo le osservazioni maggiormente significative.
Provincia di Caltanissetta. «Vi ha più superstizione che fede, e si va a messa soltanto per contestare il confessore che colà è ancora una potenza! Si crede alla magia, alla potenza illimitata del prete presso Dio» (Calascibetta). «La superstizione è tale che lo spirito d’intolleranza impedisce l’esercizio di qualunque possibile culto e gli acattolici godono poca fiducia nel ceto agricolo» (Niscemi). «La classe agricola è ancora avvilita dall’ignoranza, fra le pastoie dei pregiudizi e sotto l’influenza dei preti» (Villalba).
Provincia di Girgenti. «Il sentimento religioso è inteso superficialmente» (Aragona). — «Tutti vanno a messa per abitudine, e le donne per mostrarsi belle e vestite» (Bivona). — «Si è più fanatici e bigotti che religiosi» (Burgio). — «In Canicattì, ove non è né spedale né ospizio di mendicità né asili d’infanzia, in pochi anni si sono aperti due conventi, contribuendovi largamente il contadino colle sue giornate di lavoro. Il contadino crede più alla magìa, agli incantesimi, alla iettatura, agli ispirati, e il più delle volte è adibito il prete, perché coll’acqua santa possa cacciare il diavolo» (Canicattì). – «In generale i contadini sono oltremodo superstiziosi, tengono alle sole forme, adempiono stupidamente e con premura i doveri religiosi» (Licata). – «Il sentimento religioso non è che una fede cieca a quanto espongono i preti » (Palma Montechiaro). – «In generale, il contadino ha fede, né mai avviene che egli tralasci di udire la messa o di assistere ad altra funzione sacra. Dopo udita la messa, del resto, non esiterà a commettere una grassazione, se gli capita» (Ravanusa). – «Il sentimento religioso è effimero, falso e bugiardo» (Sambuca Zabut).
Provincia di Palermo. «Il sentimento religioso ha profonde convinzioni e tanto vigorose, che ogni volgare malfattore spera nel perdono di Dio; di guisa che la religione, lungi di porre un freno alle perverse tendenze, in certa guisa riesce di sprone a malfare» (Monreale).
Provincia di Trapani. «Il sentimento religioso non esiste: fede, è parola sconosciuta; tutto è superstizione la più incredibile» (Calatafimi). — «La fede e la superstizione sono sopraffatte dall’ignoranza» (Partanna). — «Il sentimento religioso è spinto sino al fanatismo» (Monte San Giuliano). — «È molto intenso il sentimento religioso, accoppiato ad una grande credulità ed a molte superstizioni» (Castelvetrano).
Altra qualità altamente negativa rilevata nelle risposte dei pretori era il nessun valore attribuito dai contadini alla parola data nonché alla testimonianza e al giuramento prestati in giudizio. Con riferimento alla provincia di Caltanissetta, il relatore Damiani scriveva: «In tutta questa provincia la classe agricola non si crede mai obbligata di corrispondere alla parola data, attesta il falso o per favorire gli amici o per spirito di mafia, e spergiura con impudenza e con intrepidezza. Inutile quindi di discendere alla enumerazione dei singoli mandamenti, di tutti essendosi avute informazioni identiche a questo riguardo». Nei molti mandamenti delle altre province, la situazione non era da meno.
«Nessun valore si accorda alla parola data nella classe dei contadini. False testimonianze, sovente» (Aci S. Antonio). — «Corrotta la coscienza dei contadini dal falso sentimento religioso, vien meno la fiducia, e la parola data e le false testimonianze sono all’ordine del giorno» (Giarre). — «Le false testimonianze non trovano freno nel principio religioso» (Randazzo). «Al giuramento non si attacca nessuna importanza morale e religiosa, giacché poi si ritiene che il confessore assolva tutto» (Misterbianco).
«Il contadino, come in generale sono tutti gli ignoranti, è di malafede. Tolto il prete, non ha fiducia in nessuno. Non c’è vincolo che lo leghi; non ci è sentimento di onorabilità e quindi la parola data per lui non ha alcun valore. Non depone quasi mai la verità. La deposizione giurata non ha per lui alcuna importanza. In materia penale è quasi sempre reticente» (Canicattì). — «I contadini non temono di deporre il falso» (Licata). «Niun nesso il contadino scorge tra il sentimento religioso e la morale» (Naro). — «Manca l’abitudine della lealtà» (Ravanusa).
«Il contadino annette poco valore alla parola data ed è proclive alle false testimonianze» (Mistretta). — «Non è sempre retto nel giudizio, nella buona fede e nella verità» (Naso). — «La parola data, nella generalità dei casi, non ha alcun valore nella classe agricola» (Alì). — «Giurano il falso in giudizio con una sfacciataggine tutta nuova» (Montalbano Elicona).