Nel terzo decennio del Seicento la città di Agrigento visse una delle sue più grandi sciagure a causa della peste che tra il 1624 e il 1626. Gli Agrigentini sperarono di trovare le ossa del loro primo vescovo per fermare l’epidemia. Si affidarono poi ad una reliquia di Santa Rosalia arrivata da Palermo
di Dante Bernini
Nel terzo decennio del Seicento la città di Girgenti visse una delle sue più grandi sciagure a causa della peste che tra il 1624 e il 1626, in una delle ricorrenti epidemie, si era diffusa in tutta la Sicilia lasciando ovunque una scia di morte e abbandono come forse in altre poche occasioni era accaduto a causa di quel contagio che pure nell’isola mediterranea era diventato un rischio grave e costante per le popolazioni a partire almeno dall’indomani della grande vittoria della flotta cristiana su quella turca nella battaglia di Lepanto del 1571. Quella battaglia che sembrava dover segnare il trionfo dell’Europa sul Levante sull’Africa musulmana e perciò l’inizio di un’era più felice per l’Isola posta nel cuore del Mediterraneo, invece, quasi per una beffa del destino, dette inizio ad uno dei più tristi periodi attraversati dalle popolazioni siciliane, vittime non solo di epidemie che parvero inestinguibili, ma anche di carestie e di quell’altro gravissimo fenomeno che fu lo sviluppo della pirateria, mai più domato se non nell’affacciarsi nell’era contemporanea e forse nemmeno del tutto se si pensa all’attività dei contrabbandieri e di quei moderni schiavisti che sono i traghettatori dall’una all’altra sponda del Mediterraneo delle correnti migratorie di extracomunitari. I modi sono diversi ma il concetto che ne sta alla base e quello della pirateria.
Il Flagello della peste e Santa Rosalia
Al flagello della peste che attraversò tragicamente l’Isola a più riprese i rimedi umani sembrano ad un certo momento del tutto inutili, oltreché costosi fino a provocare la bancarotta di intere comunità e al popolo dei credenti non rimase che rivolgersi alla clemenza divina. Lo fecero in vari modi e talvolta con esito infelice come accade a Palermo, mediante l’intercessione di una santa fanciulla romita sul Monte Pellegrino, dominante la città, inventata quasi dalla disperazione dei cittadini. Furono questi a imporre la “Santuzza” sugli altari, decretando nello stesso tempo la fine, o l’oblio che per un santo protettore la stessa cosa, delle Sante patrone della tradizione da pochi anni soltanto esposte il riconoscimento del loro Santo Uffizio nel “teatro del sole”, cioè ai quattro canti, dove trionfalmente le loro statue erano state poste a protezione dei quattro mandamenti in cui era suddivisa la Palermo “quadrata”, ciascuna santa a tutela del rispettivo spicchio di città, Cristina, Oliva, Agata, Ninfa.
Anche Girgenti si rivolse ai santi protettori, in due distinti modi, uno per così dire più colto e forse più corretto dal punto di vista religioso, cioè un vero e proprio affidamento in forma solenne alla clemenza divina, con l’intercessione della Madonna, dei santi patroni Gregorio, Libertino, Vittoria e Gerlando, nonché dei santi propri della peste, Sebastiano, Rocco, e il beato Felice, cappuccino, con l’ultima apparsa in tutta la sua gloria, la nuova patrona di Palermo Santa Rosalia.
Agrigento cerca le reliquie di San Libertino
Una reliquia di questa santa, non si sa quanto autentica, data la gelosa cura imposta da un’apparizione della stessa Santa, con la quale i suoi resti furono analizzati, catalogati e conservati, era stata portata da Palermo da frate Antonio Caruso, padre correttore dei minimi di San Francesco di Paola, con l’inespresso intento di attrarre l’attenzione, e probabilmente qualche obolo per la chiesa del convento appena finita di costruire, già verso Porta di mare. Ma ci fu poi un’iniziativa più popolare, che intendeva riprodurre il metodo seguito con fortuna dai palermitani, la cerca cioè delle reliquie di un santo agrigentina, individuato non più in San Gerlando, le cui ossa erano esposte, e lo sono tuttora, nella cattedrale, ma che gode fama di preferire agli indigeni i forestieri, bensì del protomartire Libertino.
Si misero a cercarne resti nel presunto luogo del martirio, nel piano degli Zingari, a ridosso delle mura nella parte più alta della città, poiché lo scavo e di seppellimento delle reliquie erano il vero viatico della Grazia divina. Così infatti era accaduto a Palermo con le ossa di Santa Rosalia scoperte, ma casualmente o per miracolo – meditando forse non avevano tenuto conto i fedeli di Girgenti – in una grotta. La ricerca purtroppo fu inutile, ma in quel luogo ugualmente in onore dell’antico santo fu innalzata una chiesetta, che se non era il “magnifico tempio” del quale riferisce il contemporaneo storico ecclesiastico Rocco Pirri, era pur tuttavia il segno di una devozione rimasta intatta, malgrado la delusione della ricerca infruttuosa. Di quella chiesetta non si sa più nulla, se non che in qualche tempo fu abbattuta.
chiesa di santa rosalia
Egualmente non si sa nulla della presunta reliquia di Santa Rosalia, anche se di costei sopravvisse certamente il culto, fino al punto che anche in suo onore fu eretta una chiesa, e questa né troppo piccola, come dovette essere quella di San Libertino, né di molte forme, né tantomeno in trascurato sito, se tuttora la si trova in una risega della via Atenea, uno dei più celebri affacci di quella via che il corso cittadino, sulla piazza del Purgatorio cosiddetta dal nome popolare della chiesa barocca dedicata a San Lorenzo; e si stava per dire che tuttora la si ammira, se non fosse invece gravemente deturpata per l’insensato scempio che fu fatto della sua facciata, in epoca neppure troppo lontana e che però niente a che fare con la guerra i bombardamenti che distrussero ad esempio la chiesa di San Francesco d’Assisi e fu invece uno scempio eseguito a freddo per motivi inconfessabili e che e sempre ricordato denunciato anche se non si è fatto nulla per porvi riparo. Eppure si ritrova in più pubblicazioni che materiali lapidei della facciata che fu rapidamente nottetempo smontata, furono forse per alleggerire morsi del misfatto che s’andava compiendo, in qualche segreto luogo ammassate al fine di evitarne la dispersione, e che ivi si conservino tuttora. Ci sarebbe da compiacersi di tanto persino stupefacente avvedutezza si altrettante fossero la sagacia e la preoccupazione per il pubblico patrimonio negli enti e nelle persone preposte alla salvaguardia del bene comune, o forte pressante fosse il loro invece la pretesa della cittadinanza di ottenere restauro di quel prezioso edificio, tanto significativo per la storia della città e per la nobiltà del suo volto.
santa rosalia a desta con la primitiva facciata barocca
La Chiesa di Santa Rosalia ad Agrigento
La chiesa si diceva, e di modeste dimensioni ma aggraziata, dei suoi stucchi dorati per un aspetto non trascurabile dell’arredo cittadino che solo dopo le grandi morie del 18º secolo andò rianimandosi con nuove iniziative urbanistiche fra cui è, o forse meglio era, questa chiesetta con la sua facciata convessa secondo un modello che andò diffondendosi solo nel settecento nella grande rinascita barocca della Sicilia orientale dopo le immani distruzioni del terremoto del 1693.
Sul finire dello scorso anno Vittorio Gregoretti trattando su “la Repubblica” il tema de “l’abbattimento di alcuni scempi architettonici” con riferimento alle “Vele” di Napoli (un nome così bello ahimè per un autentico obbrobrio) e all’albergo dei Fuenti sulla costiera amalfitana, sosteneva giustamente che non è sufficiente demolire il brutto ma occorre anche costruire il bello. Vorrei rovesciare i termini del suo ragionamento per sostenere che non basta costruire (o ricostruire) il bello ma occorre anche demolire il brutto. E perciò vorrei proporre che Agrigento ricostruendo con urgenza la facciata della chiesa di Santa Rosalia provveda demolire anche quell’altro autentico obbrobrio che il cosiddetto viadotto Morandi: non serve perché l’accesso alla città del traffico veloce (che tra l’altro sarebbe bene non fosse troppo veloce) può essere assicurato diversamente soprattutto lontano il più possibile dalla Valle dei Templi, è sicuramente invadente inutilmente pretenzioso, e da tutti i punti di vista dannoso per la conservazione il godimento di quella stessa valle, che oltre che preziosa reliquia storica monumentale anche un brano di irripetibile bellezza naturale. Il viadotto Morandi come già in un passato che non vorremmo più conoscere il tempio di Giove o la chiesa di Santa Rosalia, può essere a miglior ragione (“the costruito”, è il resti, se la spesa non rendesse antieconomica l’impresa, potrebbero essere portati forza San Leone, a costituire un’altra barriera and the Honda come già immeritatamente i massi dell’Olympieion nell’allora Caricatore al tempo del vescovo Gioeni