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La mafia secondo l’agrigentino Antonino Cremona

12 Aprile 2016 //  by Elio Di Bella

Antonino CREMONA
Antonino CREMONA

Antonino Cremona

Un’ironia bonaria ma inappellabile, una vasta cultura, un raffinato arsenale linguistico, la tensione civile, l’anticonformismo non sono proprietà che si acquistino dall’oggi al domani. Ci vuole una vita. E questa vita Antonino Cremona l’ha vissuta centellinando gli attimi, e da ogni attimo spremendo un succo denso di intelligenza e di stile. Non sapremo mai quanto lunga è stata la sua esistenza, poiché il conto meschino degli anni, tra il nascere e il morire, non vale per chi, come lui, ha abitato il tempo del proprio spirito, non lasciando che il rumore del mondo ne turbasse la calma musicale.
Ha lasciato a questa rivista un prezioso legato, che ancora per qualche numero protremo condividere con i lettori.

* * *

Màfia, Mafia, Mafià. Da un luogo all’altro l’accento saltella lungo questa parola. Sino a buon punto del secolo scorso si diceva, più spesso, Màffia.
Dall’isolotto Màfia (diciassettemila abitanti su 440 chilometri quadrati) dopo l’isola Pemba, a nord di Zanzibar, il significato – sempre uguale la sua radice fonica e fonetica — si è sparso nel mondo.
Lì ancora si parla swahili, e Mafia vuole dire magnificenza (grasso, olio, ricchezza, bell’aspetto) ma pure possanza intellettuale – maestria, sapienza – e persino forza bruta dei feroci corsari.
Tradizionalmente sono rimasti in giro due significati, senza elidersi: ragazza mafiosa, pietanza mafiosa, copriletto mafioso ecc. (cioè di tanta bellezza) insieme è associazione a delinquere. Nel tempo medio era un modo di delinquere la protezione dalla violenza baronale, il soccorso agli umili, la sostituzione della polizia di governo con una invece privata.
Quando agiva nel latifondo, quale strumento del feudatario, serviva a reprimere le proteste contadine. I picciotti, dati dalle nobiltà del feudo a ingrossare i Mille di Garibaldi, erano giovani di mafia: il signore, per tradizione, partecipava alle contese mandando delle guarnigioni. Questo anche in tutto il medioevo, e in quello che in Sicilia è proseguito nell’accorpamento sabaudo. La dinastia del regno delle Due Sicilie promulgava le leggi eversive per disgregare il feudo, i baroni avevano patteggiato con le industrie piemontesi la fornitura di concimi chimici – in sostituzione dello stallatico – dunque avevano vitale interesse a osteggiare il governo delle Due Sicilie. In definitiva, effettivamente il feudalesimo iniziò a sfaldarsi nel secondo dopoguerra: con l’occupazione delle terre incolte, giacché (quale che sia la concimatura ideale) i proprietari terrieri non avevano tendenza ad altro che alla vita parassitaria.
Si è sentito di mafia irlandese, russa, ucraina, cinese, nipponica, via di seguito, in Sicilia solo di mafia senza aggettivi. ‘Ndràngheta in Calabria, camorra nel napoletano, sacra corona unita in Puglia, fra loro con occasionali accordi. Da qualche tempo, per mafia s’intende qualsiasi organizzazione criminale che si sparga sul territorio. E si continua a immaginare che sia un organismo unitario. Ma la definizione oggi meglio congrua è forse quella di Santino – La mafia interpretata, 1995 — che Pasquale Natella riporta nel volume La parola ‘mafia’: «un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione di capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale».
Uno dei motivi per cui siamo ancora qui, a contrastare con le criminalità organizzate, sta nel considerare la mafia (quella a cui si conserva questa denominazione) una e monolitica, nonostante l’evidente lotta all’ultimo sangue fra le varie cosche. Non solo l’intreccio di mafia e politica, di mafia e poteri economici, la beata illusione di potervi convivere.
Dopo il tempo in cui il solo pronunciarne il nome era proibito – per non aversi diffamazione della Sicilia, ipse dixit il card. Ruffini in sue omelie – i paraocchi hanno permesso agli inquirenti, al massimo, di fare distinzione tra mafia e stidda: considerando quest’ultima come un’antimafia in competizione delittuosa. Anche se batto questo chiodo da decenni, e se Salvatore Parlagreco ha formato da tempo un’antologia a proposito delle mafie siciliane.
Renato Candida (il partigiano poi comandante dei carabinieri a cui Agrigento per episodica riconoscenza ha intitolato una strada, la figura limpida cui Leonardo Sciascia si è ispirato per il suo capitano Bellodi scrivendo Il giorno della civetta) fece vampeggiare le ire di tutti, sinistra compresa, spiegando in Questa mafia come e perché i mafiosi sanno abbarbicarsi da sanguisughe alla politica locale. Ed era di Girgenti il primo, inascoltato, pubblico ministero – Guido Mirabile – che in un processo di primo novecento parlasse di mafia.
L’involuzione, allora, teneva ferma la mafia nelle campagne. Le forze dell’ordine e i magistrati non venivano mai aggrediti. I mafiosi usavano parole gentili (avevano ‘bocca dolce’). Uccidevano, per vendetta o per reprimere le defezioni. Accadeva che il sicario aspettasse anche anni, prima di aggredire la vittima designata, per non coinvolgere estranei nel suo crimine. Perso valore economico la campagna, per effetto dell’inurbamento, le cosche – trasferitesi in città – hanno smarrito il ‘codice d’onore’ e le originarie ‘buone maniere’. Si sa cosa la cosiddetta mafia è riuscita a combinare.
Leonardo Sciascia considerava: se tutto è mafia, niente è mafia. Un antico adagio che adattava alla situazione corrente. Lui si riferiva alla ‘mafiosità diffusa’, alla cultura di soggezione che ingiustamente veniva attribuita ai siciliani. Ma la ‘Sicilia babba’ – cioè insipiente di mafia, la parte orientale con una sorta di isola mafiosa a San Cono – divenne presto, nel secondo dopoguerra, più ‘sperta’ (più scaltra, più ‘mafiosa’) di quanto ve ne fosse nella Sicilia centroccidentale.
Si vide mafia veneta, spontaneamente germogliata lassù. Il domicilio coatto diffuse i sistemi di mafia nel resto d’Italia. Anche lo Stato si fece mafioso, inventando il 41bis, così come sono assassini gli Stati che ricambiano le uccisioni con la pena di morte. Per norma costituzionale, il carcere serve a rieducare. Contro questa regola è tuttora l’ergastolo, giacché tiene in clausura senza reimmettere in società alcuno. E anche il razzistico isolamento previsto dal 4Ibis è contrario alla regola costituzionale. Anzi, è pure una confessione d’impotenza: tanto più inutile quanto più rabbiosa.
Tutto, dunque, è da rifare.

Categoria: Attualità

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