Allorché si sale alla Girgenti moderna, colla testa piena dei ricordi, delle memorie, dei nomi, degli splendori dell’Acragas antica, se un certo senso di delusione vi prende siete scusati.
Girgenti non è certo l’ideale delle città moderne; delle città quali le comprendiamo o le desideriamo noi, incontentabili figli del secolo decimonono, cui gli agi e il com-fort, i progressi nel bene e nel male, nella virtù e nel vizio, nei piaceri e nelle sensazioni, delle grandi città in ispecie, e delle continentali in particolar modo, hanno guasto ed ottuso , il palato, sì che non sente se non lo eccitano forti vibrazioni d’ogni genere. Questo che diciamo non dovrebbe urtare la suscettibilità della cittadinanza girgentina, che sa e vede; come nulla toglie alla gentilezza sua ed alla bellezza naturale dell’ambiente nel quale vive.
La posizione, piuttosto incomoda della città sulla vetta d’un monte, a quasi 350 metri dal livello del mare, appartata, si può dire, per molti secoli, dal rimanente della Sicilia, a cui non l’univano che poche malagevoli strade mulattiere ed una mal sicura via postale, od il mare; considerata dai governi del passato nell’Isola, ed un po’anche del presente, con occhi di noverca; limitata nelle espansioni della sua attività alla troppo oscillante industria degli zolfi, od alle tristi condizioni delle industrie e produzioni agricole, non deve far meraviglia, nè suscitarle contro rimproveri, se Girgenti si trova alquanto in arretrato al confronto di altre fra le maggiori città, nonché dell’Italia continentale, della stessa Sicilia: anzi questo stato di cose dovrebbe esser sprone, in chi può e deve, ad incoraggiare, ad aiutare moralmente e materialmente, la nobile, – se non la magnifica — come la dissero gli antichi — città, sulla via di quella graduale trasformazione, di quel progresso morale e materiale, sulla quale, certa ormai dei suoi destini e della fibra forte, laboriosa del suo popolo si è messa, nella fede di non più arretrare.
tempio di ercoleLe glorie luminose del passato, meglio che un titolo di vana vanteria, unite alla efficace volontà dei suoi figli, sono oggi per Girgenti uno stimolo potente a perseverare su questa via che in un non lontano avvenire la metterà al posto che le compete fra le illustri città della Sicilia non solo, ma dell’ Italia tutta.
Più che nei particolari, fra le sue vie strette, tortuose, or salienti alla vetta del monte or discendenti a valle, intersecantisi in una pianta confusa, ingarbugliata di chiassuoli, di piazzette, di viuzze, di passaggi, il visitatore trova a sorprendersi, a dilettarsi, nel panorama complessivo, sempre nuovo e vario che la città presenta: sia che la si osservi dall’alto della rupe Atenea, o dal Duomo, o giù dal basso della valle dei Templi e dal mare. Anzi dal mare, quale appare da Porto Empedocle, tutta scaglionata, inerpicantesi per la montagna, l’aspetto di Girgenti assume i tratti di una vera imponenza.
Minore impressione produce in chi sale alla città, dalla via che porta alla stazione ferroviaria. La roccia scoscesa, sulla quale dovevano posare le fondamenta di Omface e di Camico, e che si avvalla quasi in una serie di profondi burroni, non lascia scorgere dietro le mura se non l’abside e la cupola del duomo, le torri, i pinacoli, i tetti degli alti edifizi, che, più si sale verso la città, pare si abbassino, e scompaiano gli uni dietro agli altri quando finalmente l’ansimante bucefalo della sgangherata polverosa carrozzella vi avrà faticosamente trascinato al livello di quella grande squamatura della roccia, davanti al nuovo Palazzo provinciale e della Prefettura — squarciatura, come già accennammo, attribuita ad Empedocle.
La via Atenea è l’arteria della vita Girgentina:
attraversa la città in direzione da oriente ad occidente, tagliandola in due sezioni disuguali: superiore la maggiore, inferiore la minore. La vita ed il commercio della città — di circa ventiduemila abitanti — si concentrano in questa via, che nei giorni festivi, quando accorrono per le provviste dalle cittaduzze e dalle borgate circostanti i contadini, coi loro vestiti caratteristici di sargia nera e di velluto, attillati, colle loro mantellette ed i loro cappucci, prende un’animazione curiosa, singolare.
Se poi, come a chi Scrive, accade di capitare a Girgenti nel giorno di qualche speciale festività paesana — celebrantesi generalmente in Sicilia, come in tutti paesi meridionali, con variopinte, rumorose, interminabili processioni vespertine o serali — allora vedi la via Atenea pavesata a bandiere marittime di tutti i colori e di tutte le nazioni possibili ed immaginabili e di tutte le segnalazioni portate dal codice telegrafico semaforico internazionale: con festoni di verdura tirati ad arco fra una casa e l’altra; cordicelle sorreggenti una miriade di lampadine e lampioncini di carta per la luminaria alla veneziana; bandieruole e stendardi ed orifiammi di carta da incendiarsi, da strapparsi dalla folla dei monelli, grandi e piccini,, dopo il passaggio della processione, per finire degnamente il festino — che così in Sicilia son chiamate codeste cerimonie pseudo-religiose.
hotel des templesE quivi, sono pur troppo, per quanto insigniti di pomposi nomi, i deplorevoli hotels della città, che nei mesi di chiusura dell’aristocratico Hotel des Temples — aperto soltanto nella stagione d’inverno — hanno il non grato (pei forestieri s’intende!) ufficio di spellare i viaggiatori che vi capitano ; e ciò colla maggiore malagrazia del mondo, nella città ricordante ancora gli splendori ospitali di Gellia e di Antisteno!
Gustavo Chiesi in La Sicilia Illustrata, 1892 Milano