«Mi piacerebbe sapere qualche cosa della città, dei cittadini, della condizione economica, della coltura …». Così scriveva il Cavaliere Professore Felice De Leo, già Provveditore agli Studi, all’amico ‘Templare” nel dicembre 1888.
L’amico templare, Virginio Rambelli, prefetto di Agrigento, nell’ottobre 1889, con quasi un anno di ritardo, ha elaborato un quadro di straordinaria bellezza con molte luci e poche ombre della vita economica, sociale e culturale della città di Girgenti di fine ’800. Lo fa in 48 pittoresche pennellate a forti tinte e con ciascuna rappresenta un aspetto caratteristico di una città di 23.000 abitanti, ricca di sole, di splendidi paesaggi, di storia, di templi, di filosofi, di scuole, di circoli, di opere pie, di tradizioni e costumi, di chiese, di biblioteche, tipografie, alberghi, di hotel, di giardini e di un magnifico teatro «non inferiore ai più eleganti del continente».
I suoi abitanti sono descritti d’indole mite e buona, educati e cortesi, laboriosi, rispettosi e pacifici, non si occupano di politica. Artigiani, contadini e proletari erano tranquilli, docili, capaci di sopportare ogni sorta di privazione.
Con gli occhi della mente e dell’immaginazione, il lettore di questo breve saggio, a distanza, può percorrere l’intera città in lungo e in largo, dalla Valle dei Templi alla Cattedrale, dalla Porta dei Venti (Bibbirria) a Porta di Ponte vivendone anche il clima, la cultura, le tradizioni, i mestieri, la quotidianità. Mai i colori di questo straordinario mosaico diventano più ombrosi ma pur sempre idilliaci, quando l’autore ci descrive le condizioni di vita dei contadini costretti a vivere in fetidi catodi assieme alle bestie da soma e a lavorare dall’alba al tramonto per un pezzo di pane. L’autore, con immagini descrittive chiare, dettagliate, tipiche del verismo nostrano, rivela la sua natura conservatrice quando parla e descrive l’industria agricola di cui fa un bozzetto idilliaco surreale che non tiene conto delle condizioni del feudo costituito di terreni incolti, molti dei quali destinati al pascolo, brulli e privi di vegetazione arborea dove i contadini, i braccianti lavoravano e sudavano per 14 ore al giorno per sfamare se stessi e a malapena le loro famiglie. «Fortunatamente la fertilità della terra e il clima benefico suppliscono ai difetti dell’opera dell’uomo, difetti peraltro che diminuiscono gradatamente mercè le cure d’intelligenti proprietari … ».
panorama di girgenti«…Nell’agro agrigentino si coltivano principalmente il grano, l’orzo, le fave, le viti, pochi ulivi, pochi alberi di frutta, molti mandorli e moltissimi fichi d’india .[…] I legumi e gli ortaggi non sono coltivati in grandi quantità per la scarsezza dell’acqua. Ad ogni modo si hanno piselli, carciofi ed ortaggi che favoriti dal clima cominciano ad essere raccolti da dicembre a tutto maggio». Gli “intelligenti” proprietari a cui si riferisce l’autore sono i baroni feudali, i quali anche se nel 1812 rinunciarono ai titoli di giurisdizione, mantennero i loro vasti feudi che erano costituiti da 200 a 1500 ettari e oltre, distanti dalla città 6 -10 chilometri di solito destinati alla coltura estensiva. Le terre erano affidate a gabellotti in affitto, i quali le subaffittavano ai contadini per lavorarla per un intero anno con mezzi arcaici, zappa, aratro e braccia, per poi dividere il raccolto con i gabellotti, i quali pretendevano i due terzi, o i tre quarti ma mai la metà.
Nella provincia di Agrigento nell’Ottocento e fino a tutta la prima metà del Novecento si potevano percorrere alcune decine di chilometri senza incontrare un albero, una casa, un pozzo, una trazzera carrozzabile, ma si incontravano lunghe file di bestie da soma, cavalli, asini e muli che si spostavano all’alba per recarsi al feudo e al tramonto per ritornare in paese. Molti latifondisti non avevano mai visto e visitato il loro feudo, vivevano spensierati in città e non investivano per migliorare e rendere sempre più fruttifero e ricco il loro podere a vantaggio proprio e degli altri.
I contadini, guadagnavano «[…] in media una lira e 30 centesimi al giorno con ché dovendo mantenere sé, la famiglia e gli animali domestici, tirano innanzi come possono vivendo di pane, di cacio, di una minestra d’erbe condita con l’olio, e secondo la stagione di pomodori, di aranci, di fichi d’india, di cetrioli, che i girgentini chiamano cocomeri». E l’autore, senza un’approfondita riflessione, senza mettere in discussione l’arcaica struttura feudale, né il governo della città in mano a reazionari camerìllotì, appoggiati dalla Chiesa che in quegli anni aveva un peso determinante nella vita politica agrigentina, attribuisce le cause di tanta miseria a quei poveri braccianti agricoli che non lavoravano tanto quanto potesse essere sufficiente a creare una rigogliosa economia agricola.
Allora l’autore suggerisce una conservatrice e reazionaria soluzione risolutiva che avrebbe raggiunto almeno quattro obiettivi: eliminare il fetore della città prodotto dalle bestie da soma; allontanare i bambini dalla città per la cui istruzione il Municipio non aveva fondi per potervi provvedere; togliere dall’ozio forzato le donne dei braccianti e far lavorare ancora di più i contadini recuperando le ore di andata e di ritorno dal posto di lavoro. Così il Templare espone le sue proposte per incentivare lo sviluppo agricolo: «Le condizioni dei contadini non potranno essere migliorate finché non si costruiscano molte strade rurali, e molte case in campagna, ove siano obbligati dai proprietari ad abitare colle famiglie. Così si aumenteranno le ore di lavoro, evitando l’andata e il ritorno dal podere, che potrà essere meglio coltivato e guardato, e si toglieranno dall’ozio forzato le loro donne e i loro piccoli figli, i quali abbrutiscono in mezzo alle vie della città, languendo nella miseria, non essendo possibile per essi l’applicazione della legge sulla istruzione obbligatoria. Laceri, sporchi, senza un soldo per comprare libri e carta non possono essere ammessi alle scuole pubbliche, ed il loro numero eccessivo non acconsente al Municipio di provvedere per tutti. Se i contadini potessero abitare nelle campagne, Girgenti guadagnerebbe assai in fatto di igiene e di pulizia oggi molto trascurata massime nei tuguri dei poveri e dei villani, che chiamano catodi.».

Eppure nello stesso periodo, siamo a tre anni dalla sollevazione dei Fasci, dei borghesi illuminati come l’avvocato Francesco De Luca, l’avvocato Nicolò Gallo, l’avvocato Antonino Pancamo e tanti altri, anche se con orientamenti politici opposti, studiavano e difendevano soluzioni alternative per dare dignità umana ai lavoratori della terra, ai loro figli e alle loro donne. di Francesco Curaba