La festa di S. Calogero è la festa più sentita e più attesa dell’anno perchè gli Agrigentini amano il venerando monaco basiliano più di ogni altro santo. Arriva col primo caldo e come tutte le feste tradizionali riesce una sentita manifestazione di fede e una magnifica dimostrazione folkloristica. Del nostro santo storicamente sappiamo pochissimo.
Una tradizione parla di sette fratelli che portavano il nome di Calogero e appare chiara la confusione con sette monaci dello stesso ordine, venuti da lontano a diffondere il Vangelo e far del bene alla nostra gente.
Dall’etimologia del nome greco: Kalòs Gèron = bel vecchio, si pensa che dovette essere un bell’uomo, alto ed imponente, una grande figura ieratica, come lo raffigura la nostra statua. La tradizione lo dice originario di Calcedania e pare che non sia quello venuto in Sicilia ai tempi di Nerone, nè il S. Calogero, asceta di Lipari, che vide piombare nell’inferno l’anima di Teodorico. E’ un santo nero nero, tanto miracoloso, che visse tra il settimo e l’ottavo secolo, e pare sia venuto nella nostra terra insieme a Gregorio e Demetrio.
La stessa tradizione asserisce che il santo girò tutta la Sicilia curando gli ammalati nello spirito e nel corpo, e che sostò parecchio tempo a Naro in una grotta che ancora oggi si può vedere nella cappella quattrocentesca sottostante alla chiesa a Lui dedicata. Ad Agrigento visse molti anni nella grotta che aveva scavato nel posto ove ora sorge il coro della chiesa sita all’inizio del Viale della Vittoria e da qui passo a Sciacca, dove si crede sia morto sul Monte Cronio.
Il popolo con versi estemporanei e sentiti ne tesse il più alto panegirico quando dice: San Calojaru di Naru – di grazii nni fa un migliaru, San Calojaru di Giurgenti fa li grazzi a tutti la ggenti. Per il Popolo quindi, il nostro santo non stabilisce limiti o fa discriminazioni: fa le grazie a tutti coloro che ne hanno bisogno.
Nelle chiese a lui dedicate migliaia di ex voto testimoniano la fede del popolo e la tenerezza del santo per gli ammalati, i sofferenti e i bambini. Oggi la festa per quanto decimata, conserva ancora gran parte della sua fastosità e della sua imponenza e si protrae per otto giorni.
Una volta quando la festa era più sentita e più esuberante, tutti i giorni della prima decade di Luglio erano densi di manifestazione religiose e di giochi pubblici. Da metà Giugno alla prima domenica di Luglio, mattina e sera, una squadra di tamburini, una ventina circa, girava per le vie della città suonando la «DIANA» un rullar nutrito, prima cadenzato e solenne, poi impetuoso ed assordante.
Molti Agrigentini, per sciogliere il loro voto facevano, e molti lo fanno ancora, «U VIAGGIU ‘MPIDUNI» andavano cioè, a piedi nudi da casa loro alla chiesa. Venivano da Santa CROCE, altri addirittura da S. Leone e dalle borgate. Attraversavano le strade, anche bagnate, pregando e poi cadevano in ginocchio ai piedi del Santo con tanta fede e tanta riconoscenza.
A Porta di Ponte e nella piazzetta antistante alla chiesa si vendevano i « Sancalojaruzzu » piccole statuette fatte con poca arte, a volte con poca grazia, ma che tutti compravano, che tutti portavano a casa per avere vicino il protettore ed invocarlo ed averne conforto nelle ore più dolorose o più decisive. Anche attraverso un’immagine rozza, il popolo sincero si rivolgeva al Santo; «ad firmandum cor sincerum sola fides sufficit». I ragazzi, per due soldi, acquistavano «u Sancalojaru cu friscu» una statuetta di terracotta che alla base portava un fischietto. Quell’aggeggio adoprato da migliaia di ragazzi rendeva più gaia e rumorosa la festa ma… rompevano i timpani. Nei pomeriggi dell’ottava «O CHIANU S. FILIPPU» oggi Piazza Vittorio Emanuele c’erano i giochi: «A RUTTURA ‘I PIGNATI» = la ricerca del tesoro; la CORSA COI SACCHI e L’ALBERO DELLA CUCCAGNA.
«A ruttura ‘i pignati» era un gioco molto buffo e molto divertente, esilarava il pubblico più d’ogni altro. Mentre la musica intercalava le canzonette di moda alle mazurche e ai valtzer, un giovinastro con gli occhi bendati, armato di un nodoso bastone, cercava di colpire una delle cinque pentole di terracotta che nascondevano il tesoro e che facevano bella mostra di sè attaccate ad una trave. Il giovane doveva orientarsi un pò con la memoria e un pò col consiglio della gente che non sempre era spassionata, anzi…, e doveva dare botte da orbi.
Alcune volte il giovane battitore diventava centauro: veniva portato a cavalluccio da un facchino che veniva a trovarsi tra due fuochi: da una parte il bendato che gli dava calcagnate nei fianchi perché lo portasse nella giusta distanza per colpir bene; dall’altra il popolino che gl’imponeva di aggirare il bersaglio per allungare il gioco e far ridere di più. Nelle pentole, di solito cinque, si trovavano rispettivamente: passeri, una coppia di colombi, acqua colorata, topi e… il tesoro: un premio in denaro che bisognava dividere col portatore quando il fortunato battitore era montato. Si usava questo secondo sistema perché la folla potesse veder meglio tutte le fasi del gioco.
Per la corsa nei sacchi i partecipanti dovevano entrare dentro capaci sacchi di olona che si legavano sotto le ascelle del corridore.
Al segnale di partenza i concorrenti si muovevano, ma non potevano farlo che in maniera molto buffa tra le risate della gente. Fatti pochi passetti perdevano l’equilibrio, cadevano a terra e dovevano aspettare che qualche amico compiacente li aiutasse a rimettersi in piedi. La corsa era punteggiata da incoraggiamenti, frizzi e sarcasmi e moltissime risate. Il premio era costituito da una moneta da… Cinque lire…
L’albero della Cuccagna «’a ‘ntinna» ad Agrigento differiva da quello degli altri centri dell’Isola. Di solito esso era costituito da un’alta trave, piantata verticalmente sulla piazza principale del paese ed unta di sapone. I giovani dovevano scalarlo a forza di braccia e di ginocchia, e in qualche posto, potevano servirsi di un pezzo di corda «a pastura». Dopo aver sudato tanto per ascendere un pò, lo scalatore scivolava già fra le risate della gente. Quando qualcuno riusciva a superare i due terzi della trave e mostrava di avere possibilità di raggiungere la meta, la gente lo seguiva con ansia, trattenendo a volte, anche il respiro. La vittoria era coronata da ricchi premi posti in cima alla trave. A Sciacca e nei paesi marinari, invece, la trave era posta orizzontalmente a fior d’acqua. Dai moli e dalla spiaggia la gente guardava ed incitava, bisognava camminare sulla trave unta di sapone e toccare l’altra estremità. Ad Agrigento l’albero della Cuccagna era costituito da un piano inclinato su cui bisognava arrampicarsi aggrappandosi alle sporgenze delle varie tavole poste una sull’altra in modo da darne la possibilità. I bordi delle tavole, e le tavole stesse erano cosparse di sapone in modo che l’aggrapparsi non riusciva facile. I concorrenti pigliavano la rincorsa, vi si slanciavano contro con tutto il corpo per potere andare più in alto ch’era possibile e asportare, con gli abiti, più sapone che si poteva onde rendere meno scivolosa l’ascesa. Fortunato colui che arrivava per ultimo:trovavail piano quasi senza sapone e poteva ascendere con certa facilità.
In cima si trovava un premio in denaro e un gallo o un agnello per il primo arrivato; per il secondo c’era un pranzo completo: ‘na cartata ‘i pasta (Kg. 5), un chilogrammo di carne, un fiasco di vino, delle patate, dell’estratto di pomidoro per il ragù e due sigari toscani.
La sera la Villa Garibaldi era illuminata a giorno da palloncini alla veneziana, nella parte alta (oggi Via De Gasperi) si sparavano le bombe a cannone e davanti al cancello, dove ora c’è il palazzo del Genio Civile e quello dell’Iniel si sparava «u casteddu focu » = i giuochi pirotecnici. La gente ammirava la varietà e la potenza delle girandole (circhitedda e girrialora) e dal fragore delle bombe misurava la maggiore o minore abilità del fochista.
All’ultimo nel castello, tra mille luci multicolori, campeggiava alta e maestosa, l’immagine del Santo.
Il giorno della festa uomini, donne e bambini preceduti da un tamburo che rullava allegramente, e seguiti dai parenti, portavano in chiesa «li prumisi» quanto la gente aveva promesso durante l’anno al santo.
Erano pesantissime torci da quindici o sette rotoli (dodici Kg o sette) o altre più piccole, adorne di tante banconote e di nastri.
Coloro che erano stati liberati da qualche pericolo o risanati da qualche malattia, portavano le torci; coloro che avevano avuto la guarigione degli arti spezzati portavano un pane avente la forma di un braccio o di una gamba. Il pane aveva il peso (presunto) del braccio e della gamba guarita. Dopo la benedizione questo pane veniva distribuito ai poveri. Nella mattinata una lunga teoria di muli, parati a festa con nastri e gualdrappe «a retina», portava le derrate e il grano offerti dai singoli o raccolti nelle aie da questuanti i quali, in segno di riconoscimento portavano una cerva di cartapesta, l’animale tanto caro al santo. Di questi muli carichi, certi anni, se ne contavano fino a cinquanta.
Dietro a loro sfilavano capre e agnellini dalle corna infiorate e ornate da nastri. Quando un allevatore un contadino o un pastore aveva il bestiame ammalato, per ottenerne la guarigione prometteva al santo una capra o altro capo di bestiame e siccome non ne rimaneva mai deluso, consegnava al Comitato organizzatore della festa, a «Cummissioni», l’animale promesso. Indi questi veniva o riscattato, cioè il proprietario pagava al Comitato il corrispettivo con denaro o veniva venduto per essere devoluto in opere di beneficenza o per pagare le spese della festa.
II fondo per i maritaggi delle ragazze povere, in gran parte era costituito da questa entrata. Oggi tante belle tradizioni, ricche di poesia e di insegnamenti si vanno perdendo. E’ un bene sfrondarle di tutte le sovrastrutture banali ma è male abbandonarle completamente.
A mezzogiorno preciso inizia Ia processione. Il fercolo, pesantissimo, viene portato a spalla da tre squadre di quaranta uomini che si alternano nelle «veci». Una volta i portatori indossavano «l’abitu», una penitenza nera, come quella del santo, che si portava sulla camicia al posto della giacca, e «u birriuni», un fazzoletto sgargiante, legato alla nuca che proteggeva la testa dai cocenti raggi del sole. Oggi vanno in maniche di camicia e per distintivo portano un fazzoletto nero legato al collo. II fazzoletto serve anche per asciugare il sudore e spesso questo sudore è tanto da fare sciogliere il colore del fazzoletto cosicchè il viso del portatore spesso più che asciugato resta imbrattato di nero. A volte si assiste a scene che potrebbero sembrare di fanatismo o di furore superstizioso ma che invece sono dettate e giustificate dall’amore genuino e quasi primitivo del popolo verso il santo, e della sua perfetta buona fede. Durante la processione tanta gente si arrampica sul fercolo per abbracciare il santo e baciarlo sulla barba e sulla bocca e chiedergli con più confidenza la grazia. Nel calore della richiesta qualcuno squassa violentemente la statua del santo e lo minaccia, quasi, di non farlo procedere se non gli farà la grazia.
Atri passa il proprio fazzoletto sul viso quasi ad asciugargli il ‘ sudore: quel fazzoletto poi sarà posto devotamente sulla fronte dei febbricitanti. Altri mettono sulle braccia venerate i propri neonati perchè il santo, li benedica e li faccia crescere sani e buoni.
Intanto da tutti i balconi si butta pane nero a fette. E’ una pioggia continua: da tutti i balconi, da tutte le finestre. E’ una tradizione che ricorda un episodio della vita del taumaturgo, l’episodio che predica l’eroismo della sua carità e del suo amore per il prossimo dolorante.
Mentre una fiera pestilenza tormentava la nostra città, allora la peste distruggeva città e regioni intere, la gente se ne stava tappata in casa per paura del contagio. I contadini non andavano più in campagna, i mugnai non molivano il grano, i negozi erano chiusi, i generi di prima necessita erano divenuti irreperibili. Coloro che non avevano buone scorte di viveri e di denaro morivano di fame. San Calogero, ad evitare che tanta gente, infetta ed abbandonata, morisse di fame era sempre in giro ad assistere i moribondi, confortare gli abbandonati a aiutare i poveri.
Avanti alle porte degli abbienti gridava: Se hai due pani danne uno a chi non ne ha; se avete paura di contagiarvi buttate il pane dalla finestra, io lo porterò a chi ha fame, a chi muore di fame.
Come sempre una fiumana di popolo segue costantemente la processione che attraversa le vie della città. La sera si accendono le luminarie e si lanciano i palloni ad aria calda. Per le strade non mancano le bancarelle multicolori che vendono « calia e simenza» e i venditori ambulanti con canestro e lume ad acitelene la sera, che t’invogliano a comprare « u passatempu »: nuciddi americani e « simenza », semi di zucca e arachidi tostati. In fondo al Viale della Vittoria, e quest’anno nell’ex caserma Crispi, sfavillano mille lampade del Luna Park e gli altoparlanti gracidano le canzoni più in voga. Nel Viale si svolge la FIERA delle mercanzie. Centinaia di baracconi vendono le cose più disparate, dalle brocche e vasi di terracotta « grasti e quartari di Cartagiruni » alle poltrone di vimini; dalle scarpe alle stoffe, ai dolciumi; dagli utensili alle bijutterie. La gente acquista un po’ perché si illude di comprare a buon mercato. Cento lire un bracciale ! Una collana, un paio di orecchini, cento lire ! Ovunque splendori, bagliori, luccichio d’oro; ma…unn’è tutt’oru chiddu chi luci.
Giuseppe Grado
L’amico del popolo, 12 luglio 1964, anno X, numero 24, p.2