Uno studio rivela: era un falso il diploma attribuito al normanno re Ruggero, grazie a cui la Chiesa agrigentina pretendeva il diritto alle decime
Giuseppe Salvioli, Le decime di Sicilia e specialmente quelle di Girgenti. – Ricerche storico-giuridiche. Palermo, Bober, 1901. – 8.°, pp. 109.
Il libro è diviso in sei capitoli: Titoli; Teoriche sull’origine dominicale ; La proprietà e le imposte in Sicilia sotto i Normanni ; I re Normanni e lo decime sacramentali; Le decime di Girgenti; Gli argomenti per la dominicalità. – Precede una Introduzione e segue una Conclusione.
Dibattendosi vivissima la questione sulla dominicalità o sacramentalità delle decimo siciliane, l’A. si propone di studiare la questione storicamente — avendo uno speciale riguardo a Girgenti —, per portarvi una parola definitiva. E comincia con l’esaminare i diplomi relativi alle decime siciliane dell’ XI o del XII secolo, fermandosi specialmente su quello del 1093, per il quale la Chiesa agrigentina vanta il diritto di decima.
Il diploma del 1093 appare la prima volta in una copia del 1510, di mano d’un regio segretario, solennemente autenticata da notaio con intervento del clero della diocesi; e in una seconda del 1555. In esso si parla di assegnamento di terre al vescovo, con determinazione di confini ec., ma non ai accenna affatto a decime. Ma il 1635, per una controversia sorta tra il vescovo di Girgenti e il principe Paternò, che vantava diritti sulla parrocchia di Caltanissetta, vien in luce un’altra redazione dello stesso diploma con l’aggiunta : « cui [vescovo di Girgenti] in parochiam assigno [io Ruggero] quid – quid infra fines subscriptos continetur, cum omnibus iuribus decimarum et aliorum iurium parochialium tam civitatis agrigentine « quam diocesi ». In questa forma venne pubblicato subito dopo nella Sicilia Sacra del Pirro e di poi apparve sempre in questa copia, che fu anche ufficialmente riconosciuta esatta dal governo borbonico.
Ma, com’era naturale, l’inciso delle decime fu causa di contestazioni e di liti, e fu messa in dubbio l’autenticità del diploma normanno. Già fin dal 1656, in occasiono della lite con il Paternò, erano sorti gravissimi dubbi sulla autenticità, e la critica andò appuntando sempre più le sue armi ad esso, specialmente per opera dello Starabba.
Il S. riesamina il diploma ed osserva :
1. Manca in esso la intestazione solita a trovarsi in tutti gli altri diplomi autentici di Ruggero conte (dai primordi al 1190): privilegium o sigùlum factum et concessum ec., che scompare solo nell’epoca reale, quando i diplomi portano invece l’intitolazione sovrana.
2. Nel diploma si contiene l’inciso: pontificante Urbano II e regnante Ruggero duca di Calabria e del ducato di Apulia, quasi ad accennare alla dipendenza di vassallaggio del conte di Sicilia dal figlio del Guiscardo; mentre si sa che il vassallaggio era cessato di diritto con la conquista che Ruggero aveva fatto di Messina e del Valdemone; la intitolazione regia e quell’inciso sono caratteristiche di questo e di altri diplomi per le chiese di Mazzera e Siracusa, dello stesso anno.
8’ La frase «anathemate damnetur», con cui Roberto sanziona ciò che concede nel diploma, non ricorre negli altri diplomi. In essi, quando si tratta di deprecazioni religiose, o s’usano forme generiche o la scomunica vien data per autorità e concessione del pontefice, e si dice espressamente; la forma deprecatoria del diploma nostro è propria di tempi posteriori al secolo XIV, quando la monarchia siciliana rivendicava a sé tutte le facoltà proprie del papa.
4. Preambolo e chiusa quasi identici e in questo e nei due diplomi citati di Mazzara e Siracusa (1093) fanno pensare ad una straordinaria povertà di concetti nei cancellieri, mentre si sa che sono sempre assai esperti in questa materia.
5. La Chiesa di Siracusa avrebbe avuto nello stesso anno (1095) due diplomi, quello in questione ed un altro sincrono, che è probabilmente l’originale di Ruggero, e molto diverso nel preambolo.
Onde l’A. conclude per la falsità, ed avanza l’ipotesi, per noi molto probabile — qualora bensì l’esame paleografico non si opponga — che le tre chiese di Girgenti, Mazzara e Siracusa, avendo « perduti i titoli originari rilasciati dal conte Ruggiero, ne abbiano cavato uno da un diploma greco (autorizza questa ipotesi la parola anatema) e per evitare il pericolo di correre in errori che avrebbero agevolato lo scoprimento della falsità abbiano adoperato unico preambolo » (p. 25).
E poiché la bolla di Urbano II che riporta il diploma in questione non ha l’inciso delle decime, e non è lecito ammettere una dimenticanza di tal genere, non si può se non concludere che sia apocrifa anche la bolla, cosa del resto non strana in quei tempi in cui, distruggendosi, specialmente per incendi, gli archivi, si provvedeva a rifare gli atti a memoria. La ragione poi delle falsificazioni di Girgenti, Mazzara e Siracusa sta probabilmente nelle controversie per i confini della diocesi : Girgenti in ispecie, che era sempre in lotta con Siracusa, dovette, dopo la distruzione dell’Archivio del 1250, ricostruire i diplomi perduti.
Ma, osserva l’autore, l’essere o non essere apocrifo il diploma non conta, poiché ci consta da uno storico sincrono, ufficiale, Goffredo Malaterra, che Ruggero provvide delle decime le diocesi e le chiese dei castelli demaniali e feudali, e che successivi diplomi approvarono implicitamente la concessione. Oltre a questi, altri diplomi, ancora posteriori, confermano le decime di Girgenti.
Le decime adunque non si possono negare. Resta a vedersi di che genere esse sono (cap. II). Chi le vuole di origine puramente ecclesiastica, e chi di origine dominicale, facendole risalire niente meno che a Gerone, dal cui regno sarebbero passate ai Romani, ai Mussulmani, ai Normanni, ai Vescovi.
Ma il Saivioli con molta chiarezza e prove alla mano dimostra che la decima romana era un’imposta, che si aumentò con i bisogni di grano da parte di Roma, e che fu completamente levata quando, conquistata l’Africa, l’Egitto dava a Roma grano sufficiente; che con questa esenzione coincide l’elevamento politico delle città siculo a città latine fino a Diocleziano, il quale appunto per ciò impose un’imposta a tutta l’Italia e alla Sicilia ;
che con Teodorico la Sicilia pagava un’imposta fondiaria conforme alla misura ed ai frutti del terreno; che sotto Giustiniano pagavano, parte in natura e parte in denaro, i possessore la jugatio, e i senatore la glebalis collatio; che tutte le tasse siculo subirono un inasprimento sotto Leone Isaurico.
Da tutto questo si vede che decime non se ne pagarono mai, ma che le contribuzioni furono vero imposte di varia natura ed entità secondo i tempi. Cosi la teoria della dominicalità viene a mancare di fondamento. Anteriormente alla conquista normanna non esistevano più le contribuzioni di grano per causa della incorporazione della Sicilia nell’Italia, e le altre erano imposte.
Nè è per nulla giustificabile l’opinione di chi parla di decime di ager publicus, giacché questo non esisteva più al tempo dell’impero. Le chiese di Roma, di Ravenna e di Milano ottennero dei feudi patrimoniale» o massae di proprietà degli imperatori: queste massae erano coltivate da coloni affidati alle cure di conductores, i quali raccoglievano da loro le quote in natura o in denaro (circa i due terzi e non mai dette decima), e poi anche la burdatio o imposta.
La Chiesa non ebbe dono di decima, non di terre che portassero coloni, cioè proprietari che avessero obbligo di decimare. Per la Chiesa i coloni erano strumenti del fondo, ad esso legati, che coltivavano e pagavano, in denaro, in natura, in prestazioni secondo la lex colonica: ma a loro non spettava alcun diritto, alcun possesso; la vera proprietaria era la Chiesa, che, come si disse, pagava anch’essa la sua imposta.
Nè si ebbero decime di origine araba. La conquista araba portò la occupazione dei beni imperiali e delle Chiese. I coloni rimasero a posto e cambiarono soltanto il padron : il resto della popolazione visse con le proprie leggi, pagando solo la gezia (testatico) e il kharag (tassa sui beni).
E poiché il dominio esclusivo della terra spettava di diritto ai credenti in Maometto, così gli altri per il godimento dovevano pagare il kharag; e in questo modo si ruppero, presumibilmente, anche tutti i rapporti enfiteutisi precedenti. Onde delle due,
l’una: o Ruggero, venuto per liberare le popolazioni dagl’infedeli, mantenne la gezia, e allora concesse alle chiese il diritto di imposta sui cristiani come facevano prima i Musulmani — ciò che in ogni caso non sarebbe più che un tributo —; o Ruggero divenne proprietario di tutte le terre sicule, che concesse a chiese e a baroni riservandosi una decima, e allora bisognerebbe provarlo, e dimostrare inoltre « perchè egli e i suoi successori alienarono « questa decima, nessuna più trovandosi nelle mani dei re normanni » (p. 62).
Sulla scorta di documenti e con molta diffusione, nel capitolo seguente (III) il Salvioli dimostra che i Normanni al tempo della conquista non confiscarono tutte le terre, e non imposero per ragioni di dominio alcuna decima; che i proprietari furono conservati, e la conquista fu limitata alle terre di chi oppose resistenza e di chi emigrò;
che i beni furono concessi a vassalli, a baroni e, in piccola quantità, a chiese; che tutti costoro riscuotevano dai villani le varie prestazioni, ma che il re non riceveva da nessuna classe tributo alcuno come riconoscimento di diritto sovrano sul suolo.
Dimostra inoltre che le parole censum o decima, che secondo un documento fu imposta a Noto e a Iato, castelli normanni ribelli fino all’ultimo, si devono ancora riferire al kharag e a tributi e servizi che i Normanni eran soliti ad imporre a città assoggettate; che, come ogni stato feudale, quello dei Normanni lasciò esente la terra da tributi e da decime, ma tassò dazi e gabelle su ogni manifestazione dell’attività umana; che i re normanni infeudarono castelli, casali, città, ma non mai grandi territori;
che infine il vescovo di Girgenti non aveva alcun diritto, come pretenderebbe il diploma, di esiger decime sulla città e nemmeno sul territorio, perchè le città pagavano tributi e prestazioni solo al re e ai feudatari — nè il vescovo era l’uno o l’altro, — e che sul territorio di Girgenti vi erano anche liberi proprietari e terrari su cui non poteva gravare decima alcuna.
Escluso quindi che la decima normanna sia di diritto dominicale o di origine di tributi fiscali, l’A. passa a trattare la origine sacramentale (cap. IV).
Con la dominazione franca le leggi della Chiesa ebbero un appoggio pieno e illimitato nei paesi dove essa si estese, e le decime ecclesiastiche furono applicate dovunque.
Ma le popolazioni si rifiutavano, e per tutto un secolo la Chiesa ebbe a lottare con ogni mezzo per stabilire l’obbligatorietà di questa tassa. Da ultimo, per evitare questioni fra diocesi e diocesi, si stabilirono limiti di circoscrizione e si dette carattere di obbligatorietà, accettando lo Stato ogni disposizione canonica in proposito e rendendola esecutiva.
In Sicilia però, dove per i legami stretti che correvano tra questa isola e la chiesa bizantina, non si ebbe nè disposizione di concili nè dominazione franca, le decime sacramentali non si conobbero al tempo di Carlo Magno nè molto tempo dopo :
non se ne parla che posteriormente alla conquista normanna, cioè dopo la conquista di gente che voleva restaurare la fede cristiana e che veniva da un paese dove le decime erano stabilite, riscosse per imposizione di leggi sovrane. Numerosissimi esempi riportati provano la sacramentalità di questa decima siciliana, che era una specie di imposta ecclesiastica sui prodotti ; imposta molto sicura e più proficua di altra qualsiasi sui possessi, essendo allora la popolazione di Sicilia assai scarsa. E sacramentali sono le decime di Girgenti (cap. V). Infatti :
1. Come si vede nelle parole cum omnibus iuribus decimarum et aliorum jurium parochialium del diploma 1093 e in tutti gli altri, la decima è messa accanto ai diritti spirituali, in conformità del diritto canonico ».
2. Altri diplomi posteriori riguardanti Girgenti confermano la sacramentalità delle decime che devono servire al mantenimento del culto: se nei castelli sono cappelle, una parte delle decime va ad esse; se il vescovo non vorrà mantenere il cappellano, i baroni se le approprieranno, rifiutandole al vescovo.
3. Trasmessi i feudi ai baroni, il conte non poteva imporvi decime di dominio per darle ai vescovi.
4. L’aver disposto che il vescovo perdeva il diritto delle de-cime se non provvedeva alle gabelle è una implicita affermazione che le decime sono di origine sacramentale e servono esclusivamente al culto.
5. Quando fu fatto il diploma, il territorio di Girgenti era già distribuito fra i terrari, i quali erano indipendenti, quindi in nessun rapporto di legame con i vescovi: la decima allora istituita non può aver carattere domenicale.
6. Le parole: Episcopio decimas suas quas tanc temporis in propria manu sua habebat, concessit habendas, come insegnano altri diplomi (molti dei quali scopri l’A. nella Bibl. Com. di Palermo), voglion dire che le chiese riscuotevan decime non solo sui beni privati, ma anche su redditi fiscali, e che egli, il re, si dichiara debitore di decime non pagate: ciò che attesta anche il Malaterra. Altre carte del sec. XIII, ma che riproducono altre del secolo precedente, ancor più chiaramente dimostrano le decime unite al jus pastorale, al jus episcopale.
7. Nessuno degli altri documenti contradice mai a questo carattere delle decime. Onde la conclusione non può essere che per la sacramontalità.
L’ultimo capitolo (VI) è dedicato alla confutazione degli argomenti dei dominicalisti, in base alle conclusioni a cui ò giunto l’A. ; il quale conclude che per sostenere la dominicalità bisogna ammettere un’origine geronica, ante-normanna, della decima, ricorrendo al colonato, agli Arabi, mettendosi, insomma, contro a tutta la storia.
Come poi queste decime sacramentali assunsero parvenza dominicale, è presto detto. Il medio evo non tenne distinto il concetto della sovranità da quello di proprietà, e dalla confusione fra l’una e l’altra sorse lo stato feudale, quale è specialmente quello che fondarono i Normanni in Sicilia e in Inghilterra > (p. 108). Por questo ogni prestazione fondiaria anche per amministrazione di sacramenti implicava il riconoscimento di un diritto di dominio in chi lo esigeva.
«Cosi avvenne che le decime sacramentali vennero eguagliate alle dominicali, considerate come « oneri reali, e quindi cedute, vendute, infeudate, e indarno i papi « vietavano gli infeudamenti delle decime sacramentali, infeudamenti che invece apparivano come la cosa più naturale: il legittimo « esercizio di un diritto da parte del vescovo, che non riusciva facilmente a separare il suo dominio feudale dalla sua giurisdizione spirituale » (p. 109).
Questo libro — a parte il desiderio che lascia qua e là di una maggiore economia —, come quelli del Salvioli in genere, è condotto con molta dottrina, con critica serena; e ci pare che per la copia di argomenti di fatto, riesca appunto a provare la sacramentalità. Certo la questione ò aggrovigliata, e non ci farà maraviglia se dopo questo libro vi sarà ancora qualche impenitente. La ragione bisognerà cercarla specialmente in quella confusione indotta dal feudalismo, cui si accennava poco più su, e nella antichità del dibattito.
Il merito maggiore dell’autore sta per noi nell’aver portato con tanti dati un fondamento storico alla questione, nell’averla tolta all’arringo delle argomentazioni puramente teoriche, di aver portato un contributo notevole a questo punto della storia del diritto non solo, ma di aver anche offerta materia sicura per la storia generale dei più oscuri tempi del medioevo.
ETTORE GALLI.