La prima sede fu il convento di San Francesco, poi i cambiamenti furono molti sino alla seconda metà dell’Ottocento
Volendo andare a ritroso nel tempo per stabilire il periodo in cui l’atrio dell’ex Convento di S. Francesco di Assisi fu sede delle riunioni del Consiglio Civico Agrigentino, dobbiamo riferirci ad una considerazione del concittadino Reverendo Prof. Salvatore La Rocca, studioso appassionato di antichi testi e di questioni agrigentine.
Egli, in ordine alla fondazione dell’ex Convento francescano, dice che quei primitivi frati, i quali per potersi creare anche poverissime dimore, purché stabili, avevano dovuto resistere al desiderio inappagato e all’ideale purissimo del loro Fondatore di una povertà assoluta, allorché. dopo solo pochissimi anni dalla di Lui morte, se Lo videro innalzato dalla Chiesa all’onore degli Altari, non avranno pensato a fare conventi per loro, prima di erigere chiese dedicate a Lui.
Ciò può spiegare come, mentre già nel 1295 doveva esservi una Chiesa dedicata a San Francesco, che darà poi il nome a tutto il borgo, fino al 1311, invece, si vagheggiava ancora da un Chiaramente l’opera di un convento vero e proprio; il che lascia supporre che quelle prime adunanze dei giurati, del Capitano e del popolo nell’antico convento francescano non poterono verificarsi prima di quest’ultimo periodo.
Gli altri due edifici, adibiti a sede del Municipio di Agrigento, testimoniano il graduale sviluppo storico e civile della città.
Il primo è la palazzina di stile gotico-moderno, situata a sud della Piazza Gallo, attualmente adibita agli Uffici della Camera di Commercio, il secondo è l’attuale Palazzo Municipale di piazza L. Pirandello.
Nella palazzina di Piazza Gallo, — ricostruita, tra il 1851 ed il 1855, sul vecchio fabbricato composto da diverse piccole case di « antica vetustà», — gli uffici comunali ebbero la loro originaria, vera sistemazione; poiché essa fu sede del nostro Municipio dalla seconda metà del 1400 sino al 1867, come si può rilevare dal contenuto delle quattro lapidi, di diversa epoca, che sino al 1878 rimasero incastrate sui muri di quel fabbricato e che attualmente sono non tutte con-servate al Museo Civico, essendo state tolte, per meglio custodirle dal Sig. Alfonso Celi, custode di detto museo, per incarico del Sindaco del tempo Sileci.
Di queste lapidi commemorative di vari avvenimenti, richiamate sovente da storici e studiosi, una sola è di epoca classica, del periodo romano, quella che contiene l’epigramma: «Concordiae Agrigentinorum sacrum res publica Lilybitanorum M. Aterio Candido Procos. L. Cornelio Marcello Q. Pr. Pr.», che allude alla pace raggiunta dopo la vittoria degli agrigentini sui Lilibetani. — La Sicilia, allora, era divisa in due province; la Lilibetana e la Siracusana, al governo delle quali erano mandati un pretore e due questori — (Cicerone: In Verr. act. II, lib. II, C. 41); perciò le sigle: Q. Pr. Pr. si debbono leggere: «quaestor primae provinciae».
Le altre, di epoca medievale, contribuiscono, assieme ad altri documenti, ad individuare nel tempo la ubicazione dell’edificio della Casa Comunale.
La più famosa di queste lapidi è del 1293, — (che il Gaglio aveva impropriamente richiamato a sostegno della sua tesi sulle origini della città moderna) — inizia con i versi leonini: « Anno milleno triceno non bene pieno
Essa era divenuta un ricordo sacro ed il più venerando monumento del nostro popolo, perchè stava quasi a simboleggiare, dopo le aspre lotte interne ed esterne, sostenute più tenacemente di ogni altra popolazione siciliana, l’agognata conquista di un governo cittadino libero ed autonomo, tentativo che esso aveva fatto negli anni che prepararono e che seguirono il Vespro.
Qualcuno, interpretando letteralmente l’epigramma quattrocentesco, — (è stato scritto, infatti, circa un secolo dopo la data che viene enunciata nella lapide) — troverebbe eccessivo il riferimento alla Casa Comunale, giacché in esso è detto fra l’altro: «Qui fui fondata, qui ancora fui rinnovata a dar da bere alla gente che vive ora in Gìrgenti… (Pocula Dans Genti Degenti Nunc Agrigenti)…
Ma questo possibile accenno ad una fonte («pocula») perde ogni consistenza, se si fa attenzione al significato allegorico che è diffuso in tutto l’epigramma.
Non potrebbe forse l’immagine poetica della fonte, che disseta, rappresentare appunto la Casa Comunale, fulcro e simbolo di genuini valori, per le genti troppo assetate di libertà e di giustizia, che, finalmente, iniziavano a godere di un periodo splendido di libertà comunale?
La data in cui effettivamente vennero formulati quei versi potrebbe, pertanto, ricercarsi nel periodo in cui, entrati in Sicilia i Martini, tolsero Girgenti al dominio dei Chiaramonte e la città riprendeva, così, i privilegi di città demaniale (1402-1410) ed altre prerogative municipali proprie; oppure quando, sotto il Regno di Alfonso il Magnanimo (1411-1458) i Girgentini ottenevano di poter dare un assetto ancora più regolare alle cose del loro comune e restituivano alla sua antica funzione la vecchia «Logia », come emerge dai capitoli del 1433.
Da questa data, a mio avviso, ha inizio l’uso della Casa Comunale nei locali di cui parliamo, dopo il primo insediamento del Consiglio Civico nell’atrio dell’ex Convento francescano. L’ulteriore documentazione consultata conferma tale ipotesi.
Infatti il Fazello, che visitò più volte Agrigento, rilevò personalmente, verso il 1528, negli anni in cui scriveva la sua storia « De Rebus Siculis », che la lapide: « Concordiae Agrigentinorum» si trovava esattamente nell’edificio del Foro » e cioè sul muro dell’Ufficio Municipale della Città nuova: Ipsa tabula marmorea quae nunc in Foro novae urbis pendet».
era l’espressione latina più appropriata ad indicare l’Ufficio Comunale, che in seguito verrà chiamato anche «Casa della Città» (1598) — (volgarmente anche « Tocco » —, e più tardi ancora: « Casa giuratoria » (1729). L’evoluzione della nomenclatura segue ovviamente, con i tempi, gli usi e le nuove istituzioni. Ed a proposito del termine, tutto agrigentino, di « Tocco », va ricordato un passo, tratto dalla « Historia della vita e morte del glorioso Vescovo San Gerlando », che ricorda i festeggiamenti e lo svolgersi di una processione per tutta la città, il 5 aprile 1598, in occasione della traslazione della salma del Santo: … « di qua pervenendosi veniva (la processione) innanti pasando per il Tocco, luogo principale e pubblica casa della città, dove si aveva accongiato un bellissimo arco trionfale a spese della città ». — (La historia è un manoscritto in pergamena del 1725, che si conserva nello archivio della Cattedrale di Agrigento, cui la donò nel 1791 il Can. Giambattista Scrivani).
Da tale passo si rileva che nel 1598 vi era in Girgenti un luogo detto volgarmente: « ’u toccu », che poi era lo stesso orologio da torre, nonché lo stesso fabbricato: la casa comunale, su cui l’orologio era stato situato da tempo immemore; quasi una sorta di « metonimia » dialettale, alludente ai rintocchi della campana dell’orologio; con questa parola si indicava anche tutta quella zona angusta, ove sorgeva anche la Chiesa di S. Anna («’u strittu di Sant’Anna»), che oggi coincide con l’attuale Piazza Gallo, derivata dall’abbattimento di detta Chiesa.
In una di quelle campane dell’antico orologio da torre, posto sul fronte orientale del vecchio fabbricato municipale, si leggeva (e si legge ancora riprodotto nella nuova campana) il motto: Concio cives divido tempus», che ci autorizza a stabilire che a quel bronzo fu riservato, per poco più di quattro secoli, il compito di convocare il popolo per il Consiglio Civico Agrigentino.
Nel 1555, poi, sotto il Viceré Giovanni De Vega (1547-1557) fu scolpita la lapide marmorea con lo stemma agrigentino ad alto rilievo e con sopra la seguente epigrafe:
«Caesaris invicti caroli decus atque gigantum continet hic Acragas praeside Dante Vega», per cui si arguisce che, anche sotto la presidenza di Vega, il detto fabbricato era adibito a casa comunale; poiché ima città demaniale, pur godendo di un corpo municipale e di una relativa autonomia annonaria ed amministrativa, non avrebbe potuto collocare le proprie insegne se non sopra un edificio comunale.
Questa del 1555 rappresenta la data del riconoscimento ufficiale dell’attuale stemma del Comune di Agrigento.
La concessione del Presidente Vega, di cui si fa cenno nell’epigrafe, consacra, appunto, tale riconoscimento per la città di Girgenti, la quale congiunge, mantiene uniti («continet hic Acragas»), come composse in una unità inscindibile, i simboli rappresentativi del potere regio e del Comune girgentino, cioè l’ornamento e le insegne dell’imperatore: «le torri merlate», e quello dei giganti: «Caroli decus atque Gigantum». Lo stemma di Agrigento, pertanto, a parte le varie interpretazioni e relative configurazioni simboliche trae le sue origini dalla esaltazione dell’antica grandezza della città, che trovò la sua più alta espressione e testimonianza nella immensa, maestosa costruzione del Tempio dedicato a Giove Olimpico, e si ricollega, appunto, con l’avvenimento della definitiva rovina — (verificatosi nella notte del 9 dicembre 1401) — delle tre cariatidi che sostenevano la parte residua di tale famoso tempio — (secondo i calcoli dello Schubring era lungo: mi. 110,76; largo: mi, 55,66; alto senza contare i gradini: mi. 35,10).
Questa parte di fabbrica andò in rovina per la «trascurataggine degli agrigentini», che il Fazello biasima, riportando tale episodio nel libro I, Cap. I, del «De Rebus Siculis»: — «ed in quel luogo — aggiunge — ai nostri tempi non si vede altro che un grandissimo monte di pietre, il qual vulgo è detto il palazzo dei Giganti»,
Da questo fatto e da tale denominazione deriva lo epigramma latino, inserito nello stemma della città: «Signat Agrigentum mirabilis Aula Gigantum».
Lo stesso Fazello dice di aver visto personalmente tale epigramma nell’Archivio Agrigentino di Girgenti («Proditum in archivio agrigentino»); è questa una ulteriore prova della esistenza, in epoca anteriore al Fazello, — (il quale nacque a Sciacca nel 1496 e morì in Palermo nell’aprile del 1570 )—, di un archivio comunale situato, non si ha motivo valido per negarlo, nella stessa casa del Comune.
Infatti dal «Libro Verde» dell’archivio comunale, e precisamente dai capitoli presentati al Viceré Lupo Ximenes de Urrea, si rileva, che il 16 luglio 1466, il Comune otteneva il placet per riparare il vecchio archivio della città, già esistente in quel tempo e che abbisognava solo di essere riparato; riparazione che doveva fare a sue spese l’Archivista che sarebbe stato nominato. In altra petizione al Viceré si chiede di fare conservare nella «Loggia» tutte le scritture e gli atti notarili di archivio e si supplica di nominare un «archiviario» nella persona di Giovanni di Naro.
L’ulteriore evoluzione della denominazione dell’ufficio degli amministratori comunali in «Casa Giuratoria», cioè casa dei giurati, risale al 1729. In un atto del Notar Gabriele Guarnotta, in data 27 luglio di quell’anno, che contiene il testamento del Canonico Vito Lombardo, si accenna alla casa giuratoria, che era attigua al fabbricato di proprietà di detto prelato, nella zona del «Tocco ».
Del più antico edificio comunale si trova altresì traccia nella quarta lapide commemorativa, di cui abbiamo detto all’inizio di questa digressione, che si riferisce all’ulteriore restaurazione dell’edificio, avvenuta nel 1745. Nelle sua epigrafe l’edificio, che fu sede del Municipio: «Magistratus commodo», viene definito di: «Centuplica vetustate».
Quella era, ovviamente, la pluricentenaria vetustà dell’antica casa comunale