
Nel lontano 1399, per un bonario accordo avvenuto tra due baroni il feudo di Comitini venne permutato con un passaggio d’acqua. Per conoscere meglio i motivi che hanno portato allo scambio dei due possedimenti, si rende necessario, preliminarmente, raccontare, in sommi capi, alcune delle vivaci e per molti versi tragiche vicende politiche che hanno travagliato la Sicilia nel corso del XIV secolo nei quali vennero coinvolti diversi personaggi politici di primissimo piano che ebbero riferimento con la baronia di Comitini.
MORTE DI FEDERICO III –
Alla morte di Federico III detto il semplice, verificatasi il 27 luglio 1377, nel regno di Sicilia vi succedette la figlia Maria, unica sua erede, nata una diecina di anni prima a Catania.
Cinque giorni prima di morire, il re, all’originario testamento appose un codicillo con il quale nominava tutore e bajulo della regina minore, finché raggiungesse l’età di diciotto anni, il gran Giustiziere Artale Alagona, che per tale ragione la ospitava nel castello Ursino di quella città, di cui era signore, ed in suo nome governava la Sicilia.
FORMAZIONE DEL VICARIATO –
Data la prepotente litigiosità dei baroni siciliani e la vastità del territorio dell’isola da amministrare, l’Alagona comprese che da solo difficilmente poteva ordinatamente reggere le sorti del regno, per cui a seguito di un accordo stipulato a Caltanissetta con gli esponenti delle famiglie più rappresentative del baronaggio siciliano, si decise di governare l’isola attraverso la costituzione di un vicariato formato da quattro elementi i quali dividono il regno in altrettante sfere di influenza. All’Alagona spettò di amministrare la zona di Catania, Peralta, la parte di Sciacca, ai Chiaramente, Palermo e lo stato di Modica e ai Ventimiglia la parte delle Madonie.
RAPIMENTO DI MARIA DAL CASTELLO URSINO
– Da questo trattato, però, venne escluso il catalano Guglielmo Raimondo Moncada (Montecatheno) il quale non accettando quell’accordo, proditoriamente, la notte del 23 gennaio 1379, approfittando dell’assenza dell’Alagona che si trovava a Messina, favorito dal buio di una notte senza luna, imbarcatosi su due navigli si avviò alla volta di Catania.
Raggiunto per mare il castello Ursino che, pare vi si facesse cattiva guardia e che dall’interno vi era qualche complice, riesce, da una porta secondaria, ad entrarvi dentro e intimoriti i custodi sbigottiti, si avvia nelle camere della regina Maria, la trae a forza dal letto dove dorme e, in barca, la conduce nel castello di Licata dove, dopo alterne vicende, viene portata in Spagna e, a Barcellona, nel 1391 viene data in sposa a Martino I, il giovane nipote del re Pietro IV.
Legittimata col matrimonio la pretesa degli aragonesi sul dominio della Sicilia, i Vicari, pur riconoscendo Maria come legittima sovrana, non accettano come re Martino, con la scusa che il matrimonio non era da ritenersi regolare in quanto venne celebrato con l’assenso dell’antipapa Clemente VII e non dal legittimo Pontefice Urbano VI. Ovviamente questa era la scusa dei feudatari i quali, con l’avvento degli aragonesi, temevano di perdere il potere ed i privilegi acquisiti in quella fase confusa di interregno del vicariato.
CONQUISTA DELLA SICILIA DAGLI ARAGONESI E DECAPITAZIONE DI RUGGERO CHIARAMONTE –
In Sicilia, comunque, malgrado la resistenza dei Chiaramonte e degli Alagona, nel 1392 sbarcarono gli aragonesi con un’agguerrita flotta guidata dal generale Bernardo Cabrerà e quindi consolidato il potere, si arriva alla resa dei conti con quanti pervicacemente avevano contrastato i piani degli spagnoli.
Una delle vittime più autorevoli ed illustri di questa lotta, è stato Ruggero Chiaramonte, l’ultimo esponente del potente casato, il quale, affidato al giudizio di Guglielmo Raimondo Moncada (Montecatheno), avanti menzionato, che nel frattempo, per gli importanti servigi resi alla corona, aveva assunto l’alta carica di gran giustiziere, venne dichiarato fellone e condannato a morte. Fu decapitato nella Piazza Marina di fronte al sontuoso palazzo avito, detto lo Steri, che rappresentava la principale residenza della superba prosapia Chiaramontana. In conseguenza di ciò il suo notevole patrimonio venne confiscato ed il re in premio lo spartì agli altri baroni che lo avevano sostenuto nell’impresa di conquista.
Il declino dei Chiaramente trascinò nella rovina anche gli altri feudatari ad essi politicamente vicini. FRATELLI ABBATE SPODESTATI DEL FEUDO DI
COMITINI – Tra questi vi furono i fratelli Riccardo e Nicolò Abbate, anch’essi accusati di fellonia e di conseguenza spodestati di tutti i loro beni, sia baronali che burgensatuci e allodiali. Il feudo di Comitini, siccome si apparteneva ai detti fratelli Abbate, venne incamerato dalla Regia Magna Curia e assegnato al Moncada il quale, per dissensi politici con la corona, malgrado i suoi indiscussi meriti per avere favorito le mire di conquista della Sicilia da parte degli aragonesi, cadde in disgrazia e a sua volta venne spodestato anche del feudo di Comitini.
COMITINI VIENE CONCESSO A FORTUNIO CA-ROSIO –
A seguito di tale circostanza, con privilegio del 16 novembre 1397, dai sovrani Martino e Maria, Comitini venne concesso al fedele notaio Fortunio Carosio (Carioso) di Paterno, in riconoscimento della fedeltà prestata alla corona nei momenti più difficili.
Il Carioso, infatti, nel periodo della ribellione di Artale Alagona, uno dei più potenti, o per meglio dire il capo dei quattro Vicari del regno, per non avere condiviso le sue posizioni politiche venne da questi perseguitato, spodestato dei beni ed essendo fortunosamente sfuggito alle ire dell’Alagona che lo rincorreva in ogni dove, in sua vece ebbe i familiari imprigionati e trattati come volgari delinquenti.
Per tale concessione, il Carioso, come da consuetudine, assicurava alla corona il servizio militare commisurato all’importanza del reddito che dal possedimento derivava e che per Comitini era stabilito in quattro cavalli armati o dal versamento del corrispettivo calcolato annualmente in venti once d’oro per ogni cavallo. Alla regia Curia venivano pure riservati i diritti di legname, le miniere, le saline, i soiarii, le foreste, le antiche fortificazioni, etc. “in maniera che in occasione della presente nostra concessione e donazione, le sue mani non si tendano a tutte queste cose e gli animali e i cavalli delle nostre fattorie e scuderie possano liberamente pasco lare nel territorio e nelle pertinenze di detto feudo” (questo è espressamente detto nel privilegio).
PERMUTA DEL FEUDO CON UN PASSAGGIO D’ACQUA
– Il Carosio, però, non aveva alcun interesse a mantenere il feudo di Comitini, perché troppo distante dall’importante centro dei suoi affari che era in quel di Paterno, per cui credette più conveniente permutarlo con altri beni. Convenne, pertanto, si scambiarlo con un passaggio d’acqua sul fiume Giarretta con il milite Giacomo Arezzo (de Arido) Protonotaro del regno, sempre di Paterno, ciò che avvenne con la stipula di un atto pubblico rogato a Catania il 19 aprile 1399.
L’Arido, intanto, temendo che in futuro gli Abbate potessero riottenere dal re il perdono e conseguentemente la restituzione in suo danno dei beni confiscati, chiese ed ottenne apposito privilegio dato in Catania il 10 gennaio 1399, 8a indizione, con il quale re Martino si impegnava di non restituire più agli Abbate il feudo di Comitini anche se fosse intervenuto l’atto di clemenza. Il patto viene
rispettato ed il possedimento segue la sorte normale dei passaggi successivi dovuti a cause di reciproca convenienza baronale sia pure con il beneplacito sovrano, come era uso e consuetudine in quel tempo.
Dagli atti consultati nei vari archivi pubblici, si riscontra, infatti, che a possedere il feudo di Comitini nelle varie epoche si sono alternati oltre agli Abbate e ai Moncada, i Carioso, gli Arezzo, gli Orioles, i Belguardo, i La Lotta, i Ballacela, gli stessi, questi ultimi che nel 1627 richiesero e ottennero la concessione del privilegio dello “Jus Populandi” e del “Mero e Misto Imperio”, per cui a questa famiglia si deve la nascita del comune feudale, e, per ultimi, i Gravina.
LA BARONIA DI COMITINI ACQUISTATA DA MICHELE GRAVINA VIENE ELEVATA ALLA DIGNITÀ DI PRINCIPATO
– Il 20 settembre 1670 in Agrigento, dove è sepolto nella chiesa di S. Giuseppe, muore senza eredi diretti, l’ultimo dei Bellacera, Gastone, ed il possedimento viene ereditato dal nipote Carlo Marsala, che per la somma di 44.100 scudi nel 1672 lo vende a Michele Gravina Crujllas il quale nello stesso anno ne prende investitura. Sotto la signoria dei Gravina la Baronia di Comitini viene elevata alla dignità di principato con privilegio dato a Madrid da Carlo II in data 10 febbraio 1673.
Da questo momento in poi non risulta che nessun altro successivo feudatario prenda investitura del principato, della qualcosa si deve fare una considerazione che trae origine da atti ufficiali inconfutabili.
Dalla ricerca di documenti storici sulle origini di Comitini in epoca relativamente recente, presso l’Archivio di Stato di Napoli, è stato rinvenuto il bozzetto dello stemma convesso all’Universitas di Comitini
I COMITINESI SI AFFRANCANO DALLA GIURISDIZIONE BARONALE
– In tale documento è riportata la data del 1793 ciò che fa legittimamente supporre che i comitinesi, insofferenti di sottostare alla giurisdizione baronale, abbiano ritenuto più conveniente pagare il tributo al feudatario per riscattarsi dalla sua giurisdizione e sottoporsi all’autorità regia.
L’ipotesi si può considerare ancor più rafforzata ove si pensi che gli stemmi a tutti gli altri comuni feudali della Sicilia vennero assegnati dopo che si sono resi liberi con l’abolizione del feudalesimo sancito con l’approvazione dello statuto del 1812. Da questa ultima data i Gravina iniziano a lottizzare e vendere o concedere in terziaria il latifondo e l’ultimo reietto del possedimento costituito da 120 ettari circa oltre le pertinenze (fabbricati, zolfare etc. ) per la somma di 19.000 ducati venne venduto al barone Ignazio Genuardi che lo detenne fino al giorno del suo disastroso fallimento pronunciato con sentenza del Tribunale commerciale nel 1876 della cui conseguenza negativa ne risentì gran parte dell’economia siciliana.
di Angelo Cutaia