Un problema come questo che mi accingo a trattare è di quelli che non dan pace, non tanto alla imperturbabile serenità dell’uomo di mestiere, quanto all’irrequieta curiosità della gente comune. di quella che potrebbe dirsi l’opinione pubblica corrente, nonché all’accesa passionalità del campanilista ad ogni costo.
Dov’è il teatro «greco» di Agrigento?
Possibile che non si riesca a trovarlo?
Naturalmente, che il teatro sia esistito nessuno lo pone in dubbio. Ed anche a me. ora disposto a ritrattare qualche incertezza cautamente espressa in mici scritti di una quarantina di anni fa, sembra in fondo che non sia più lecito mostrarsi scettici a questo riguardo.
E’ vero: sul teatro antico di Agrigento le fonti classiche tacciono in maniera pressocché assoluta. Perché è manifestamente un errore la notizia di Frontino, scrittore della seconda metà del I secolo d. C.. secondo cui nel 415 a.C., al tempo della spedizione ateniese in Sicilia, Alcibiade avrebbe tenuto i suoi discorsi contro i Siracusani nel teatro agrigentino. E noto, sempre dalle fonti, che gli Ateniesi ebbero quel che si direbbe il quartiere generale a Catania; la testimonianza di Frontino – o un’errata trascrizione del suo testo nei codici va ritenuta nient’altro che un involontario scambio del nome di Agrigento per quello della città calcidese vicina a Siracusa e, al pari di questa, sulla costa ionica dell’isola. Altre notizie non si hanno.
Ma il silenzio delle fonti non è argomento sufficiente per escludere che un teatro – in un certo momento della lunga e travagliata storia di Agrigento – vi sia stato impiantato. La mancanza di testi letterari ed epigrafici non autorizza, in questo come in casi analoghi, a negazioni o a riserve di sorta.
Sta di fatto, per altro, che un vivo interesse per il teatro drammatico, ed una partecipazione attiva alle sue invenzioni. ad Agrigento non mancarono nel periodo più fecondo in cui esso crebbe e si affermò. Qui ebbero i natali alcuni, se non tra i più celebri, ad ogni modo apprezzati autori di tragedie e di commedie, di cui fortunosamente è rimasta menzione attraverso l’immenso naufragio della letteratura siceliota.
Alcune fonti ricordano
Alcune fonti ricordano, quale autore di ben 24 tragedie. Empedocle agrigentino. nipote del filosofo. Altre ci fanno il nome di Archino, cui vengono attribuiti 60 drammi, e quello di Carcino. che tra le sue 30 tragedie ne scrisse una sul ratto di Persefone (Tra parentesi: parrebbe di vedere in essa un devoto omaggio del tragediografo agrigentino alla dea cui la città dov’era nato era particolarmente legata. Si ricordi a proposito l’ispirato saluto di Pindaro nella sua XII Pitica, che è di circa il 490 a.C.: «Te invoco, città di Perselo- ne, la più bella tra quante sono albergo di mortali»).
Dopo Carcino. ecco ancora ben 5 personaggi della sua dinastia: Xenotimo, Xenarco, due Xenoeie. altro Carcino: famosi, oltre tutto, per la spietata caricatura di cui ebbe a fargli segno – com’era suo costume – Aristofane. Perché oltre e più che nella loro città, essi furono attivi nell’Atene dei grandi tragici. E qui uno dei due Xenocle riportò la vittoria su Euripide con una tetralogia.
Agrigentino per nascita si vuole anche un Deinoloco, scolaro di Epicarmo ed autore di commedie di soggetto mitologico, di cui si conserva qualche titolo: Telefo, Amazzoni, Medea, ccc. Tanta predilezione per il teatro nell’Agrigento del V secolo a.C. non farà meraviglia se si pensa alle suggestioni che vi saranno pervenute anche da Gela, dove Eschilo si dice che sia vissuto negli ultimi anni della sua vita per morirvi nel 456. E perché non pensare che le opere dei tragici agrigentini sopra citati, almeno alcune, e la Persefone di Carcino innanzi a tutte, siano state rappresentate anche dinanzi ai loro concittadini, nella splendida cornice della Città dei Templi?
A parte, comunque, ogni considerazione che possa farsi sulla scorta delle fonti classiche, è da credere, come io credo, concordando con l’appassionata fede dell’uomo comune, che la questione dell’esistenza di un teatro in Agrigento antica non abbia presso che senso: tale monumento non può non ammettersi in una città dell’importanza storica, dell’entità demografica e dell’imponenza monumentale quale fu questa nostra in molte fasi della sua vita nell’antichità. E non può non esserci stato, se lo troviamo, qui in Sicilia, in città di gran lunga meno notevoli come – oltre Catania. Taormina. Tindari, Segesta e la Jatos di Montelato – le piccole Acre ed Eloro e nello stato agrigentino Eraclea Minoa.
Resterebbe a vedere in qual periodo esso poté essere realizzato: se nel V-IV sec. a.C. (di quest’epoca c il teatro di Siracusa), o in età ellenistica (come quasi tutti gli altri sopra citati), o addirittura in tempi romani (quando furono profondamente rimaneggiati quelli di Catania e di Taormina). Ma questo non potrà naturalmente chiarirsi se non nei caso che una fortunata scoperta lo faccia finalmente ritrovare. Sarà allora veramente un indimenticabile giorno per l’archeologia agrigentina!
Fino ad oggi, purtroppo, nessun indizio possediamo che ci faccia ritenere prossima una tale eventualità. Nella campagna di Agrigento, nella vasta arca a sud della moderna città che corrisponde al sito dell’antico abitato, non c’è posto dove, a ben guardare, venga di poter riconoscere i segni della caratteristica forma che vi avrebbe la-sciata il riempimento di un’antica cavea.
Pure, e sembrato per molto tempo, nei secoli scorsi che tale forma si conservasse in una grande conca a nord-ovest della Chiesa di San Nicola, subito dietro al moderno edificio del Museo archeologico. E ne venne naturale l’attribuzione al teatro da parte del Fazello. l’erudito storiografo saccense del sec. XVI, cui si deve, nel quadro generale delle cose di Sicilia, una notevole de-scrizione delle antichità agrigentine. Al Fazello seguirono le frettolose annotazioni di viaggiatori stranieri (il Dorville. il Mùnter. ecc.), alle quali per altro non va riconosciuto alcun valore, in quanto mere ripetizioni delle congetture del Fazello stesso.
Strana – ma per certi riguardi interessantissima la testimonianza negativa del Pancrazi, che a metà del ‘700 pubblicò due grossi volumi dedicati alla topografia dell’antica Agrigento, fruito di lunghe c personali ricerche sui luoghi della città classica. Da tali ricerche, compiute «con tutte le diligenze possibili» – com’egli scrisse -, nulla gli risultò che gli consentisse di indicare, né presso San Nicola nè altrove, alcun vestigio di qualsiasi edificio destinato agli spettacoli.
Niente di nuovo, circa un secolo dopo, poté dire il Duca di Serradifalco, nel terzo volume delle sue Antichità di Sicilia, che pure è tutto dedicato ad Agrigento. E nessun elemento decisivo fu recato dallo Schubring, autore della prima topografia scientifica dell’antica Agrigento, il quale ancora nel 1887 (anno della traduzione italiana del Toniazzo) si limitava a ricordare una serie di vecchie congetture (oltre che nella zona dietro San Nicola il sito dei teatro era stato indicato ora sul poggio della Meta, ora sulla collina un po’ più a nord, quella di San Leonardo) da lui ritenute tutte quante inaccettabili in mancanza di quelle concrete riprove che sole possono venire dagli scavi.
Gli scavi
Molte speranze si credette di poter fondare su quelli che nella primavera del 1925 furono condotti da Pirro Marconi, all’inizio della sua brillantissima serie di ricerche agrigentine, coi fondi generosamente messi a disposizione dal gentiluomo inglese Alessandro Hardcastle.
Il problema posto da questo originale e simpatico tipo di mecenate al giovane archeologo, cui non mancavano entusiasmo c dottrina, fu quello appunto della ricerca del teatro nell’arca a nord dell’ex Convento di San Nicola, dove valeva la pena accertare finalmente con adeguatezza di mezzi e con rigore di metodo la natura dei resti architettonici che dal Fazello in poi avevano de-stato l’interesse di taluni dei topografi agrigentini. Gli scavi furono diretti dal Marconi col massimo impegno, su molti punti della conca c fino a notevole profondità: ma non diedero l’esito che sembrava legittimo aspettarsi.
Quanto allo scopo per cui essi erano stati intrapresi, ben potè dire il Marconi che doveva ritenersi fallito. O meglio: falli la speranza che il teatro potesse trovarsi in quei posto, ma fu rimossa dal campo della ricerca topografica di Agrigento ogni errata supposizione che su tale speranza si faceva senz’alcun fondamento consistere.
I resti antichi trovati qua c là in quegli scavi sistematici risultarono appartenenti a complessi di edifici assai diversi tra loro per epoca e per destinazione, e dimostrarono – se pure ce n’era bisogno – l’opportunità di privilegiare qualche volta l’esplorazione su vasta scala di quella zona c di altre ad essa vicine, perché dalla conca a nord di San Nicola giù fino a Porta Aurea c al tempio di Zeus Olimpio non era difficile immaginare che si sarebbero rinvenuti gli stanziamenti della vita pubblica di Agrigento antica in tutte le sue fasi: la greca, l’ellenistica c la romana.
Dal 1939 (sono ormai 50 anni) opera in Agrigento una Soprintendenza archeologica, che fu allora creata in vista di un’acconcia impostazione della ricerca antiquaria in queste parti della Sicilia, la diressi dal 1941 al 1968, quando la sua giurisdizione comprendeva le province di Agrigento c di Caltanissetta. Su mie pressanti e motivate richieste le fu aggiunta, proprio nel 1968 la provincia di Enna.
Una recente legge dell’autonoma Regione Siciliana ha radicalmente riformato, in un ambito che riguarda l’intera isola, l’organizzazione scientifico-amministrativa dei diversi territori. Le Soprintendenze hanno adesso giurisdizione provinciale. E la gloriosa (mi si consenta il termine) Soprintendenza della Sicilia centro – meridionale, cui ebbi a legare tanta parte della mia vita nei tempi sopra ricordati, si è pertanto smembrata in tre distinti istituti, ciascuno preposto, pur nella pienezza di quelli che si dicono i «beni culturali», alla provincia che gli compete.
Gli scavi di questi ultimi decenni in Agrigento hanno portato a risultati del massimo rilievo. L’archeologia agrigentina non si è più limitata a ricerche che riguardassero la sfera sacra (i templi e i loro annessi) e le necropoli, come in sostanza era avvenuto nel passato. L’indagine sul terreno, metodicamente condotta con il determinante sussidio di moderni metodi conoscitivi quale la fotografia aerea, ha permesso di dare forma all’organizzazione urbana dell’antico abitato.
A correzione di precedenti ipotesi, per cui la città greca avrebbe avuto – accanto ai maestosi templi – un abitato fatto di modesti agglomerati cresciuti «in pittoresco di-sordine»,ec non sarebbe mai sostanzialmente risorta dopo le distruzioni subite ad opera dei cartaginesi nel 406 a.C., si può adesso affermare che l’antica Agrigento è un esempio tra i più perspicui di quello schema urbanistico di strade, i decumani e i cardini, ortogonalmente incrociantisi nei sensi est- ovest e nord-sud. che i topografi definiscono «ippodameo» dal nome del celebre urbanista di Mileto a cui si dovette nel V sec. a.C. la sua formulazione teorica.
In questo schema perfettamente s’inserisce quel settore di abitazioni civili, posto al centro della «valle», di cui io intrapresi lo scavo negli anni 1957 e seguenti, e che da allora è conosciuto quale il «Quartiere ellenistico-romano» di San Nicola. Numerosi altri nuclei gli si sono aggiunti con scavi successivi in punti diversi: l’assetto della città antica, dai tempi arcaici fino al III-IV secolo a.C., e in parte anche dopo, non ha più misteri.
E in breve lasso di tempo molte altre cose si sono adesso ritrovate, precedentemente note per testimonianze dateci da antichi scrittori o ragionevolmente supposte nell’ambito di una metropoli del rango della fastosa Akragas. Nei terreni a nord della Porta Aurea è stata con sufficiente certezza individuata l’«agorà», continuatasi nel foro di cui è parola in Cicerone.
Non lontano da esse, nel corso di saggi lungo un cardo che, prolungato, porterebbe a San Nicola, sono venuti alla luce i resti di un portico, il primo dei tanti di cui, stando a Diodoro, la città era ricca. Un frammento di iscrizione e probabile che gli sia appartenuto: la dedica anonima di duumviro, membro con altro collega di una nota magistratura romana. Due sedili in pietra, rinvenuti nella stessa zona, recavano sulla spalla due epigrafi in lingua greca: una illeggibile perché completamente abrasa.
Pietro Griffo