di Daniela Maspero
“… ho rivolto il pensiero ad illustrare il vago e magnifico Sarcofago di marmo che oggidì serve di Fonte Battesimale nel Duomo di questa mia Patria Girgenti che a sé tira pel raro artifizio delle figure, pella storia che ivi si contiene e pell’antichità che vi si scopre, l’ammirazione de’ Forestieri, non che de’ nostri e con ragione viene egli creduto da tutti gli Antiquarji Siciliani non solo, ma dagli eruditi Oltramontani ancora per uno de’ migliori monumenti de’ Greci che si conservano a’tempi nostri in Sicilia” (Vincenzo Gaglio, Dissertazione sopra un antico sarcofago di marmo, oggi battisterio del Duomo di Girgenti, in opuscoli di autori siciliani, tomo XIV, Palermo, 1773, p.229)
I tesori della classicità hanno esercitato in tutti i tempi un indubbio fascino e sanno corrispondere vibranti emozioni a coloro che vi si accostano attratti dalla loro perfezione che non è solo formale, ma è la fusione ideale di valori storici, artistici e culturali che si esprimono mirabilmente nelle forme, nella luce, nei contorni, nei contrasti e nelle vicende narrate in essi che trapelano dai gesti, dalle movenze e dai volti dei personaggi raffigurati, di cui possiamo leggere i sentimenti, la carica interiore, i drammi che vivono.
Vincenzo Gaglio, trovandosi davanti alla magnificenza del sarcofago di marmo detto di “Ippolito e Fedra” ebbe l’irresistibile impulso di esaminarlo fin nei minimi particolari e di intraprendere una lettura dell’opera così perfetta ed approfondita che ancor oggi è indispensabile per gustarla in tutti i suoi molteplici aspetti.
Come lo stesso afferma, il monumento è stato oggetto di studio da parte di numerosi estimatori che hanno cercato di ricostruirne la collocazione storica e di capire chi fosse l’illustre personaggio che vi trovò degna sepoltura; tuttavia, le fonti in nostro possesso chiariscono solo parzialmente l’origine e la vita di questo capolavoro che resta così ancora in parte avvolto in un mistero che gli conferisce maggiore attrattiva.
Gustavo Chiesi, giornalista della provincia modenese, autore de “Le Cento città d’Italia” e de “La Sicilia Illustrata” pubblicate nel 1892, del sarcofago scrive: “Questo, a parte i suoi templi dorici, è il maggior monumento di arte antica che Girgenti possegga: ed è fra i più insigni della Sicilia – degno di stare a pari della Venere Siracusana.
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Non avesse altro, Girgenti, non avesse cioè il suo cielo splendido, eternamente sereno, il suo clima mite delizioso nell’Inverno: le meraviglie dei suoi templi dorici, le attrattive tutte d’un paese originale, caratteristico, meriterebbe pur sempre di esser fatto meta del pellegrinaggio di chi ama l’arte e ne comprende il vero bello grande e semplice nelle sue manifestazioni, per una visita a questo mirabile saggio dell’arte greca giunta alla più alta e pura sua espressione”.2 (G. Chiesi, La Sicilia Illustrata nella storia, nell’arte, nei paesi, Milano, 1892, p.183)
Anche se Schubring, studioso delle antichità sicule, per contro, lo definisce: ” mediocre imitazione di un bel soggetto tanto in voga a quei tempi” e afferma che “…se però la composizione può davvero dirsi bella e rispondente alle parole di Euripide, non devesi altrettanto dire dell’esecuzione piuttosto difettosa e ineguale…”3 (G. Schubring, Topografia storica di Agrigento. Traduzione dal tedesco con note aggiunte dal prof. Toniazzo, Torino, 1887, pp. 228-229) resta certamente fuori dubbio che, come lui, molti suoi contemporanei illustri ricercatori stranieri ebbero modo di prendere in seria considerazione il manufatto e trarre le proprie personali conclusioni.
A onor del vero, quella di Schubring pare sia una delle poche critiche negative; tutti gli altri studiosi ne esaltano le qualità eccellenti. Anche Goethe, in tempi precedenti, afferma: “Credo di non aver mai veduto nulla di più superbo in fatto di bassorilievi” e soggiunge: “L’opera è perfettamente conservata, per me, la ritengo un modello del periodo più leggiadro dell’arte greca”.4 (J.W. Goethe, Viaggio in Italia, in Opere, Firenze 1952, II, p.747)
Agli inizi del 1800, il nobile Ignazio Paterno, principe di Biscari in un’opera intitolata “Viaggio per tutte le antichità della Sicilia” nel descrivere il monumento cerca, rifacendosi ai vari predecessori, di dare una spiegazione sull’origine del sarcofago.
Egli scrive: “Fu opinione popolare degli Agrigentini, che in questa tomba fosse stato sepolto il cadavere di Fallari, non riflettendo che questo Tiranno si era tirato tutto lo sdegno del Popolo, a segno di essere stato ucciso in una sollevazione: e fu tanto in odio la sua memoria che dopo la di lui morte proibirono poter far uso nel vestire del colore azzurro, perché solito usarsi dai di lui famigliari : e perciò è totalmente inverisimile, che abbiano curato apprestargli una sì magnifica sepoltura”. 5 (I. Paternò, Principe di Biscari, Viaggio per tutte le antichità della Sicilia, descritte da I.P. , Palermo 1817, pp.177-178)
Esclusa l’ipotesi della tomba di Falaride se ne sono valutate altre, ma nessuna ha un vero fondamento probatorio. Nell’Archivio storico dell’Agrigentino” leggiamo che fu ritenuto la tomba del tiranno Fizia, o di un figlio di Falaride o, addirittura la tomba di Terone, per giustificarne la ricchezza e la finezza delle sue sculture.
Vincenzo Gaglio, tuttavia, ipotizza che il sarcofago possa essere appartenuto a qualche personaggio illustre greco che venne a stabilirsi in Agrigento o a qualche agrigentino che traeva origine dalle colonie attiche e fosse stato qui da noi sepolto.
Poiché in ognuno dei due casi avevano, in comune con Ippolito, la patria di provenienza, Gaglio immagina che avessero voluto conservare la memoria di un tale eroe in quel monumento scolpendovi la vicenda e la tragedia da lui vissuta. Ciò non desta meraviglia poiché era in uso, presso i greci, adornare i propri sepolcri con la rappresentazione delle gesta eroiche dei personaggi della mitologia, degli dei o delle celebrità della propria nazione, senza che essi avessero alcuna connessione con la vita o con le opere svolte dal defunto.
Quanto al luogo del suo ritrovamento, si sa con certezza che venne rinvenuto nell’ex Feudo Inficherna, nel fondo allora posseduto dal canonico Libertino Sciacca, sito a nord dell’altipiano che sovrasta l’abitato di Porto Empedocle.
Il periodo in cui ciò avvenne non si conosce con esattezza, non esistono, infatti, documenti scritti che possano far piena luce su questo argomento. E’ possibile, comunque, effettuare una ricostruzione approssimativa, ma piuttosto attendibile, del periodo in cui il monumento venne donato alla Cattedrale.
Nei documenti del\’“Archivio storico dell’agrigentino’’ 6 (Agrigento Soprintendenza BCA Biblioteca Pirro Marconi, cfr G. Zirretta Miscellanea di notizie) troviamo alcune schede redatte dal professor Giovanni Zirretta recanti notizie tra loro differenti: nella scheda n. 1 riguardante i beni del Museo diocesano si afferma che il sarcofago venne ritrovato e donato dal canonico Libertino Sciacca nel 1750, mentre in quell’altra scheda riguardante i beni di appartenenza della Cattedrale, si legge che da un manoscritto di autore ignoto intitolato “Storia dell’antica Agrigento”, citato anche da Giuseppe Picone nella prefazione delle “Memorie Storiche,7 (G. Picone, Memorie storiche agrigenine, Agrigento, 1982, rist. dell’ed. Girgenti, 1866) risulta che “…nel primo trentennio del 1700 (1720-1733) il canonico Libertino Sciacca lo rinvenne in un fondo da lui posseduto”.
Quest’ultima datazione si ritiene sia la più attendibile.
Dagli archivi della Curia si apprende, infatti, che Libertino Sciacca fu canonico dal 1729 e che nel 1735 rinunciò all’incarico in favore di Angelo Amico.
La vita di ogni canonico verrà descritta in modo completo solo nel 1800, prima di allora non si hanno notizie complete, così non si è in grado di stabilire la data esatta del decesso di Libertino Sciacca; tuttavia, possiamo supporre che lo stesso rinunziò all’alta carica perché molto ammalato, al termine della sua vita, o così anziano da non poter espletare più le sue mansioni. Si sa, inoltre, che Angelo Amico morì nel 1751, perciò è assai improbabile che il sarcofago sia stato rinvenuto e donato nel 1750.
Anche se non si può avere un riscontro probatorio nei documenti capitolari, perché degli stessi manca un volume andato smarrito o distrutto e probabilmente riferentesi a quel periodo storico, si ritiene che il sarcofago sia stato donato al momento della nomina dì Libertino Sciacca a Canonico.
Il Capitolo (l’organo collegiale dei canonici), accanto al Vescovo, era posto alla dirigenza di tutta la diocesi e aveva compiti amministrativi di grande importanza. Il cancelliere del Capitolo era come un notaio pubblico e aveva il compito di redigere ì verbali delle sedute che si tenevano abitualmente con cadenza bimensile.
Gli atti venivano raccolti in volumi nei quali si notavano gli avvenimenti principali circa I’ amministrazione e si registravano anche i documenti importanti per il Capitolo stesso.
Il Capitolo agrigentino era, all’epoca, molto ricco e le rendite assegnate ai canonici erano fortissime, le maggiori di Sicilia. In occasione della nomina a canonico, a volte, si offriva alla Cattedrale un dono di particolare importanza per il prestigioso incarico ricevuto. Si suppone perciò che Libertino Sciacca abbia donato il sarcofago di Ippolito e Fedra in quella circostanza, quindi, se ne deduce che nel 1729 questo insigne monumento fosse già stato rinvenuto.
Si apprende inoltre, sempre dagli atti capitolari, che nel 1741, precisamente l’8 Ottobre, mons. Giovanni Angelo De Ciocchis lo rinvenne in Cattedrale, durante una sua visita alla Chiesa Agrigentina in veste di regio visitatore per conto del Re, legato apostolico, per nascita, in Sicilia.
A quei tempi quattro canonicati agrigentini, erano di regio patronato. Il Re di Sicilia godeva del privilegio di “legato pontificio Ruggero il Normanno, dopo aver liberato la Sicilia dal dominio arabo, ottenne dal Papa per sé e per il figlio Sìmone la nomina a suo permanente ambasciatore per la Sicilia. Da allora, i vescovi vennero nominati dal Re, nella veste di rappresentante pontificio.
San Gerlando, ad esempio, ricevette la nomina da Ruggero, carica poi avallata dall’approvazione del Papa.
Questo privilegio perdurò nei secoli fino a quando il re Vittorio Emanuele II, rinunciò a questo beneficio abbracciando le idee di Cavour di “libera Chiesa in libero Stato” evitando così un ulteriore
motivo di conflitto tra le due istituzioni.
La visita di mons. De Ciocchis rappresenta un punto di riferimento basilare per attingere notizie riguardanti la ricostruzione storica di questo e di altri beni posseduti dal Capitolo.
A proposito della stessa, in un prezioso scritto che mons. Domenico De Gregorio, gentilmente ci ha concesso, leggiamo:
“L’otto Ottobre del 1741 mons. Giovanni Angelo De Ciocchis, per ordine del Re Carlo III di Borbone, “Apostolicus per Siciliam Legatus natus” (per nascita legato apostolico in Sicilia), iniziò la “sacra regia visita” della Chiesa Agrigentina. Essa, anche per tutto il regno di Sicilia, riuscì così completa, accurata e documentata da assumere vigore di legge. “
Negli atti, la visita al sarcofago viene così descritta:
“Era domenica; accolto solennemente in cattedrale dal Capitolo dei canonici, dal clero e da tutte le autorità civili e militari, mons. De Ciocchis, dopo aver adorato il Santissimo e aver visitato la sua cappella e il tabernacolo, si portò al battistero: “cumque invenisset magnae pelvis loco urnam sepulcralem adhiberi, variis sculptam imaginibus gentilium morem referentibus…mandavit quod, infra tres menses, baptisterium innovetur novo fonte marmoreo comparato… urnam vero sepulcralem alio perspicuo juxta Ecclesiam loco servandam praecepit, velut egregium artis et antiquitatis Agrigentinae monumentum”.
(E avendo trovato che, al posto di una grande vasca per il battesimo, si adibiva un’urna sepolcrale scolpita con varie immagini che si riferivano ai miti pagani, ordinò che, entro tre mesi, si rinnovasse il battistero acquistando un nuovo fonte battesimale di marmo.
L’urna sepolcrale, però, ordinò che si conservasse, presso la chiesa, in un altro posto, visibile al pubblico, perché è un egregio monumento dell’arte e dell’antichità agrigentina.).
(Sacrae Regiae Visitationis per Siciliam a Joanne Angelo De Ciocchis, Caroli III regis jussu, acta decretaque omnia. Panormi, 1836, voi. I, Vallis Mazariae, p. 230).
Forse anche prima, dal vescovo di allora, mons. Lorenzo Gioeni (1730-1754), come dopo, certamente, dai suoi successori, fu dato e rinnovato l’ordine di rimuovere il sarcofago e basti citare quanto, quattordici anni dopo, prescriveva mons. Andrea Lucchesi Palli (1755-1768) che, il 28 Ottobre 1755, iniziò la sua visita pastorale dalla stessa chiesa. Il vescovo entrò nel battistero e l’osservò attentamente: “la vasca battesimale è di marmo e all’esterno lavorata da mano antica peritissima, con immagini profane, vestigio della gentilità” e allora “ordinò e comandò”: “che si facessi il nuovo fonte di marmo vivo nel luogo dove presentemente ritrovasi situato, dovendosi fare giusta la forma e maniera che prescrive lo rituale romano, a spese di questa chiesa cattedrale e frattanto il predetto antico fonte dovrà riporsi in un luogo che sarà designato da Sua Signoria Illustrissima per non perdersi la memoria di un’opera così antichissima e lavorata da peritissima mano”. (Archivio della Curia Arcivescovile di Agrigento, Registro della S. Visita di mons. A. Lucchesi Palli, p. 701).
Ma alla rimozione si arrivò dopo ben centotrentaquattro anni, quantunque nelle visite pastorali alla cattedrale l’ordine e il comando fossero rinnovati da quasi tutti i vescovi.
I motivi, o i pretesti, addotti contro la rimozione erano vari e per nulla insormontabili: finanziari, artistici, di comodità, di utilità, di decoro…”
Continua mons. De Gregorio nel suo scritto:
“Ripensandoci si resta perplessi, ma si può, come ritengo riflettendo sulla strana vicenda, pensare ad una motivazione sottintesa, forse non del tutto perspicua agli stessi oppositori, ma radicata su una profonda convinzione, comune nei capitolari: il mito pagano di Ippolito e Fedra, in ultima analisi, non disdiceva e anche poteva tollerarsi in una chiesa e nel suo battistero. Oggi, dopo tanti studi sulle religioni e la loro storia comparata, sulla mitologia, la patristica, sul mistero e le religioni misteriosofiche, sugli archetipi primordiali come l’acqua, il fuoco, sulle jerofanie solari e lunari, si può ben comprendere quel che inconsciamente, forse, ma validamente dal punto di vista culturale opponeva tante remore, e cosi a lungo, all’esecuzione di un ordine ben preciso dell’autorità ecclesiastica e regia. San Giustino (+163) era, da pagano, un filosofo: aveva cercato la verità in tutte le scuole filosofiche dell’epoca; infine approdò al cristianesimo e poi, con il martirio, testimoniò la sua fede.
Nella sua prima Apologia scrisse: “Cristo è il Logos di cui tutto il genere umano fu partecipe. Quelli che vissero secondo il Logos, sono cristiani anche se passarono per atei, come, tra i Greci, Socrate, Eraclio e altri”. (San Giustino, Apologia I in Le Apologie a cura di I. Giordani, Roma, 1967, p.107).
Tertulliano riteneva che tanti aspetti delle credenze e del pensiero antico fossero una preparazione al Vangelo. San Clemente Alessandrino così interpreta il racconto omerico di Odisseo legato all’albero della nave per non cedere al fascino delle sirene: “Legato al legno della croce, sarai libero da ogni naufragio, sarà tuo pilota il Logos di Dio e lo Spirito, il Santo, ti farà approdare ai porti del cielo”. (San Clemente Alessandrino, Esortazione ai Greci, a cura di Q. . Cataudella, Torino, 1950, p. 244).
Accennando perciò ai miti greci, interpretati alla luce di Cristo, invitava il lettore: “Vieni, ti mostrerà il Logos, i misteri del Logos descrivendomi in immagini a te familiari” (ivi).
Un libro su questo argomento, assai ricco e stimolante, ha pubblicato Ugo Rahner: Miti greci nell’interpretazione cristiana, tradotto in italiano da Luciano Tosti (Bologna, 1980).
Ma che significato cristiano potrebbe avere il mito di Ippolito?
O come lo si potrebbe avvicinare, o vedere, alla luce del mistero cristiano?
Ne da avvio Dante che lo applica a sé stesso:
Qual si partio Ippolito da Atene per la spietata e perfida novera tal di Fiorenza partir ti conviene. (Ibi, 17,46-49)
Ippolito, innocente, fu costretto ad allontanarsi da Atene per la matrigna spietata ed empia , cioè senza la pietas (il dolce legame che stringe tra loro i membri di una famiglia, di una gente, di una patria) e “perfida”, cioè, infedele verso lo sposo e verso il figliastro cui doveva fare da madre; così /’Alighieri dalla stessa madrepatria fu tradito, calunniato, ingiustamente esiliato.
Tanti Padri della Chiesa e scrittori ecclesiastici chiamano Èva matrigna, noverca, perché ai figli propinò il veleno del peccato e la morte, mentre Maria è la vera madre, donando a Gesù l’umanità per cui diventa nostro fratello.
Egli si caricò dei peccati degli uomini, o, come scrive San Paolo, della maledizione degli uomini, che egli espiò morendo sulla croce, secondo il volere del Padre, per la salvezza di tutti. Senza facili, ma erronei, sincretismi, distinguendolo e separandolo, nettamente, dalla Verità rivelata, non si può leggere nel mito di Ippolito, come in filigrana, il mistero della salvezza operato da Gesù e a noi partecipato per mezzo del battesimo?
Egli, infatti si sostituì agli uomini ai quali Èva era stata non madre, ma noverca; caricato di tutti i peccati degli uomini, estromesso da Gerusalemme e dal suo popolo, venne crocifisso: dal suo cuore squarciato sgorgarono i sacramenti, di cui il battesimo è la porta. Gli alunni che, sotto la guida del professore Pietro Conte, hanno studiato il sarcofago di Ippolito e Fedra e riprodotto le sue scene in pregevoli disegni arricchiti da puntuali commenti, sono entrati in intimo contatto con una grande opera d’arte, (che nelle tragedie di Euripide e Seneca trova perfetta, specchiata corrispondenza) ma anche con la rappresentazione artistica di una vicenda di altissimo valore morale che non li allontana, ma li avvicina e prepara a meglio comprendere e vivere la loro fede.
Nel 1873 mons. Domenico Turano, vescovo di Agrigento (1872- 1885), decise e ordinò, ancora una volta, la rimozione del sarcofago; ci riuscì, dopo superate non poche difficoltà, anche da parte del clero, solo nel 1875. Il sarcofago, in seguito, divenne l’opera d’arte più importante del Museo della Cattedrale ordinato da mons. Bartolomeo Lagumina (1898 – 1931).
Osservando con attenzione le sculture del sarcofago, si coglie facilmente in esse la presenza di evidenti tracce di gesso. Da ciò viene facile supporre che potrebbero essere state fatte, in passato, alcune copie dei pannelli scultorei.
Incuriositi, abbiamo chiesto a mons. De Gregorio ragguagli in merito e la spiegazione che ci è stata fornita ci riporta nuovamente alle vicende storiche che si intrecciano e che in ogni epoca coinvolgono la nostra vita e il patrimonio culturale che ci appartiene.
Il Capitolo dei Canonici, consapevole di custodire un bene prezioso, al fine di preservarlo da qualsiasi pericolo di distruzione, verso la fine del primo trentennio del novecento (1938 – 1940), quando già si cominciava a presagire l’imminenza di un devastante conflitto bellico (quale effettivamente fu la seconda guerra mondiale), fece realizzare dei calchi in gesso dei pannelli scolpiti.
Nella memoria di mons. De Gregorio, allora giovane seminarista, questo fatto rimase impresso, tuttavia non si hanno notizie documentate in merito.
Proseguendo nel nostro lavoro di ricerca, rinveniamo in una rivista intitolata “Agrigentini a Roma e ovunque” un artìcolo redatto da Pietro Griffo inerente al monumento.
In esso viene riportato l’episodio della riproduzione in gesso dell’opera effettuata nel periodo prebellico e testualmente leggiamo:
. .ebbi cura che fosse rilevata una riproduzione in gesso, si che, in caso di danni totali o parziali che dovesse subire, rimanesse della bella scultura una documentazione scientificamente soddisfacente e si perpetuasse il ricordo di uno dei più importanti testimoni dell’opulenza delle necropoli agrigentine in un periodo che in quegli anni non era certo il più studiato dell’antica storia della città. Il calco passò già dalle origini a far parte delle collezioni del Museo Civico. Mi dispiace dirlo: non so che fine abbia poi fatto. “8
Fortunatamente il sarcofago non subì danni; dei calchi, dunque, non si è saputo più niente, né si sa se rimasero tali o se effettivamente furono utilizzati per fare delle copie dell’opera.
Abbiamo posto lo stesso quesito al dott. Ernesto De Miro, il quale ci ha riferito che negli anni 1969/70, mentre era Soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento, fece eseguire un calco del lato frontale del sarcofago raffigurante il ritorno di Ippolito dalla battuta di caccia. Questo pannello di gesso fu portato presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Messina, dove allora il dott. De Miro insegnava, per essere oggetto di studio e di osservazione.
Ciò dimostra ancora una volta la grande attualità dei temi e dei contenuti del monumento e il vivo interesse che sempre riesce a suscitare in chi ad esso si accosta.
Dal Museo della Cattedrale, sito nella navata sinistra della chiesa, il sarcofago fu poi portato al centro del Museo Diocesano, edificato dall’architetto Franco Minissi, presso la Cattedrale.
In seguito, precisamente nel 1966, il sarcofago fu asportato per essere posto nella chiesa di San Nicola alla Valle dei Templi, dove ancor oggi si trova.
La causa di questo ulteriore spostamento fu un evento tragico: la frana del 19 luglio, provocata dalla speculazione edilizia che aveva dato origine a un’urbanizzazione selvaggia, senza tener conto delle zone ritenute a forte rischio di instabilità geologica per la presenza di una fitta rete di acquedotti greci: gli Ipogei.
Molti di essi vennero ostruiti dalle costruzioni, così le acque sotterranee, non potendo defluire ordinatamente, si infiltrarono nel terreno in modo incontrollato, aggravando il dissesto idrogeologico di buona parte del Colle di Girgenti.
Venne interessata la parte nord occidentale della città, dalla Cattedrale fino alle adiacenze di via Dante. I quartieri più colpiti furono quelli dell’Addolorata e di S. Croce, ma i danni provocarono pesanti ripercussioni economiche e sociali che, per lungo tempo, gravarono su Agrigento.
Anche la cattedrale riportò danni considerevoli, soprattutto alla navata sinistra, il cui tetto crollò a causa dell’abbassamento del piano della stessa, così si rese necessario l’immediato trasporto dei beni custoditi nel museo in luoghi più sicuri e si scelse, per parecchie opere, il Museo Nazionale, per il sarcofago, la Chiesa di San Nicola. La scelta ricadde su questo edificio perché, in quel momento di disorientamento e di paura, si ritenne fosse il più idoneo, in quanto lontano dalle zone ritenute ad alto rischio di smottamento. Lo spostamento avvenne a cura di mons. Pietro Re, nell’agosto del 1966 e, data la particolare urgenza, il sarcofago venne trasportato semplicemente su un camion.