Avevo appena cominciato a rileggere “Liolà” quando quegli antichi appellativi posti con rigore davanti ai singoli personaggi: “Don”, “Zà”, “Gna” mi riportarono ai tempi della mia fanciullezza, anni venti-trenta quando quel piccolo settore compreso tra la Via Saponara, la Via Santa Maria Dei Greci e la via Gubernatis, era un autentico spaccato dell’autentico Microcosmo che era sicuramente la piccola Girgenti degli anni ai quali faccio riferimento.
Amavo stare affacciato al terrazzo di casa mia, in Salita S. Maria dei Greci, ad osservare la vita che si svolgeva nello spazio sottostante: un autentico palcoscenico. Il mio cuore stava lì. La mia vocazione era per la strada. Sarei sempre vissuto in mezzo a quella strada che invece mi veniva concessa solo in premio e sempre a malincuore da mia madre che quella strada non amava tanto.
Avevo osservato quelle strane gerarchie che tutti rispettavano con scrupolo quasi militaresco quando rivolgevano la parola o facevano riferimento a determinate persone del sesso gentile. A talune era riservato il titolo di “Signora”, ad altre il titolo di “Donna” e ad altre ancora quello di “Gnà”.
Se ben osserviamo però tutti e tre gli appellativi significano la stessa cosa e cioè SIGNORA. Donna non è una forma sincopata di Domina, cioè Signora? E “Gnà” che cos’è se non una forma corrotta ed anch’essa sincopata di signora?
Dimenticavo le “Za” le zie.
“Signore” erano le sposate appartenenti alla borghesia ed alle famiglie di un certo censo, ma l’attribuzione diveniva arbitraria, se vogliamo adottare questo stesso codice, quando arrivava ad Agrigento una forestiera che era Signora, tout-curt anche perché almeno immediatamente non era soggetta a raffronti. C’era da informarsi, se mai, se stavamo parlando con una signora o con una signorina. E lascio immaginare il sussiego delle vecchie zitelle costrette a puntualizzare: prego: Signorina! Identificabile con una dichiarazione di verginità!
Ma c’erano ben altri distintivi discriminanti e che riguardavano l’abbigliamento. Le signore, se dovevano uscire dal rione, indossavano cappellini di varia foggia e spesso forniti di veletta, rigorosamente nera per le vedove. E in via Roma, come si chiamò per un certo periodo la via Athenea di sempre, c’erano due o tre modiste con una serie di cappellini in mostra e sempre al passo con la moda.
La signora indossava anche il cappotto, negato alla “Donna”, alla quale, al massimo, veniva concesso uno “spolverino” un soprabito più leggero al posto dello scialle ormai dismesso anche dalle donne del ceto medio e che pure in altri tempi era stato simbolo dignitosissimo di signorilità ed agiatezza essendo quasi sempre di seta e impreziosito da frange e ricami.
” Donna ” era il titolo delle mogli degli artigiani dei piccoli commercianti e della più modesta borghesia, Mai e poi mai si sarebbe vista una “Donna” indossare un cappellino perché sarebbe stata sicuramente oggetto di ingenerosissima attenzione: Talè: u cappeddu si misi! E chi addivintà Signura tuttu ‘nsemmula?
Quei cappellini erano quindi il simbolo inconfondibile della condizione, come l’omologo cappello del consorte emblema di un ceto quello dei “cappedda” appunto.*
Ma le pari grado, mi si consenta di utilizzare il linguaggio dei militari, della sfera campagnola o paesana continuavano a portare lo scialle che molte signore, specialmente in città avevano abbandonato.
Con il “Gna” ci si rivolgeva alle donne più umili, alle contadine, ed alle persone di servizio ed a tutte queste era riservata la mantellina. Più era datato l’indumento e più era consono alla modestia che doveva coincidere e purtroppo quasi sempre coincideva con l’arretratezza.
Alle ” Gnà” ed all’omologo ” Gnu” (ricordo l’ultimo di questi “Gnù”, u Gnù Cicciu, padrone dell’ultima carrozzella che nelle mattine d’estate strombettava in via Atenea per reclutare clienti da accompagnare a S. Leone!) ci si rivolgeva con il “voi” anch’esso degradato a pronome della modestia e della pochezza se non proprio del dispregio. Lascio immaginare quindi l’entusiasmo col quale venne accolta la direttiva fascista che imponeva il “Voi” in una miriade di cartelli esposti n tutti i locali pubblici e che recitava. Sono aboliti il LEI e la stretta di mano!
I tempi cambiavano e con essi le mode, e chi seguiva i dettami della moda, dismetteva un certo tipo di abbigliamento del quale liberamente ora si impossessava chi lo aveva sognato.
E me maritu è ‘mpiegatu a la banca: la pozzu purtari la vesta bianca. Recitava una canzone di inizio secolo! Proprio così: alla gente umile era imposto l’abbigliamento meno appariscente e la facevano da padroni gli indumenti di colore nero ma in ogni caso di colore non proprio vistoso cui accedevano senza limite le ragazze!
Negli anni trenta, c’è da notare, il “voscenza”, era quasi completamente scomparso e veniva usato ormai solo dalle persone più anziane specialmente in provincia; il titolo, di “Donna” già degradato appartiene alle persone di medio ceto, mentre quelle che una volta erano le “Donna”, ormai sono “Signore”. Il secondo dopoguerra provvede ancora al resto, ed oggi le donne sono tutte Signore, comprese le Signorine non più discriminate salvo che per l’età. Ma al titolo di Signora oggi bisogna far seguire il cognome altrimenti se uno dice semplicemente Signora quasi sempre intende riferirsi alla propria collaboratrice domestica!
Tutte queste sfumature, riscontrai, che erano state scrupolosamente colte e altrettanto scrupolosamente utilizzate da Pirandello in Liolà: una Commedia che più girgentina non potrebbe essere.
Ed eccoli i personaggi del Liolà.
Un solo “Don”: Don Simuni
Una sola “Donna” Donna Mita
Due “Zà” “Zà” Cruci e “Zà” Ninfa
Due “Gnà” “Gnà Gesa” e “Gnà Carmina
Le tre giovani contadinelle, Ciuzza, Luzza e Nedda, destinate a diventare, senza scampo, “Gna”
Ciuzza che, come la madre, è destinata a diventare “Zà”!
Ed infine i tre “Cardellini” figli di Liolà : Paliddu, Caliddu e Tiniddu
L’appellativo “Za” era un compromesso diplomatico per non etichettare una persona di ceto medio col modesto titolo di “Gna”, e nello stesso tempo per non innalzarlo a quello di “Donna”!
Questo stesso appellativo verrà utilizzato per richiedere ed offrire familiarità, come farà arbitrariamente Liolà con Don Simuni per comunicargli scherzosamente………….vinni ‘na liggi, Zu Simni, etc etc ; o come faranno Luzza Tuzza e Nedda quando, vogliose di sostare presso la “robba” di “Gna” Gesa ed assistere all’arrivo di Liolà, la chiameranno zà Gesa anziché col solito “Gnà”
Le “Zà” quelle effettive sono due: Zà ,Cruci ,cugina di don Simuni, che se non viene detto esplicitamente, si capisce che non possiede le stesse ricchezze del cugino; e La “zà” Ninfa, madre di Liolà .
Ma Za Ninfa e Zà Cruci non sono pari grado perché quando quest’ultima sentirà dalla stessa figlia Tuzza che Liolà verrà a chiederla in sposa, reagirà contro l’ardire e l’impudenza del richiedente. ” E comu po ardiri iddu di viniriti a dumannari a mmia?”
Zà Cruci non ha ancora digerito la preferenza accordata dal cugino Simone a Mita piuttosto che alla figlia Tuzza e accennando ai dichiarati motivi di tale scelta chiarisce: ……ma si putiva sunnari ma’ d’addivintari a muglieri di Don Simuni Palummu?
E poi ancora: ” ….gna si piglià, a Mitidda sulu pi chistu ( perché gli desse dei figli)
e poi ancora (pag. 16 terzo rigo) riferendo quanto detto dal cugino in ambito familiare
” ……..( e dissi) ca si pigliava a la Gnà Mita …. a Donna Mita, ora, sulu pi chistu.
Pare un lapsus quello di Zà Cruci, ma quell’errore è voluto, è deliberato, risentita com’è per la scelta sbagliata del cugino a cui la moglie non riesce a dare quell’erede vigoroso tanto agognato per l’apporto del sangue forte della campagnola.
E Za Cruci è più propensa a pensare che la responsabilità di tale fallimento sia da attribuire quindi alla sterilità di Mita. Almeno per ora!
Le due “Gnà”:
Carmina, detta La Muscardina, è sanguigna (Scuppatizza si diceva una volta a Girgenti riferendosi a persone senza peli, sulla lingua ): non ha legami di parentela con alcuno, non dipende da nessuno, non ha figlie da sistemare, lavora con abilità e se mai sono gli altri che possono avere bisogno di lei: (Du sunnu i potenti, si diceva una volta: cu avi assà’ e cu ‘unn’avi nenti!) e si permette di mettere in risalto l’improlificità generica della coppia Simuni-Mita mentre ha voglia di attribuire a lui precise e personali responsabilità : Cu tutti sti figli chi avi!
Il disappunto per questa gaffe è apparentemente generale ma si ha l’impressione che Cruci e Gesa pensino ognuna tirando l’acqua al mulino del personale interesse: Cruci avrebbe aggiunto volentieri e ben ti stia! Dato che non hai voluto sposare mia figlia Tuzza che forse un figlio te lo avrebbe dato. E attribuisce quindi la responsabilità alla sterilità di Mita; mentre Gna Gesa, vede allontanare la responsabilità della nipote Mita dato che qualcuno già pensa ad oggetiive carenze virili di Don Simuni!
La Gna Gesa è personaggio di secondo piano e la sentiremo rispondere alla “Zà Cruci” che vorrebbe che corresse dalla nipote a farsi dare una “lancedda” di vino. Chi curru! (risponde). S’ ‘un mù dici iddu! *
LIOLA’ in una conversazione che avrà con Cruci dirà di sé : Massaru ci sugnu etc. Il suo rango anche se non è di nascita, lui se l’è creato e cucito addosso: Ma cosa gli manca mai? E’ bello; sa cantare, è forte, sa potare , è mitateri, è finarolu, è figliularu è conquistatore di donne e nessuna gli resiste come le tre ” Catapanotti di foravìa” che gli hanno dato i tre “Cardellini” accuditi dalla generosa madre, o le tre contadinelle che a parole lo respingerebbero ma che nei fatti si eccitano solo al sentire il tintinnio dei sonagli del suo carretto. E non gli resisterà Tuzza che oltre al piacere dell’amplesso proverà l’altro meno nobile della vendetta ai danni di Donna Mita colpevole prima per averle soffiato l’innamorato Liolà, e dopo per avere sposato lo zio Simuni a cui lei stessa aspirava per una definitiva sistemazione. .” e chi vulia aviri allura sta morta di fami? nun bastava lu maritu riccu? Puru l’amanti fistusu?
Mita sarebbe rimasta Mita perché giovane e pari grado di Ciuzza,Luzza e Nedda, .Ma Mita, destinata a divenire Gna Mita, come la zia Gna Gesa, sposando Don Simuni diviene automaticamente DONNA MITA, e vince e rimarrà vincente sino alla fine : e forse effettivamente l’unica vincente!
E’ molto attento il nostro Pirandello nell’attribuire questi appellativi che considera un autentico protocollo di cui ci dà precisa riprova quando (vedi Pag. 68 rigo decimo) Ciuzza, luzza e Nedda , dovendo salutare le tre donne di diverso rango e cioè “Zà” Ninfa, “Donna Mita” e “Gnà Carmina” tutte e tre, in coro, salutano differenziando i saluti in base alle destinazioni, e diranno, e lo ripeto, in coro, ed in osservanza di un preciso protocollo:
Vossabenedica Zà Ninfa (Saluto di rispetto ma sempre rivolto a persona di una certà età)
Bona sira Donna Mita ( No, di certo, vossabenedica perché Mita è giovane)
Salutamu Gna Carmina Né vossabenedica né bona sira!
Questo dunque il mondo che osservavo da quel panoramicissimo palco di proscenio che era il terrazzo della mia casa paterna di Salita Santa Maria dei Greci. Proprio questo stesso messo in scena dal nostro Pirandello.
E se consideriamo che Pirandello scrisse “LIOLA” nel 1916, le osservazioni possono considerarsi come quelle di un contemporaneo in quanto afferenti al costume ed ai comportamenti che non mutavano, almeno a quei tempi, ad ogni alitare di vento. Anche se qualcosa era cambiato come si è detto proprio all’inizio di questo stesso scritto quando è stato fatto notare che negli anni trenta l’appellativo di “Donna” era stato degradato e sostituito in “alto” dal più moderno(?) appellativo di Signora!
*A proposito di questo “iddu” si osserva che spesso veniva adoperato per pudore(?) dalle mogli che così evitavano di pronunziare la parola Marito con tutte le implicanze che l’educazione carente e puritana voleva evitare. Pensiamo a quante volte le ragazze vengono zittite perché vogliono impicciarsi in cose assolutamente “tabù” per le picciotte “schette” che finiva quasi sempre a trasformare in “pruderie” ciò che era la più semplice e innocente delle curiosità.
Ma ritorniamo a quell’ “iddu” che veniva utilizzato, come qui dalla “Gna Gesa, per accorciare quella distanza che veniva rimarcata dall’uso di un Voscenza o di un Don. Ma quello non era un comportamento “regionale” perché mi capitò spesso di assistere a reazioni virulente del tipo: Si metta bene in mente che io non sono “lui”, ma il dott. Comm. Cav. primo dirigente etc etc! Ha capito?
fonte rivista Agrigentini a Roma