
Ci fu un tempo in cui i fiumi erano dei navigabili
Gli abitatori della greca Sicilia, così come tutti gli altri popoli dell’antichità, apprezzavano ed amavano le acque dolci che scorrevano sulla terra. Anzi, penetrati dal misterioso scaturire dell’acqua dal terreno, pensavano che ogni sorgente fosse posta sotto la protezione di una divinità, di solito una ninfa, cioè una bella ragazza, che, in casi eccezionali, si poteva persino corteggiare (ricordate Galatea, Aretusa, ecc.?).
I fiumi, poi, erano ritenuti giustamente tanto importanti per la sopravvivenza di una città, che si dava a queste il nome del fiume che le bagnava: Selinunte prese nome dal Selinos; Gela dal Gelas, Agrigento dall’Akràgas, ecc., e si riteneva che il fiume fosse un dio che si occupava della prosperità della “sua” città.
Se ne può dedurre che le loro acque fossero rispettate non solo per l’aspetto utilitaristico (necessarie all’alimentazione), ma anche per quello paesaggistico (sponde stabilizzate ed abbellite dalla vegetazione).
A questi dei si innalzavano templi e si foggiavano statue oggetto di culto.
Come si figuravano gli antichi Sicani e Greci i fiumi-divinità?
Se le placide sorgenti erano immedesimate con figure femminili – le madri dell’acqua – lo scorrere gagliardo della corrente di un fiume non poteva che essere associato alla forza virile. Così il fiume-dio Gelas, in virtù della forza d’urto delle sue piene, era raffigurato come un toro con la testa di uomo adulto e barbuto. Stessa similitudine per l’Amenanos che scorre all’interno di Catania e spesso manifesta la sua energia distruttiva.
La dolce corrente dell’Akràgas, la quale consentiva alle navi di risalirne il corso fin’oltre l’attuale rotonda Giunone, invece, non poteva che essere paragonata all’azione di un fanciullo. E così lo troviamo effigiato nelle monete; dove compare come un ragazzino nudo con due piccole corna, che simboleggiano i due rami che abbracciano la città classica.
Di chi poteva essere figlio questo giovane? se non dell’ottimo e massimo Zeus Olimpico (il più autorevole degli déi) e della bella ninfa Asterope (occhio di stella) a sua volta figlia dell’Oceano, di quel mare al quale la città di Empedocle doveva la sua prosperità commerciale?
Nesssuna meraviglia se gli Acragantini inviavano ai prestigiosi santuari di Olimpia e di Delfi le preziose statue del dio giovinetto Akràgas, che Pindaro chiamò il “sacro fiume”.
Oltre ai ricordi storici, la testimonianza più bella e commovente del culto destinato al dio-fiume bambino che ci rimane è però, senza dubbio, la perfetta statua in marmo del famoso efebo, che possiamo ammirare nel museo archeologico di Agrigento.
Molte città siciliane del periodo greco effigiarono i loro numi fluviali come ragazzini dalle belle forme (kouroi), ma l’efebo Akràgas li supera tutti per armonia di proporzioni e bellezza di fattezze. Pare che dalla sua fresca e quasi scattante figura voglia comunicarci un messaggio di misteriosa bellezza.
Certo, noi uomini tecnologici, dobbiamo compiere un grande sforzo per avvicinarci al mondo dell’efebo dal sorriso enigmatico. E quando ci sembra di aver colto il messaggio di civiltà che quel popolo – il quale fece dell’estetica la ragione della vita – ci volle trasmettere, ecco sfuggirci nuovamente, forse a noi incomprensibile.
Angelo Cutaia