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vaso greco

Il furto di vasi antichi ad Agrigento

26 Gennaio 2019 //  by Elio Di Bella

I vasi greci che da pochi giorni sono in mostra nel vecchio e glorioso Hotel des Temples (trasformato in un istituto di archeologia) hanno questo di speciale: sono come vecchi emigrati partiti in tempi di miseria e di ignoranza, che tornano per una sola estate a rivedere la patria. L’ idea di riportarli ad Agrigento è stata di una società di Spoleto, la Progetto Terziario, che vede per Agrigento un futuro post-industriale; o, per dirla all’ antica, ritiene che, per arrestare il degrado, la città debba puntare sul suo straordinario patrimonio archeologico. Finita l’ estate, i nostri emigrati se ne torneranno nelle loro patrie di adozione: gli Stati Uniti, la Germania, la Francia, l’ Inghilterra. Una mostra così insolita (e che suscita anche un po’ di amarezza: sono tutti vasi scelti, nel Settecento e nell’ Ottocento, con la stessa cura con cui si sceglievano su un mercato di schiavi gli esemplari più perfetti) non poteva evitare di ospitare un settore nel quale si rigira il coltello nella piaga, ovverosia si documenta come avvenne il saccheggio.

E’ il settore dedicato a Viaggiatori e antiquari nel Settecento e nell’ Ottocento, curato, certo non senza sofferenza, dalla Soprintendente Graziella Fiorentini. Il primo posto dove gli antiquari, detti anche ciceroni, portavano i viaggiatori stranieri, era il Duomo: c’ era un sarcofago in marmo greco, di proporzioni monumentali, su cui era raffigurata in altorilievo la leggenda di Ippolito e Fedra, il sarcofago veniva considerato la maggiore curiosità della Sicilia. E’ buffo, leggendo i giudizi che ne davano, il fatto che i tedeschi andassero tutti in estasi, mentre i francesi si dichiaravano delusi. Anche Goethe si entusiasma alla vista del sarcofago e annota; Non ho mai visto nulla di più superbo. Per me è un modello del periodo più leggiadro dell’ arte greca (invece è di epoca romana). I ciceroni agrigentini erano personaggi insostituibili per i viaggiatori stranieri, sia perché erano autentici appassionati d’ archeologia e disposti a grandi camminate per mostrare ai visitatori un rudere, sia perché erano loro a organizzare gli incontri per gli acquisti delle antichità.

Anche se non esistevano leggi in proposito, portar via i vasi antichi non era certo considerata una buona azione. Nel 1778 il conte Dominique Denon, segretario francese alla Corte di Napoli, si scaglia contro la mania collezionistica dei viaggiatori che incoraggia il furto dei vasi antichi; e aggiunge: gli oggetti di curiosità sono importanti per il posto al quale vengono sottratti e perdono valore nel momento stesso in cui vengono portati via. Ben detto. Però, il documento successivo è una lettera dello stesso Denon che scrive entusiasta: Torno in Francia così carico di vasi che non so dove metterli (diventerà il consigliere artistico di Napoleone e avrà l’ incarico di raccogliere in tutta l’ Europa opere d’ arte per arricchire il Louvre). Oltre che di ciceroni, Agrigento pullulava di tombaroli che un altro francese, il conte De Forbin (anche lui senza badare alla contraddizione) così descrive: Gli agrigentini speculano sulle ceneri dei loro padri, scavano tombe, ne trafugano i vasi. Io ne ho acquistati parecchi, ma sono disgustato di dover trattare con questi contadini pieni di cupidigia e di malafede. Si passano giornate intere in estenuanti trattative e poi, di solito, è nel bel mezzo della notte che vengono a svegliarvi per accettare le condizioni che avevano rifiutato di giorno. Dei ciceroni dell’ Ottocento, chi ha fatto più danni fu un certo Raffaello Politi, al quale si deve la maggiore dispersione dei vasi agringentini.

Tuttavia Politi si riscatta un po’ perché era un ottimo disegnatore e copiò le figure dei moltissimi vasi passati per le sue mani e poi scomparsi. Era un bel tipo, questo Politi. Tacitava la sua coscienza con citazioni colte: un suo bellissimo disegno, che riproduce Cassandra aggredita da Aiace Oileo, è accompagnato da questa considerazione: Tempo già fu in cui la distruzione di un solo sepolcro seco traeva il fulmine del cielo, e succedea la peste e lo disfacimento degli eserciti. Oggi taccion gli dei, svaniti sono i lor tremendi castighi e si distruggono i vetustissimi sepolcri della splendida Agrigento. Il riferimento dotto è al racconto di Diodoro Siculo che descrive l’assalto cartaginese alla città di Agrigento nel 406 a.C.: cercando il punto più adatto per scalare le mura, il comandante cartaginese ordina ai suoi soldati di demolire i sepolcri che sorgono ai piedi della cinta, per innalzarvi un terrapieno. Ma, mentre i soldati sono all’ opera, un fulmine centra la tomba di Terone e la scuote. Allora le truppe cartaginesi, prese da paura superstiziosa, si disperdono. Così il comandante fa quel che un punico deve fare in questi casi: scanna un bambino su un altare e affoga una moltitudine di gente in mare. Torna la calma e l’ esercito, rassicurato, prende d’ assalto Agrigento. Politi è l’ uomo che fece acquistare a Ludwig di Baviera una collezione di quarantasette vasi di proprietà dell’ abate agrigentino Giuseppe Panittieri.

La storia ha inizio nel 1823. Ludwig fa un viaggio in Sicilia e ne rimane conquistato, scrive lettere piene di pensieri sublimi, di inni alla bellezza dei luoghi, di entusiastiche descrizioni delle antiche rovine: La vita, la vera vita, afferma, è solo qui (ma le autorità siciliane non erano altrettanto contente: dovevano mobilitare uno squadrone di soldati per proteggere dagli assalti dei briganti di strada questo spensierato visitatore che si muoveva in tutte le direzioni). Però non dura: le strade dell’ interno della Sicilia sono mulattiere, e trascorrere tante ore sulla portantina sorretta dai muli è una vera tortura. Così Ludwig torna a Palermo e manda ad Agrigento il suo architetto di Corte, Leo Von Klenze. Questi viene ospitato nella Valle dei Templi in casa dell’ abate Panittieri, della cui collezione s’ innamora a prima vista. Entra in azione come mediatore il Politi, e comincia una vicenda tragicomica: Ludwig, che si proclamava un legalitario, voleva che l’ esportazione avvenisse in piena regola perché il contrabbando è contrario ai miei princip. Ma era anche un taccagno, e quando, dopo molti tira e molla sul prezzo, i vasi vennero finalmente imballati e portati a Porto Empedocle, sorse un ostacolo: per imbarcarli c’ era da pagare una tassa alla dogana. Ludwig s’ impuntò e i vasi vennero riportati ad Agrigento. Allora le autorità fecero sapere al principe che c’ era un solo modo per non pagare il dazio: chiedere al viceré di concedergli graziosamente l’ esenzione.

Ma Ludwig s’ impennò ancora di più: Un tal genere di concessioni non si addice alla mia dignità di principe né al mio nobile sentire. Così risolse la cosa a modo suo: con grande pericolo (di briganti e di rotture) fece trasportare i vasi via terra fino a Palermo e qui li caricò su un vascello da guerra austriaco. E in tal modo riuscì a non pagare la dogana. Per festeggiare il temporaneo ritorno a casa dei vasi agrigentini, Progetto Terziario ha organizzato un seminario al quale hanno partecipato storici, archeologi e filosofi di tutta Europa sulla storia di Agrigento e sulla personalità di Empedocle. Agrigento ha avuto in sorte di aver dato alla civiltà occidentale i due uomini che ne hanno rappresentato emblematicamente il lato luminoso e quello oscuro. Da un lato Empedocle, il primo greco che rifiutò il modo orientale di difendersi dal dolore del vivere definendolo illusorio, l’ uomo che ci ha insegnato a guardare in faccia il mondo, a riconoscerne la realtà, a dominarla. Dall’ altro lato Falaride, colui che bruciava gli uomini dentro un toro di bronzo costruito con un marchingegno per cui le urla della vittima si trasformavano in muggito. Ma mentre di Empedocle parliamo molto (qui è stato presentato dal filosofo Emanuele Severino), di Falaride non diciamo tutto. Questa volta ne ha parlato senza reticenze l’ inglese Oswyn Murray. Quello che si sa di sicuro della vita di Falaride è pochissimo. La nuova colonia greca non era stata fondata neanche da dieci anni (nel 580 a.C.) e viveva ancora nella fase pionieristica in cui sacrifici e vantaggi sono equamente ripartiti tra tutti, quando, dando segno di un precoce culto del potere personale, ebbe il suo primo tiranno: appunto Falaride, il quale dovette avere la sua parte di merito nella rapida espansione della città. Morì assassinato. Tutto qui. Ma novanta anni dopo, Pindaro, nell’ esaltare un altro tiranno di Agrigento, Terone (un gran signore, paternalistico, filantropo e vincitore di giochi olimpici) lancia la prima tremenda accusa: Falaride dal cuore spietato arrostiva vivi gli uomini in un toro di bronzo.

Da quel momento fino al Medio Evo comincia la seconda vita di Falaride. Non c’ è generazione che non ne parli; si aggiungono particolari alle sue gesta ignobili, si precisano i modi della sua crudeltà e delle sue depravazioni. C’ è anche un momento in cui si tenta di giustificarlo: è Luciano il divulgatore della versione secondo cui il tiranno fece, sì, costruire il toro di bronzo, ma ci mise dentro proprio il costruttore, per punirlo della sua perversa immaginazione. A chi pensa che la storia di Falaride non sia che un mito, Murray ricorda che in tempi recenti l’ imperatore Bokassa teneva nel congelatore il corpo di sua moglie e mangiava carne di bambini. Certo, nella storia del tiranno sono confluiti molti miti: il toro cretese, il Moloch dei Fenici, il ricordo dei sacrifici umani. Ma il punto non sta nel chiedersi se questa sia una storia vera o falsa, sta nel fascino che la crudeltà di Falaride ha esercitato per due millenni sul mondo occidentale. La verità dice Murray, è che alle radici della nostra tradizione classica, razionale, ci sono anche zone oscure. Certi miti antichi ci dicono verità sgradevoli. Oggi il toro portatore di morte che eccitava Falaride è superato: la nostra civiltà ha escogitato le camere a gas e la bomba atomica. Il momento di Terone, il tiranno cantato da Pindaro, è quello in cui Agrigento raggiunge il massimo della floridezza. E’ una ricchezza che viene dai campi di grano, dagli oliveti, dai vigneti.

Terone beneficia della grande vittoria riportata a Imera contro i cartaginesi (480 a.C.): migliaia di prigionieri nordafricani vengono mandati a lavorare come schiavi nei campi e alla costruzione dei templi. Infine la città si libera del suo tiranno di turno e s’ instaura la democrazia, ma non senza problemi: tornano gli esuli politici decisi a recuperare le loro case e le loro terre, e ne nascono conflitti. E non è finita: a differenza che nella Magna Grecia, i coloni di Sicilia avevano dovuto sempre fronteggiare lo spirito di indipendenza e di rivolta dei Siculi, che in questo momento di confusione riprendono slancio. Poi ci sono le guerre con Siracusa che sta diventando troppo potente. Ma la democrazia agrigentina regge, ed Empedocle ne diventa il simbolo (sullo sbandierato giacobinismo del filosofo, il professor Asheri di Gerusalemme è scettico; ma gli sembra logico che un simbolo del genere cadesse vittima di altri giacobini rivali e venisse spedito in esilio, come narrano le fonti). Gli ultimi anni di Agrigento ci sono descritti da Diodoro: Gli agrigentini vivevano come se dovessero morire il giorno dopo, ma costruivano palazzi come se dovessero vivere in eterno; i giovani facevano la dolce vita e le loro sfrenatezze erano bonariamente tollerate dall’ arconte. Nessuno sospettava che si avvicinasse la fine: dopo essere stata tranquilla per oltre settanta anni (dalla battaglia di Imera), Cartagine tornò alla riscossa. Era il 406. Agrigento fu saccheggiata e non si riprese mai più. Quando la furia cartaginese si fu placata, nella città era rimasta intatta una sola cosa: la celebre cantina di un uomo ricchissimo di nome Gellia.

di CLARA VALENZIANO

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Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, girgenti, valle dei templi

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