Il dossier sulla frana di Agrigento, settantanove pagine dattiloscritte, che recano in calce quattordici firme, quelle dei componenti della commissione di indagine tecnica, nominata dal Ministro dei Lavori Pubblici, è restato chiuso per circa due mesi in un cassetto. Dal 9 gennaio, quando fu consegnato al Ministro, fino al 5 marzo, nessuno — o pochissimi — hanno saputo della sua esistenza. Soltanto alla vigilia della chiusura delle Camere, Bucciarelli Ducei e Zelioli, Lanzini ne hanno ricevuto una copia: era troppo tardi per stamparne le centinaia di esemplari indispensabili per portare a conoscenza dei deputati e dei senatori il risaltato di un anno e mezzo di laboriose indagini Era troppo tardi per consentire alle Camere, ormai sulla via del lo scioglimento, di aprire un nuovo dibattito sul « caso Agrigento », sullo scandalo che nell’agosto del 1966 minacciò la vita del Governo Moro e provocò una profonda crepa tra socialisti e democristiani.
A quell’epoca, sull’onda dell’emozione popolare, dopo l’immane disastro, un ministro socialista, Giacomo Mancini, un funzionario da molti indicato come un simpatizzante socialista, e giornali vicini al secondo partito della coalizione governativa tentarono di mettere sotto accusa la Democrazia Cristiana. La frana — sostennero — è stata provocata dal caos edilizio esistente nella « Città dei Templi ». Che il caos esistesse non era confutabile. Ad Agrigento, come del resto in molte città italiane, nel dopoguerra, si era costruito « alla garibaldina » senza andare per il sottile. Leggi e regolamenti erano stati violati da gente priva di scrupoli. Su ciò non vi era dubbio. Ma, per quanto riguardava la frana, il discorso era diverso. Le responsabilità per la tragedia della città siciliana erano, in grandissima parte, da ricercare altrove. Al momento della costituzione della commissione d’indagine presieduta dall’ingegnere Grappelli, il Ministro dei Lavori Pubblici s’impegnò a riferire i risultati in Parlamento. Dopo oltre un anno e mezzo ha preferito non farlo. A due mesi dalla consegna, la relazione è ancora un documento avvolto nel mistero. Il contenuto delle impegnative indagini effettuate, i risultati del lavoro di una « équipe» di funzionari dei Lavori Pubblici è tuttora « top secret ». E lo sarà, presumibilmente, per giorni e giorni. In ogni caso le settantanove pagine non saranno oggetto di dibattito in Parlamento, non forniranno, almeno per ora, materia per interrogazioni di deputati e senatori.
La commissione Grappelli
«La DC blocca le indagini su Agrigento. Quell’inchiesta non s’ha da fare »: cosi tuonò il solito settimanale radicale specializzato in « rivelazioni sensazionali » aggiungendo: « Moro a Mancini: hai fatto dichiarazioni impegnative, forse eccessive, non era meglio attendere i risultati dell’inchiesta? E Mancini a Moro: e l’inchiesta già fatta? Quella del prefetto e del capitano dei carabinieri, non l’hai letta? Ti pare poco? Vedrai cosa verrà fuori dalle nuove indagini ».
Il 4 agosto, il Ministro dei Lavori Pubblici aveva affermato alla Camera dei Deputati che ad Agrigento erano accaduti « fatti gravi, allarmanti, mostruosi » ed aveva riaffermato la sua decisa volontà « di individuare rapidamente, e sotto il controllo dell’opinione pubblica, le cause del dramma ». Ora le cause sono state individuate, la commissione Grappelli, pur avendo avuto diciotto mesi di tempo — con molto senso di responsabilità —, ha ridimensionato notevolmente sia le affermazioni del ministro sia le conclusioni dell’inchiesta del dottor Michele Martuscelli che concluse le indagini in un tempo relativamente breve.
Da quali cause ha tratto origine il dramma della « Città dei Tempi! »? Il « dossier » finora ignorato parla abbastanza chiaro: « i carichi indotti dai manufatti, cosi irrazionalmente costruiti sul colle di Agrigento, hanno operato in maniera trascurabile sul prodursi e sullo svilupparsi dell’evento stesso ».
I risultati dell’indagine
Ed ecco i risultati dell’indagine « Fra i dissesti a carattere estensivo, che potrebbero verificarsi nel colle di Agrigento — afferma la relazione — sono da considerarne ancora altri di origine meccanica e cioè quelli che potrebbero verificarsi nelle argille del Pliocene del Calabriano, per lenta deformazione di uno strato superficiale di ridotto spessore. In tal caso, manufatti fondati superficialmente entro la zona in lento movimento vengono interessati dal fenomeno
«Oltre ai dissesti di origine meccanica, un’altra ampia e sotto alcuni aspetti, più grave categoria di dissesti, è quella di origine idraulica.
« Già si sono descritte le condizioni morfologiche ed idrologiche del colle di Agrigento: da esse e dagli interventi, talora irrazionali e nefasti dell’uomo (mancata regimentazione dei corsi d’acqua, tagli indiscriminati delle pendici, discariche in zone inadatte, coltivazioni non appropriate, ecc.), deriva la possibilità che le acque superficiali, incontrollatamente defluenti, esercitino una violenta azione erosiva che può dar luogo a profondi scalzamenti, premessa per crolli di parti aggettanti o per cedi-menti di materiali plastici.
«L’azione erosiva assume aspetti particolarmente gravi in quegli impluvi in cui vengono avviati gli scarichi delle fognature, determinando afflussi di gran lunga superiori a quelli corrispondenti ai bacini naturali sottesi ».
Situazioni abnormi
«Le colture del versante settentrionale e le irrigazioni nelle pendici meridionali — prosegue la relazione — sono del tutto irrazionali e provocano progressiva degradazione del suolo, con disordine e movimenti di superficie che concorrono ad aggravare il descritto stato generale di dissesto superficiale.
«Si è già scritto, trattando della frana del 19 luglio 1966, che i carichi indotti dai manufatti, cosi irrazionalmente costruiti sul colle di Agrigento, hanno operato in maniera trascurabile sul prodursi e sullo svilupparsi dell’evento stesso. Ma non va perso di vista che in varie zone cittadine si riscontrano specifiche situazioni abnormi, nelle quali i sovraccarichi giocano un ruolo importante, e che tali situazioni si verificano in tutte le locali formazioni geologiche.
«E’ da considerare, poi, agli effetti della menomazione delle condizioni di stabilità di masse rocciose, la presenza di vastissime cave per l’estrazione di materiale da costruzione.
«L’origine di queste si perde nel tempo, ma ad esse l’uomo ha fatto ricorso anche di recente, concorrendo ad aggravare una situazione quanto mai precaria. Identico effetto, anche se più contenuto per le minori dimensioni, hanno prodotto i numerosi sbancamenti e splateamenti effettuati per le nuove costruzioni edilizie sorte intorno alla vecchia città, in una fascia periferica che presenta gli aspetti più gravi e preoccupanti.
«La Commissione, sulla scorta di quanto rilevato circa la stabilità delle pendici del colle di Agrigento — la cui situazione generale richiede un immediato e radicale intervento per contenere, nei limiti delle possibilità umane, l’aggravarsi di fenomeni già ora attivi — « sulla base di quanto richiesto da terzo capoverso dell’art. 2 della legge 26-9-1966, n. 749, ha provveduto ad effettuare uno studio di massima per la sistemazione idraulico-forestale e per il consolidamento delle pendici che interessano l’abitato agrigentino.
«In considerazione dei risultati e delle indicazioni fornite dalla Commissione, la Cassa per il Mezzogiorno ha predisposto un progetto di massima della sistemazione e del consolidamento delle pendici.
«Si raccomanda la rapidità, nella realizzazione delle opere previste, dovendosi ognora tener presente che le azioni di erosione e di dissesto sono sempre attive, mentre, per gli stessi interventi, le possibilità di operare vanno considerate distribuite in un lasso di tempo di non breve durata.
«Complessivamente, il progetto prevede interventi con opere idrauliche trasversali nei corsi d’acqua secondari e nei subaffluenti ed opere radenti nei fiumi Drago e S. Biagio.
«Di pari passo saranno effettuati interventi di carattere idraulico-forestale, indispensabili ai fini di una efficace azione sistematoria.
« Il progetto prevede, altresì, la sistemazione di frane superficiali e di calanchi per una superficie pari a circa 35 ettari, il rimboschimento di oltre 75 ha. di terreno mediante piantagioni arboree, con impiego di specie diverse, sia per tener conto dell’adattamento delle stesse a) particolare ambiente climatico-pedologico, sia per rispettare le peculiarità paesaggistiche della zona.
« Sotto tale aspetto, si propone di rimboschire le pendici al piede della Rupe Atenea con macchia mediterranea. Nelle zone in atto arborate — circa 275 ha — l’intervento consisterà essenzialmente nel rinfoltimento delle attuali colline.
«In particolare, poi, l’osservazione diretta e sistematica e le indagini locali hanno consentito di constatare e verificare le condizioni di precaria stabilità e disordine delle pendici.
«Tale disordine risulta aggravato, oltre che dall’indisciplinato ruscellamento delle acque meteoriche, dall’abusiva restituzione delle acque usate, dall’irrazionalità dei metodi di coltivazione della terra, dall’intemperanza nell’edificazione, dalle rotture di equilibrio degli ammassi rocciosi a seguito della apertura di numerose cave di pietra.