di Arturo Attanasio
Nel mese di luglio, ogni anno, si rimette in moto la memoria storica dei siciliani, i cui ricordi e racconti familiari su quella travagliata stagione di guerra del 1943 che, a partire dalla notte del 9 e dalle prime luci dell’alba del 10 luglio, ha visto le coste agrigentine invase da migliaia di mezzi navali e di soldati americani, si tramandano oralmente di generazione in generazione.
Ricordi che si trovano oramai custoditi e un po’ sbiaditi solo nei nostri cuori e comunque introvabili nei resoconti ufficiali della “grande” storia.
Eppure la storia che racconta i massimi sistemi, i principi, le ideologie, le grandi speculazioni finanziarie che hanno portato i popoli e le loro civiltà ad evolversi e spesso a scontrarsi e che informa il nostro pensiero per astrazioni, tralascia di ricordare che ogni evento, seppur storicamente rilevante, è stato costruito con la somma di piccoli episodi di vita quotidiana e da singoli individui. A motivo di ciò la macrostoria allargherà, certo, le nostre menti, ma non toccherà i nostri sentimenti.
Dagli accadimenti minimi, che hanno coinvolto famiglie, villaggi, persone, si può però cogliere tutta la drammaticità di quelle esistenze e comprendere meglio i fatti della storia di un intero popolo, della sua cultura, delle sue debolezze e del suo coraggio.
Dalla microstoria narrata, alla storia teorizzata, è il percorso scientificamente oggi più apprezzato e riconosciuto da “storici” di peso internazionale ed è alla luce di tale considerazione, che in questo caldo mese di luglio siciliano, vorrei che una microstoria che riguarda i miei familiari, minuscola nella sua valenza storica, ma significante per comprendere la quotidianità drammatica di quei giorni del ‘43, possa entrare, nel suo piccolo, a far parte della memoria collettiva.
La famiglia di mia madre viveva a Porto Empedocle. Già dal mese di maggio del 1943 i bombardamenti alleati si intensificarono sulla città portuale, sede di importante struttura ferroviaria, di una centrale elettrica e di numerosi depositi di armamenti.
Le vittime tra la popolazione civile furono tante e la famiglia di mia madre, come quasi tutte le famiglie empedocline, abbandonò la propria casa e si trasferì, ospite di alcuni parenti, a Ribera, paese tra Agrigento e Sciacca, dove la violenza della guerra ancora non era arrivata.
Il gruppo dei familiari di mia madre, che a quel tempo aveva 15 anni, era composto da un fratello più grande di mia madre e da una sorella più piccola, dai suoi genitori e dal nonno, che passava tutte le notti ad assistere, da una terrazza coperta da una vetrata, ( che fu colpita da una bomba subito dopo il loro trasferimento da quella casa) ai duelli aerei che si svolgevano nel cielo di Sciacca, città dove era ubicata una importante base area italiana.
La guerra però si avvicinava anche a Ribera dove la presenza di reparti militari tedeschi stava richiamando l’attenzione dell’aviazione e della marina alleata. Iniziarono spezzonamenti e cannoneggiamenti dal mare e l’incolumità dei civili cominciò ad essere a rischio anche in quel paese.
Bisognava ancora fuggire e provare a mettere in salvo la vita.
Mio nonno (il padre di mia madre) che era un ferroviere macchinista, fiero della sua professione, pensò di portare la sua famiglia in salvo verso un paese dell’interno della Sicilia, prendendo il primo treno utile in partenza, fidando ancora nella efficienza e puntualità del servizio di Stato. Ma giunto alla stazione ferroviaria di Ribera la trovò deserta, con tutti gli uffici vuoti e abbandonati dal personale dipendente, con i magazzini di deposito aperti e in parte già saccheggiati e con due treni a vapore e alcuni vagoni merci e passeggeri fermi e inattivi sui binari.
Lo sconforto fu grande per il gruppo in fuga, ma mio nonno, con estrema risolutezza, decise di fare lo stesso da solo. Dopo avere valutato che una motrice era ancora funzionante ed aveva carbone a sufficienza per un viaggio abbastanza lungo, agganciò alla macchina, messa velocemente in pressione, un vagone passeggeri e vi sistemò tutta la sua famiglia aspettando l’oscurità per partire. Viaggiare di notte era opportuno per sfuggire ai probabili attacchi aerei.
L’avventuroso viaggio fu lungo e non privo di tensioni e l’obiettivo da raggiungere era la stazione di Lercara Friddi, snodo ferroviario che mio nonno conosceva per averci transitato, in servizio, numerose volte e che, soprattutto, era lontano dalla linea del fronte.

Durante il tragitto, sebbene fosse stata notte e con tutte le luci del treno attentamente oscurate, il piccolo convoglio familiare venne attaccato da aerei alleati, ma la fortuna e l’abilità del nonno ferroviere evitarono che si consumasse una tragedia. Entrò con i pistoni al massimo della potenza in una galleria che si apriva lì vicino lungo il percorso e vi rimase dentro, immobile, fino a quando gli aviatori americani si stancarono di sorvolare i binari e si allontanarono.
La galleria, densa di fumo di carbone, diventò subito una camera a gas mortale e i passeggeri del treno “personale” dovettero scendere di corsa e dirigersi verso l’imboccatura per potere respirare. Ma il buio fitto e la paura crearono qualche problema; pianti, grida e la sorella di mia madre cadde ferendosi ad un ginocchio.
Il “treno di famiglia” finalmente giunse a Lercara. Nelle salite la motrice che non era perfettamente in efficienza, faceva fatica a “tirare”, ma alla fine mio nonno riuscì a raggiungere la agognata stazione di Lercara. Anche lì il personale ferroviario aveva abbandonato la stazione con tutti i servizi e gli uffici, mentre i militari italiani, credo della divisione Assietta, si davano alla fuga, dopo avere distrutto i loro alloggi e bruciato materassi e masserizie; lo stesso facevano i tedeschi che pur di fuggire in tutta fretta, non si preoccuparono di portare con loro l’armamento pesante e le vettovaglie. Quest’ultime furono la salvezza dei residenti di Lercara e di molti civili che si trovarono sfollati in quel territorio.
Mio nonno, lasciato il treno, portò tutta la sua famiglia in un minuscolo appartamento (una stanza e un bagno) che lui stesso utilizzava quando si fermava, per il suo lavoro, in quel paese; riuscì a comprare dei materassi ed affittò, per due giorni, un asino con il quale, di notte, accompagnato dal figlio, scendeva alla Stazione di Lercara a recuperare, dai magazzini abbandonati dai tedeschi, tutto quanto potesse servire alla sopravvivenza dei suoi familiari ( ma aiutò anche una famiglia di Porto Empedocle che si trovava rifugiata in quel posto e non mangiava da diversi giorni).
Sigarette, carne e legumi in scatola, marmellata, pane nero, strane salsicce (oggi famosi wurstel), un ben di Dio che salvò dalla fame mia mamma ed i suoi congiunti.
La guerra in Sicilia stava per finire e la famiglia di mia madre con un mezzo di fortuna, un autocarro sul cui cassone si stiparono alla meglio, fece ritorno a Porto Empedocle; lungo la strada verso Agrigento incrociarono interminabili file di automezzi militari americani che procedevano indisturbati alla volta di Palermo e dai carri i soldati lanciavano, alla popolazione che incontravano, caramelle, cioccolato e chewingum.
Giunti finalmente a casa, la trovarono però senza il tetto, con le inferriate dei balconi ritorti, con i mobili pieni di schegge e vetri frantumati in tutti gli ambienti. Anche il negozio di tessuti di mia nonna era stato interamente distrutto e saccheggiato, ancora con i segni delle baionette americane, utilizzate per tagliare le saracinesche rigonfie per gli spostamenti d’aria delle bombe.
Era luglio, faceva caldo e mia madre, sua sorella Fannì, suo fratello Enzo, suo padre Totò, sua madre Maddalena e suo nonno Giuseppe, dormirono quella prima notte, alla luce delle stelle, ma vivi e finalmente a casa loro.
Il giorno dopo sarebbe iniziata un’altra vita con tanta voglia di cominciare a ricostruire.
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