• Menu
  • Skip to right header navigation
  • Passa al contenuto principale
  • Passa al piè di pagina

Before Header

Agrigento Ieri e Oggi

Header Right

  • Home
  • In 5 Minuti
  • Agrigento Racconta
  • Attualità
  • Storia Agrigento
  • Storia Comuni
  • Storia Sicilia
  • Storia Italiana
  • Storia Agrigento
  • Storia Comuni
  • Storia Sicilia
  • Storia Italiana

Header Right

  • Home
  • In 5 Minuti
  • Agrigento Racconta
  • Attualità
veduta di girgenti

I Montaperto contro i Naselli: la lotta per il potere ad Agrigento nel secolo XVI

12 Agosto 2022 //  by Elio Di Bella

Il viceré siciliano Ugo Moncada ricevette dal  sovrano Carlo V ordini di dimissione, ma egli, rifiutandosi di lasciare l’incarico, aizzò una parte dell’aristocrazia dell’Isola, a lui fedele, a scatenare una vera e propria guerra civile. I nobili che sostenevano Moncada, il Viceré dimissionario, erano convinti di poter ottenere nuovi privilegi se avessero appoggiato la causa, ma c’era anche l’aspettativa di una possibile indipendenza dal regno di Spagna. Tra le città coinvolte in questa guerra civile vi fu Agrigento. Durante tale periodo le città siciliane presentarono al re, al Vicerè, al parlamento delle precise richieste attraverso dei testi chiamati “capitoli” . Anche Agrigento presentò i suoi Capitoli e dalla lettura di tali fonti abbiamo anche notizie riguardanti la rivolta scoppiata in quegli anni nella Città dei Templi e la lotta per il potere tra le nobili e potenti famiglie Montaperto e Naselli.

“I Capitoli di Agrigento (218)  vennero presentati da Poncio de Marinis, barone di Muxaro e da Paolo de Mistretta dottore in utroque nonché milite « auratum ».

Vi è detto che il popolo saccheggiò il frumento dei mercanti e l’università chiedeva di pagarlo in sei anni; vi si parla di prime e seconde rivolte. Il saccheggio dei magazzini significa senz’altro che la popolazione temeva che l’esportazione causasse la fame e ripropone una spiegazione dei fatti adombrata nel primo capitolo, parlando della lunga siccità. Il La Lumia più volte citato, derivando da una cronaca locale, pare conosca una sola rivolta, accaduta al momento dell’espulsione del Vicere Moncada, e che si sarebbe risolta in una guerra privata tra i Naselli e i Montaperto, con saccheggio e distruzione della casa di Pietro Montaperto, signore di Comiso, appoggiato dai nobili, mentre i Naselli si appoggiavano ad una clientela numerosa e più bassa.

Sarebbe questa la prima delle rivolte cui accennano i Capitoli, caratterizzata, secondo il cronista, da una questione sociale confusa in una lotta tra due famiglie. Nel racconto del La Lumia fa impressione la signoria di Comiso attribuita al Montaperto, mentre è risaputo che di Comiso erano baroni i Naselli, e che Comiso è troppo lontana da Agrigento perché i suoi baroni potessero risiedere nella città dei templi. In realtà quei Naselli erano i baroni di Diesi e Gaspare era già in carcere nel 1509, sottoposto a processo da Teseo Capoccio per non so quale accusa (219).

In realtà nei fatti di Agrigento non hanno a che fare né Comiso né i Naselli di Comiso; ma la situazione era già abbastanza complicata. I Montaperto avevano anche altri nemici coi quali avevano giurato tregua al tempo del Presidente Calatajud.

Ma il sabato mattina 5 novembre 1513 il magnifico Gaspare di Bartolomeo Montaperto se ne andò a messa in San Francesco, accompagnato dal seguito, come era costume. Al ritorno passò dinanzi alla casa di Luciano Belguardo col quale aveva giurato pace; Luciano con 14 uomini armati di lance, coltelli e balestre lo assalì; restarono feriti tre uomini del seguito: mastro Nicolò Caruso carrozziere a una gamba; un altro al collo e un terzo alla testa (dunque un seguito clientelare che si estendeva sino agli artigiani). Il Capitano carcerò Luciano ed altri sette uomini tra i quali tre « mastri » (seconda clientela estesa fino agli artigiani). Altri furono banditi.

 Il Montaperto si presentò al Vicere che mandò il solito Commissario della Regia Gran Corte e, nel tempo delle informazioni, i « valituri » della parte accusata dovevano uscire dalla città; soltanto il padre del Belguardo poteva assistere all’escussione dei testi (220). E c’erano anche inimicizie atroci a livello diverso. Amato Bonaccolti, dottore in utroque e giudice della corte civile, aveva nemico Antonio Lo Burgio pure dottore e che voleva ucciderlo. Ebbero una disputa e si ingiuriarono; Gerolamo Lo Burgio fratello mise mano alla spada; poi Amato andò giudice a Sciacca; si recò in una sua vigna su un mulo; Gerolamo lo raggiunse su un cavallo bianco, lo assalì e lo ferì, poi assoldò un bandito e alla fine lo assalì in casa (221).

 Io credo che i tumulti siano stati effettivamente due ma, per analogia con altre città, propongo come prima la rivolta popolare con saccheggio dei magazzini e come secondo l’episodio di lotta Naselli-Montaperto, intendendo i Montaperto come una delle famiglie patrizie di Agrigento ed i Naselli (di Diesi) in lotta per il primato; del resto ad Agrigento abitavano vari baroni ed abbiamo già visto i De Marinis; vi erano anche i Lo Porto e gli stessi Montaperto erano baroni di Raffadali. Il primo episodio, 1516, fu abbastanza grave da essere conosciuto a Palermo ed a Messina; fu presentato come episodio antimoncadiano dagli Annali di Messina del Gallo che, non so in base a quali fonti, narra che Agrigento sollevata scacciò gli « ottimati » e costituì un governo popolare.

 Io credo che i tumulti siano stati effettivamente due ma, per analogia con altre città, propongo come prima la rivolta popolare con saccheggio dei magazzini e come secondo l’episodio di lotta Naselli-Montaperto, intendendo i Montaperto come una delle famiglie patrizie di Agrigento ed i Naselli (di Diesi) in lotta per il primato; del resto ad Agrigento abitavano vari baroni ed abbiamo già visto i De Marinis; vi erano anche i Lo Porto e gli stessi Montaperto erano baroni di Raffadali. Il primo episodio, 1516, fu abbastanza grave da essere conosciuto a Palermo ed a Messina; fu presentato come episodio antimoncadiano dagli Annali di Messina del Gallo che, non so in base a quali fonti, narra che Agrigento sollevata scacciò gli « ottimati » e costituì un governo popolare.

I Capitoli di Agrigento placitati il 13 giugno 1517, oltre alle solite geremiadi contro i Commissari ignoranti e gli algoziri imbroglioni, forniscono una notizia importante: per la «malizia» del tempo « quasi tucti li massarii non hanno producto quasi cosa alcuna » ; gli agrigentini dovrebbero morire in carcere per debiti e chiedono la moratoria generale sino al raccolto del 1518. Il Monteleone concede invece che il Capitano provveda caso per caso. Ma a noi importa la richiesta che è grave in una città che viveva esclusivamente della esportazione del frumento”.  

A questo punto si inserisce uno dei fatti più notevoli della storia del nostro cinquecento. Molto tardi, in marzo 1519, Pietro Montaperto si decide a denunziare un fatto del 1517.

Accusa un tale Antonino di Sciacca il quale, dopo la morte dei Giudici della Regia Gran Corte a Palermo (223), « scripsi et mandao certi litteri di lo condam Jo. Luca Squarcialupo, Christophoro de Benedicto et Baldassarro de Septimo ad la cità di Girgenti directi cum certi gentilhomini contra ipsu spettabili accusaturi li quali havissiro ammazzato ad ipsu accusaturi, sakiiatuli la robba et arsoli la casa, li quali litteri lo dicto Antonuzo (di Sciacca) mandao et inbiyao cum curreri alo quali pagao et dapoi lo dicto curreri andao cum dicti licteri in la dicta cità di Girgenti et dapoi tornao et portaoli la resposta di dicti litteri et etiam in itinere dicti litteri foru pigliati, apersi et lecti et dapoi tornati a lo dicto curreri lo quali andao et tornao ut supra ».

…  La denunzia di Pietro Montaperto lascia in ombra due cose: a chi fossero dirette le lettere del triunvirato e perché egli stesso abbia lasciato trascorrere quasi due anni prima di sporgere denunzia.

«Directi cum certi gentilhomini», egli ha scritto; cioè a certi gentiluomini noti ai triunviri non soltanto come nemici del governo ma anche nemici di lui Montaperto. La data del documento non è quella della denunzia ma quella del provvedimento preso dal Vicere, quasi subito se non subito, cioè l’invio di Pietro de Ansaldo Commissario, che dovrà prendere informazioni a Vicari e ad Agrigento. Perché anche a Vicari? — Vero che Vicari era un passaggio obbligato tra Palermo e Agrigento, ma non vediamo il collegamento se non supponendo qualche altra circostanza non scritta. « Li quali havissiru amazzato ad ipsu accusaturi, sakiiatuli la robba et arsoli la casa ».

Che i triumviri cercassero di estendere la rivolta ad Agrigento è comprensibile; che per far ciò si rivolgessero ad un gruppo di gentiluomini noti come avversari del governo e che indicassero il Montaperto come particolarmente favorevole al governo e quasi come capo dei «conservatori», è pure comprensibile; che suggerissero di toglierlo di mezzo è comprensibile; meno comprensibile è che suggerissero di saccheggiare e ardere la casa, salvo che ciò debba intendersi come un trucco per far addossare al « popolaccio » la responsabilità dell’azione istigata invece dai gentiluomini.

Mi sembra troppo moderno e non attribuibile al ‘500, tempo di violenza ma anche di ingenuità e di azioni senza troppi sotterfugi. Ci mancherebbe solo che attribuissimo al saccheggio suggerito lo scopo di finanziare la rivolta. Credo che la verità sia un’altra.

Arrivano ad Agrigento le famose lettere e accadono disordini; ma Pietro Montaperto sta sulla sua, osserva, «sa», non parla, non interviene; ha già abbastanza da fare a vegliare sui propri interessi e sulla propria posizione; egli è un uomo di parte, non un uomo di partito, aspira a dominare su Agrigento e che il padrone sia il re di Francia o il re di Spagna per lui è indifferente.

 Ma in novembre 1518 una trentina di persone di notte assaltano la sua casa; egli non è presente o si salva fuggendo; la denunzia viene presentata da sua madre a carico del povero Pizzicotto e del povero Pidocchio. Le cose si acquetano, Pietro Montaperto ritorna in città e prima di tutto cerca chi possa pagargli i danni; denunzia i propri nemici, dei quali conosce la responsabilità, perché sa bene che soltanto una vittoria in sede criminale gli aprirà la via per una causa in sede civile.

 Alla denunzia semplicemente criminale che si sarebbe impantanata tra algoziri e Capitani, aggiunge la denunzia politica, tale da smuovere immediatamente il Vicerè.

Ecco per qual motivo un fatto del 1517 viene denunziato in marzo 1519 Insomma, il fatto politico, la lettera dei triumviri, è vero; ma il Montaperto ne sa ben poco. Egli lo strumentalizza per propri fini di interesse e locali; cercando di attribuire ai propri nemici personali e locali una responsabilità anche politica ed a se stesso un merito anche politico.

Tutto sommato, una cosa poco pulita nella quale il Montaperto ha il solo merito di averci fatto sapere che Squarcialupo aveva o credeva di avere partigiani anche in Agrigento.

 I Capitoli di Agrigento placitati il 27 novembre 1518 e quindi riferibili ad entrambe le rivolte, forniscono alcuni nomi: la città deve al governo 400 onze per resto di sei tande di donativo non totalmente pagate; domanda una moratoria generale ed altre provvidenze per debiti civili.

Inoltre chiede grazia di ciò che dovrebbero dare al fisco — e qui si può intendere una sola causale, la composizione penale — Guglielmo e Gerolamo de Marinis, fratelli del barone di Comiso (vi deve essere un errore del copista: deve dire Muxaro invece di Comiso), i nobili Francesco de Mistretta e Gerlando de Guglielmo; per ciò che dovevano Gismondo e Bertino Valguarnera il Vicerè aveva già provveduto.

Il barone « di li Grutti » (oggi Grotte) era stato fedele al governo in entrambe le rivolte; era un altro Montaperto, castellano della torre della marina (oggi Porto Empedocle) e l’università chiedeva che gli venisse restituito il grano su ogni salma esportata, da devolvere alla riparazione della torre. Vi era un Gerolamo Faraone di Palermo, relegato, pel quale l’università chiedeva che potesse ritornare a casa.

 La guerra tra i Naselli e i Montaperto, dunque, già nel 1518 non aveva più eco se non nei nomi dei pochi debitori di composizioni (224). In realtà una «rivoluzione» in Agrigento c’era stata, anzi due, forse. Ma i fatti emersero a poco a poco dalle indagini del Monteleone, posto di fronte a gravi strascichi.

Sembra che i fatti si svolgessero su due binari, quello delle rivendicazioni popolari e quello delle consorterie. Verso il novembre del 1515, alcuni mesi prima della rivolta di Palermo contro Moncada, una sera il magnifico Giovanni Montaperto, castellano di Agrigento, uscì dal castello per recarsi « ad una cita seu vigli » (cita vale fanciulla, zita, fidanzata e dunque veglia, festa di fidanzamento) (225). Giunto ad un tiro di pietra dal castello, cinque o sei uomini lo assalirono e gli tirarono una saettata. Nella medesima notte quegli stessi uomini uccisero una donna e nella stanza di questa vennero trovate la berretta e la spada del Montaperto, onde il Capitano lo costrinse a dare plegeria (di non fuggire) ed aprì un procedimento contro di lui. Ma, affermava il Montaperto, spada e berretta gli erano state tolte dai suoi assalitori e, poiché non vi era querela, la plegeria contro di lui doveva essere cancellata.

 Verità? — Certo, ad Agrigento il disordine imperava, tanto che fu persino necessario ad un certo punto dare ordini affinché venissero inventariati i sacri arredi della chiesa di Santa Maria (dell’Itria?) perché la gente portava via i calici (226).

Come episodio secondario, nel 1518 venne assalita la casa del maestro notaio del Capitano e vennero rubate le scritture, cioè l’archivio criminale, con incendio della casa (227).

Non occorre molta fantasia per comprendere che ladri e incendiari non agivano per alti motivi sociali ma unicamente per distruggere i processi.

Verso novembre 1518 ebbe luogo il saccheggio della casa di Pietro Montaperto: Sicilia sua madre, vedova di Bartolomeo, quale vedova scelse il « forum principis » e denunziò di saccheggio notturno una trentina di uomini dei quali uno detto Pizuluni ed uno detto Pidocchio (228).

 Venne incendiata poi la casa di Pietro Montaperto e furono accusati quattro individui tra i quali un neofita (229).

 E’ la prima ed anche l’ultima volta che troviamo un ebreo convertito impegolato in risse o tumulti ed il fatto è interessante: può essere un indizio di incipiente reazione contro l’Inquisizione che si era data a confiscare beni dei neofiti, oppure l’azione dell’Inquisitore nasceva da notizie a noi ignote ed a lui note su un particolare atteggiamento dei neofiti.

 Il Montaperto fece intervenire anche la Curia romana e il Pontefice fulminò la scomunica contro i saccheggiatori sconosciuti, figli dell’iniquità, che avevano incendiato la casa e la cappella e sottratto oro, argento, monete, grano, orzo, olio, cera, miele, armi, vesti di seta e di lana, gioie, anelli, perle, pietre, mobili, carte, documenti (230).

Nonostante tutto la signoria di fatto dei Montaperto si consolidava: morto Garaffo Lo Porto, era rimasta vacante la Secrezia di Agrigento; venne data a Bartolomeo ancora fanciullo sotto la tutela del padre Pietro (231); ho già accennato più volte che la Secrezia dava l’effettivo controllo, oltre che dei beni demaniali, se e dove esistevano, di tutto il commercio terrestre e marittimo; ad Agrigento le sfuggivano soltanto gli affari di frumento; tutto il resto era controllato e possiamo immaginare come controllassero i Montaperto.

Dei mercanti derubati dalla folla e dell’entità dei furti sappiamo pressocché nulla: abbiamo soltanto i nomi di Gaspare e Federico Bonet già ricordati. E’ ben strano che i documenti ufficiali non ci parlino dei Naselli. Ad ogni modo in Agrigento esisteva un malessere di fondo, assai più grave di quanto si sia creduto, ed una vera ostilità contro i mercanti ancora sei anni dopo la rivolta antimoncada, seppur tale essa fu ad Agrigento. Ce lo attesta una lettera con cui il Monteleone riferisce notizie giunte attraverso un memoriale dei «mercanti » e chiede informazioni al Capitano di Agrigento. Vale la pena di riprodurla.

Riferivano i mercanti che un tale Vincenzo Sammartino « continuamenti haja andato et vaya subducendo gentes populi agrigentini contra ipsos mercatores, andando di uno in uno animandoli et instigandoli perchi hajano affari questioni contra ipsi exponenti promittendoli maria et montes et fachendo congregationi di genti et conventiculi; et de se senza chamato andari a quisto et a quillo et dichendochi datimi li vostri contratti et lassa fari ammi, chi quisti mercanti li voglo disfari; et andando per la plaza et fachendo lista di genti et di persuni chi non indi sanno nenti et fachendosi capu di tutti; et etiam pigiato scripturi et mandatuli ad effecto senza la voluntati di li parti et provocando li boni agenti chi chi dugnano la questioni a mitati, fachendo milli disordini et cosi illiciti contra la voluntati di ditti genti, fachendo dari sentencii in dicts litigatoribus ymmo et ignorantibus ad petitioni di parti chi non indi sanno nenti, fachendosi advocato di persuni chi may lu prisiro né volsiro per advocato; et di poy si fa taxari lu salario di modo ha miso in confusioni a multi persuni et per farisi bello fa citari ipsi exponenti chi non indi sanno nenti per pariri corno fa fachendi contra ipsi exponenti per alliciri li altri di modo chi cum soy trami et falsii continuamenti ha causato et causa varii dampni et interesse ad ipsi exponenti et altri agenti » (232).

La mancanza di ulteriori notizie impedisce di definire il Sammartino; i mercanti lo presentano come un azzeccagarbugli volgare; tra le righe si intravede una figura ibrida tra l’avvocato da strapazzo e l’agitatore snidacale; ma nello sfondo vi è di più.

Né Moncada né Monteleone né il governo spagnuolo sono chiamati in causa; bensì i mercanti creditori di una folla di produttori che non possono soddisfare le famose obbligazioni in cereali che erano parte integrante del commercio siciliano d’allora, ed alle quali i mercanti stessi non possono rinunciare perché a loro volta devono pagare all’origine quei prodotti che barattano in Sicilia contro frumento e orzo. E’ l’effetto della siccità. Avvocatucolo o sindacalista non importa. Il Sammartino si inquadra perfettamente in una economia a monoproduzione, in una città che vive di quell’unica produzione, in uno stato che conta su quell’unica produzione per riscuotere fortissimi dazi di esportazione e che quindi è costretto a favorire i mercanti contro i propri sudditi.

(218) Con, 107, f. 119. Tale Pietro de Venia di Agrigento per lesa maesta pagò una composizione di 8 onze (Con, 108, f. 274, 10 mag. 1519). Vi fu poi uno strascico fino al 1522, quando l’università fu costretta ad imporre il maldenaro per pagare il frumento saccheggiato dal popolo durante la rivolta (Con, 110, f. 531). Tra i magazzini saccheggiati vi fu quello di Gaspare e Federico Bonet, padre e figlio, ricchi mercanti catalani di Palermo (Segret, 21, 11 mag. 1523); aspettavano di essere indennizzati col maldenaro. Due uomini furono adibiti a compilare la « taxa » in tre grossi libri, vale a dire la ripartizione di ciò che ognuno doveva pagare per rifondere i danni ai mercanti e tale lavoro costò 6 onze, a giudizio dei mercanti genovesi Domenico Salvagio e Giacometto Promontorio (Segret, 16, 6 mar. 1519). Poiché la «taxa » era già pronta verso la fine del 1518 e i mercanti aspettavano ancora nel 1523 l’indennizzo dal maldenaro, è da supporre che, al solito, i « facoltosi » abbiano rifiutato di anticipare e che quindi l’indennizzo sia stato trasformato in sovrimposta… se non fu mandato al dimenticatoio. (219) Ca, 229, f. 256.

(220) Ca, 241, f. 202, 17 nov. 1513. Il 7 mag. 1519 un Gerlando Belguardo bandito e accusato di vari delitti fu invitato a presentarsi al Vicere in Naro, con guidatico di un mese dopo il colloquio: si era offerto egli stesso per cose di regio servizio, cioè per denunziare qualcuno (Ca, 262, f. 38). E’ noto un Bernardo Belguardo oberato di 12 figli, barone dei feudi di Comitini, Jancaxu e Rachalturco in territorio di Agrigento (Con, 102, f. 344, a. 1514).

(221) Ca, 242, f. .361, 24 gen. 1514.

(222) Ca, 256, f. 102

(223) Ca, 261, f. 532 , 6 mar. 1519.

(224) Con, 107, f. 153, Capitoli del 3 dic. 1518.

(225) Segret, 15 A, 20 nov. 1515. E’ il racconto del Montaperto al Vicere Moncada e può darsi che il preteso agguato sia un tentativo di alibi. Ad ogni modo, vittima o impostore, egli appartiene alla « brava gente » delle città demaniali che storici e romanzieri dimenticano quando scrivono sulla Sicilia. Ad Agrigento esisteva un palazzo Montaperto nella attuale Piazza Municipio, con la facciata sul Vicolo del Teatro Comunale, nell’area occupata oggi dall’Istituto Zirafa. Non ne esiste traccia (Lettera 13 agosto 1970 della Soprintendenza alle Antichità di Agrigento). E’ indicato in una ricostruzione della topografia di Agrigento medievale fatta dalla stessa Soprintendenza, pubbl. da ILLUMINATO PERI, Girgenti, porto del sale e del grano, in « Studi in onore di A. Fanfani », Milano 1962, v. I, di fronte a p. 616

(226) Segret, 16, 26 ott. 1518.

(227) Segret, 16, 10 mag. 1519.

(228) Ca, 261, f. 222, 10 dic. 1518.

(229) Segret, 16, 19 lug. 1518

(230) Segret, 17, 13 giu. 1519. In genere le scomuniche intervenivano in

caso di furto o incendio di beni e di scritture di ecclesiastici. L’elenco delle cose

distrutte sembra poco attendibile perché si ritrova pressocché identico in altre

scomuniche.

(231) Ca, 262, f. 41, 11 apr. 1519.

(232) Segret, 20, 25 feb. 1522. Al Sammartino sembra alludere il mercante toscano Bindo del Tignoso, in lite coi massari che « in solido » hanno adibito un avvocato che patrocina tutte le loro cause (Segret, 20, 25 feb. 1522). Risulta che il Sammartino agiva realmente: domandò al mastro no’taro del Tribunale d’Agrigento le copie di tre processi civili e gli diede in pagamento tre botti di mosto per 9 tarì l’una (Segret, 20, 11 ago. 1522).

Dei fatti di Agrigento scrive pochissimo anche G. PICONE, Memorie storiche agrigentine, Girgenti 1866, che usa la sola cronaca del Del Carretto nota al La Lumia, ma con citazioni inesatte. Il Picone accenna appena a disordini del 1516 e per il 1517 narra il saccheggio di nove palazzi (p. 522) tra i quali quello di Pietro Montaperto, guidato da tale Paolo Carmina suo servitore; il Montaperto era moncadiano e si armò contro Baldassare Naselli, barone di Comiso. La rettifica del Picone all’evidente svista del La Lumia non chiarisce affatto perché il Naselli fosse ad Agrigento e nemico del Montaperto. Insisto sull’ipotesi che si tratti invece di un Naselli di Diesi. Sarebbe esistita una cronaca della famiglia Montaperto posseduta dal dott. Giuseppe Serroy.

Fonte Carmelo Trasselli, Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V. L’esperienza siciliana 1475-1525.

Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento, agrigento racconta, agrigento storia, girgenti, montaperto, naselli

Post precedente: « Le Notti di BCsicilia. A Sciacca passeggiata tra gli antichi mulini della Valle del fiume Carboj
Post successivo: Due opuscoli del XVI secolo dello storico agrigentino Federico Del Carretto: sull’espulsione di Ugo Moncada e sulla guerra tra Carlo V e i Turchi »

Footer

Copyright

I contenuti presenti sul sito agrigentoierieoggi.it, dei quali il Prof. Elio di Bella è autore, non possono essere copiati, riprodotti, pubblicati o redistribuiti perché appartenenti all’autore stesso. È vietata la copia e la riproduzione dei contenuti in qualsiasi modo o forma. È vietata la pubblicazione e la redistribuzione dei contenuti non autorizzata espressamente dall’autore.

Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 07/03/2001.

Privacy

Questo blog rispetta la normativa vigente in fatto di Privacy e Cookie . Tutta la docvumentazione e i modi di raccolta e sicurezza possono essere visionati nella nostra Privacy Policy

Privacy Policy     Cookie Policy

Copyright © 2023 Agrigento Ieri e Oggi · All Rights Reserved