Il Vescovo della Diocesi di Girgenti, Francesco Ramirez (1697-1715) si trovò al centro di un delicato evento politico che fu causa di disordini e scandali che misero a dura prova il prelato agrigentino.
I fatti ebbero inizio nel 1711 quando il Vescovo di Lipari decise di comminare la scomunica a due ufficiali della città rei di aver violato l’immunità ecclesiastica. L’assoluzione dalla scomunica poteva essere ottenuta solo attraverso il perdono concesso dal Pontefice romano. Ma la vicenda in questo caso era complicata perché il territorio siciliano e quindi anche la Diocesi di Lipari non apparteneva giuridicamente al Regno di Sicilia, ma al Regno di Napoli. Pertanto anche il Vescovo di Lipari era soggetto direttamente alla Santa Sede e non era quindi sottoposto alla Legazia Apostolica, riservata da diversi secoli ai re di Sicilia.
Il privilegio della Legazia Apostolica era stato concesso al re di Sicilia da Papa Urbano II e consisteva nella pontificale giurisdizione che il capo dello Stato poteva esercitare sopra la Chiesa nel suo dominio, sia per l’amministrazione temporale, sia per la spirituale; quella stessa che in tutti gli altri stati cattolici veniva esercitata dai legati pontifici. Fin da Ruggero, re dei normanni, i sovrani della Sicilia esercitarono direttamente o indirettamente questi privilegi, che comportavano tra l’altro il diritto di esigere la riscossione della decima, che riguardava sia i prodotti del suolo che i proventi dell’industria e del lavoro.
Sul finire del 1711, a Lipari era accaduto che i catapani delle regie gabelle pretesero dal Vescovo di quella Diocesi, Nicolò Maria Tedeschi, il pagamento della tassa su una certa quantità di legumi che venivano venduti per conto della Curia vescovile e poiché il Vescovo rifiutò di pagare, i due ufficiali procedettero al pignoramento. Monsignor Tedeschi li scomunicò.
Su iniziativa del viceré di Sicilia, intervenne sulla diatriba anche il giudice di Monarchia, ossia il capo del Tribunale, il quale aveva tra l’altro in affidamento anche l’esercizio pratico della Apostolica Legazia. Questi decise di assolvere gli scomunicati, scavalcando, secondo i vescovi siciliani, il Sommo Pontefice, unico ad avere il diritto di liberare dalla scomunica. Le autorità civili non si fermarono qui: vennero oltremodo oltraggiati il vicario generale e tutti quei sacerdoti che si erano schierati con il Vescovo di Lipari.
Monsignor Tedeschi intanto si era recato a Roma e a seguito di quanto era avvenuto aveva ottenuto dal Papa Clemente XI l’autorizzazione a lanciare l’Interdetto sulla città e sulla Diocesi. Con tale provvedimento veniva proibita ogni manifestazione sacra, ogni attività liturgica, quindi anche l’amministrazione dei sacramenti.
Il vescovo della Diocesi di Agrigento, Ramirez, si pose a fianco di papa Clemente XI e in difesa dunque della immunità ecclesiastiche in Sicilia e lanciò anche lui l’Interdetto sulla sua Diocesi, minacciando di scomunica quanti si fossero opposti ai suoi voleri.
Il papa apprezzò e lodò apertamente il vescovo agrigentino e quanti in Sicilia avevano seguito il suo esempio. Tra questi era anche il vescovo di Catania che dovette andare in esilio per avere seguito le direttive del Pontefice. Monsignor Francesco Ramirez scomunicò i responsabili delle vessazioni contro il vescovo di Catania e pertanto il viceré Spinola intimò l’esilio anche al Ramirez (27 agosto 1713). Il Vescovo agrigentino venne pertanto arrestato il 28 agosto del 1713 dal capitano Giovanni Ochoa e si recò a Malta prima e a Roma poi.
Il Vescovo si affrettò a nominare i suoi vicari generali e fece affiggere in varie parti della città di Girgenti l’editto con cui interdiceva la diocesi. Subito il giudice della regia Monarchia e apostolica legazia di Palermo dichiarava nulle le disposizioni del Ramirez, intendendo così vanificare l’Interdetto.
I quattro vicari che in successione (secondo le disposizioni di Ramirez) avrebbero dovuto coprire la carica di Vicario generale della Diocesi agrigentina vennero imprigionati. Uno di essi morì per i maltrattamenti subiti. Ramirez quindi dall’esilio romano nominò altri tre vicari, ma anche questi vennero incarcerati dalle autorità regie. Non cessavano dunque dall’una e dall’altra parte le rappresaglie.
Il Capitolo della Cattedrale decise quindi di nominare un nuovo vicario e la scelta cadde sul canonico Giambattista Formica, che ottenne anche il sostegno del nuovo re Vittorio Amedeo II.
Finalmente nel 1715 Clemente XI abolì il tribunale della regia monarchia ed apostolica legazia e poco tempo dopo (27 agosto 1715) si spegneva il vescovo Ramirez. Intanto veniva inviato a Girgenti un nuovo rappresentante del governo regio, il duca d’Angiò, Girolamo Gioeni, allo scopo di imporre l’autorità regia e rendere vano l’Interdetto. Giunsero nella diocesi agrigentina altri sacerdoti da Palermo e da Messina disposti a seguire le autorità civili e a violare l’Interdetto.
Dopo la morte di monsignor Ramirez, i canonici di parte regia tornarono ad eleggere vicario il ciantro don Francesco Vanni e il duca d’Angiò cercò con le minacce di far rispettare quella decisione.
Il Seminario era rimasto chiuso dalla partenza per l’esilio di Ramirez e le monache agrigentine avevano chiuso i conventi e si rifiutavano di trasgredire l’Interdetto.
Finalmente la Sicilia, dopo essere stata per qualche tempo sotto il dominio dei Savoia, a seguito degli accordi di Utrecht, tornò sotto lo scettro di Filippo V di Spagna ed l’ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, il cardinale Francesco di Acquaviva, nel settembre del 1719 giunse ad una conciliazione con il Papa per quanto riguardava i fatti della Sicilia. L’Interdetto venne così tolto ovunque.
La Santa Sede nominò amministratore apostolico a Girgenti il canonico Giuseppe Pancucci che venne confermato per acclamazione. Quattro anni dopo (1723) la Diocesi agrigentina ebbe finalmente il suo nuovo pastore, il vescovo Anselmo La Pegna .
Elio Di Bella