“In una cappella abbandonata del Duomo si trova questo capolavoro, che per sé solo è sufficiente a indurre gli artisti e gli amatori dell’arte a un viaggio, o piuttosto a un pellegrinaggio, verso la lontana città di Girgenti”, scrisse Augusto Schneegans dopo aver visitato Agrigento nella primavera del 1886.
Ma il capolavoro che ha tanto destato la sua ammirazione non è uno dei Templi della Valle o una chiesa barocca del centro storico, bensì un’urna funeraria di marmo bianco: il celebre sarcofago agrigentino di Ippolito e Fedra. E non esagerava certamente questo viaggiatore, se consideriamo che già cento anni prima di lui (aprile 1787) J.W. Goethe aveva scritto: “Credo di non aver mai veduto in questo genere niente di più perfetto. Mi deve servire come un bell’esempio della leggiadrissima epoca greca”.
E la tappa al Duomo di San Gerlando per ammirare le scene dell’amore di Fedra per il giovane cacciatore era considerata d’obbligo dai visitatori del secolo scorso e nessuno ha detto di essere rimasto deluso dallo spettacolo offerto dai quattro lati dell’urna, nonostante qualche ferita che ci fa mancare purtroppo qualche piccola parte del bassorilievo.
“Quei cani par proprio sentirli latrare”, esclama Nicola Palmeri, nelle sue Memorie sulle antichità agrigentine, descrivendo uno dei lati. E per Ferdinando Gregorovius “nel sarcofago di Agrigento lo scultore ha preso a lottare col poeta”.
Il ritrovamento del sarcofago di Ippolito e Fedra nella Valle dei templi ad Agrigento ha qualcosa di miracoloso.
La sua scoperta ci è stata descritta dallo storico agrigentino Giuseppe Picone, che, nella sua “Novella Guida per Girgenti”, riferisce di avere letto su un manoscritto anonimo che descrive il sarcofago che “entro una cameretta sepolcrale e dentro l’urna furono, tra le altre cose, trovate alcune lagrimiere di finissimo avorio, e attorno due vasi di finissimo metallo, ripieni di cenere, nei quali ammiravasi rarissimo artificio”.
Mentre il primo documento ufficiale che indica nel Duomo la presenza del sarcofago è la relazione del regio visitatore Giovanni de Ciocchis, inviato a Girgenti l’8 ottobre del 1741 per svolgere una ricognizione sulle condizioni in cui si trovavano le istituzioni ecclesiastiche di regio patronato della vasta Diocesi agrigentina.
Dopo quindici secoli, dunque, la vanga di un contadino lo riportò in superficie, nell’ex feudo Inficherna (che si estende nei pressi della collina di Monserrato, ad occidente dell’antica Agrigento), di proprietà del canonico Libertino Sciascia, che qualche tempo dopo donò l’urna alla Cattedrale.
E’ noto che il sarcofago di Ippolito e Fedra venne utilizzato per molto tempo come fonte battesimale, insieme ad un altro sarcofago più piccolo, che vi venne posto dentro per contenere l’acqua benedetta.
Ecco quanto polemicamente scrisse nel 1877 Alfonso Aquilino nella sua “Guida manuale di Girgenti e dei suoi contorni”: Era immorale l’uso di un sarcofago con Fedra ed Ippolito, cioè di un monumento profano ed osceno, posto in Chiesa e destinato a servire di fonte battesimale; oltre che la sua trista posizione in un intercolonio, per difetto di luce, ne impediva l’esame agli osservatori.
Stava sepolto chiuso ermeticamente entro il grande un altro sarcofago, per meglio tenere l’acqua battesimale che trapelava, e così riusciva anche questo un recipiente improprio al culto divino ed un pezzo capitale, appartenente all’antichità, morto alle arti”.
In verità già il citato monsignor De Ciocchis aveva ordinato il trasferimento del reperto e successivamente, nel 1872, il vescovo di Girgenti monsignor Domenico Turano ripeté più esplicitamente l’ordine di collocare altrove il sarcofago. Così esso venne posto nella sala capitolare del Duomo e quindi nel 1962 nel Museo diocesano, che era stato appena costruito in piazza don Minzoni, presso la Cattedrale. Dopo la chiusura del Museo, che è andato in rovina per la frana del luglio del 1966, dal settembre di quello stesso anno è sistemato nella seconda cappella della Chiesa di San Nicola, fi o a qualche mese fa, quando è tornato nel Duomo di San Gerlando ad Agrigento.
Ci si rese immediatamente conto dell’importanza del ritrovamento (anche da parte dei ladri di opere d’arte, che tentarono nel 1831 di trafugare la preziosa opera) e all’inizio alcuni pensavano si trattasse della tomba del tiranno Finzia, o di Terone o di un figlio di Falaride. Successivamente le sculture poste ai suoi quattro lati vennero interpretate come scene di un qualche mito o di una favola e si pensò subito alla favola di Meleagro, alla caccia al cinghiale Calidonio, alla morte di Comminio romano.
Tra i primi ad ammirare e descrivere nelle loro opere il sarcofago vi furono il teatino Giuseppe Maria Pancrazi e D’Orville, ma solo l’agrigentino Vincenzo Gaglio (1735-1777), “colla tragedia di Euripide alla mano”, (come ci dice il Picone) seppe interpretare le quattro scene e darne l’esatta spiegazione con un articolo (“Dissertazione sopra un antico sarcofago in marmo”) pubblicato sul “Bollettino di archeologia di Palermo”: si trattava del mito di Ippolito e Fedra.
Il sarcofago è attentamente studiato ancora oggi. La stessa datazione presenta qualche difficoltà.
Gli archeologi Pirro Marconi e Vincenzo Tusa ritengono che appartenga all’età adrianea, epoca del rinato classicismo, o ad un’età immediatamente seguente, mentre Pietro Griffo ha scritto che è “un lavoro di corrente classicistica variamente attribuita ad officina romana dell’età adriana o degli Antonini (II sec. a.C) o, come si vorrebbe, ad officina attica dei primi del III secolo”. C’è poi chi (come Perkins, Bianchi Bantinelli, Maria Stella Arena) ne sposta decisamente la datazione al III secolo d.C.
Ancora più difficile risulta individuare l’autore e non è escluso che possa trattarsi di un siciliano. Le popolazioni siculo-greche avevano infatti una particolare predilezione per Euripide. E’ noto che dopo il fallimento della spedizione degli Ateniesi in Sicilia, molti prigionieri greci vennero messi in libertà dai coloni siciliani perché sapevano declamare i versi di Euripide. Il sarcofago è di marmo bianco ed ha forma di un parallelepipedo rettangolare.
E’ privo del coperchio ed ha le seguenti dimensioni: lunghezza metri 2,28; larghezza metri 1,08; altezza metri 1,19. Le quattro facce illustrano e sintetizzano quattro episodi del mito di Ippolito e Fedra, dal momento in cui la regina si sente presa dalla torbida passione per il figliastro sino a quando Ippolito stramazza fra gli zoccoli degli impennati cavalli.
Nel lungo lato occidentale, secondo l’attuale sistemazione nella cappella della Chiesa di San Nicola, vediamo scolpito Ippolito (splendido in tutta la forza della sua giovinezza) che si avvia ad una battuta di caccia. Compare circondato da cacciatori e da servi che guidano i cani e i destrieri, che in questa scena sono ancora accucciati e aspettano gli ordini dei padroni. Alla destra del giovane protagonista si trova la nutrice di Fedra, vestita con ampia veste, che gli partecipa l’amore colpevole della matrigna, ma Ippolito, che sulla mano sinistra stringe il messaggio d’amore, respinge l’incestuosa offerta della matrigna.
Sull’altro lato lungo ammiriamo la scena della caccia al cinghiale. Il giovane è rappresentato a cavallo ed è raffigurato nell’atto di scagliare l’arma contro il cinghiale, che intanto è attaccato anche da cinque cani e da altri tre cacciatori muniti di lancia, masso e clava, mentre un quinto personaggio è posto nell’estrema destra fermo con una spada nella mano sinistra, pronto ad intervenire. Sullo sfondo emerge una scena campestre.
Il lato corto esposto a sud ritrae Fedra che, respinta da Ippolito, s’abbandona trasognata e torbida sul piccolo scanno, le gambe accostate e frementi, un braccio concesso alle carezze delle ancelle, l’altro puntato per sostegno della povera anima ferita, il dolce viso si reclina e si abbandona su una spalla: le ancelle sostano sgomente e mormoranti attorno al tragico abbandono della loro regina: una citare trae timidi suoni dalle corde, la nutrice mormora parole di consolazione all’orecchio della sventurata e le allenta le bende cerchiate sulla fronte.
Segue poi l’episodio conclusivo: la morte di Ippolito, ma manca ogni accenno a quanto lo precede e cioè la decisione di Fedra di darsi la morte per timore che il marito, Teseo, il padre di Ippolito, venga a conoscenza della sua incestuosa passione.
Prima di morire però la regina lancia contro Ippolito l’accusa ignominiosa. Il resto è visibile nella scena del quarto lato del sarcofago: Teseo ha invocato sul figlio la vendetta di Nettuno, così il dio ha suscitato un mostro marino che fa imbizzarrire i cavalli che conducono la biga di Ippolito.
L’auriga tenta disperatamente di trattenne per il morso i destrieri che hanno già fatto precipitare a terra Ippolito e continuano ad agitare sul capo del giovane le loro zampe. L’innocente Ippolito giace, disteso per terra senza vita.
Elio Di Bella