Una delle piaghe più vistose ed insanabili che caratterizzarono la vita sociale della provincia di Girgenti nell’Ottocento fu senz’altro il brigantaggio. Questo complesso fenomeno aveva assunto proporzioni imponenti dal 1860 al 1868 e negli anni 1868-1873 andò scemando.
Una cronaca del periodico “Empedocle”, che si stampava a Girgenti nel 1870, ci mostra lo stato d’animo degli indifesi cittadini e la tracotanza dei briganti: “I ribaldi scorrazzano per le campagne, rubano, sequestrano, scannano in nome del trono e dell’altare costringendo i cittadini a non allontanarsi dall’abitato, se non vogliono mettere a repentaglio la loro vita”.
Di tale stato di cose i girgentini si dolsero e chiesero al governo sicurezza e protezione: “Noi non vi chiediamo che una cosa soltanto, e la si è che ci garantiate la nostra vita e le nostre sostanze. Che non ci tocchi di dover erigere fortilizi, o quanto meno di aprire feritoie nelle nostre cascine, nei magazzini di deposito delle nostre derrate, per tenere in rispetto le comitive armate.
Che andando dall’abitato alle nostre campagne, non sia strettamente indispensabile un codazzo di campieri dalle cere livide e torve, dalle barbe lunghe e ispide, e col rispettivo e poco seducente esteriore per metà sepolto entro la tradizionale bonaca (giacca) di velluto. Tutto ciò non soltanto non è bello, ma costa per soprassello (sic!); e ce ne vogliono dei bei contanti per costituirsi questa corte di più o meno bravi.
Ma vada bene pei quattrini: come si fa, però, a provvedere con la necessaria calma e con persistente vigilanza ai propri interessi, quando all’improvviso allo sbocco di qualche gola di montagna può avvenire che vi troviate di fronte ad un paio di poco galanti trovatori dell’altrui borsa, i quali annunziandosi col dovuto rispetto alle buone regole di società per quelli che sono, cioè, per Signori Briganti, v’invitino a seguirli “obtorto collo” o in qualche caverna o in un buco di zolfaia, o, infine, in uno dei tanti loro prediletti soggiorni invernali o estivi?
Sappiamo noi bene che il rapido ecclissarsi della nostra rispettabile persona e la notizia di una villeggiatura di così cattivo genere, impostaci dalla sperimentata cortesia dei non sullodati Signori Briganti, mette in moto Truppa, Carabinieri, Guardie di P.S., Militi a cavallo (dove ce n’è) mezzo mondo, infine, di armati a piedi e a cavallo, che si va dietro la pista dei malandrini da segugi infaticabili e di fine odorato.
Ma è una ben magra consolazione per noi quella di pensare, che dopo una quindicina di giorni che ci si è tenuti sepolti vivi in una muda, posto che ci abbiano fatta grazia della pelle, un bel momento sbendatici gli occhi e facendoci sacramentare di non volgerci né dietro né dei lati, gli stessi Signori Briganti in coro o il più pietoso tra essi, abbia ad additarci la via da mettere in mezzo le gambe con un “Lazare, veni foras” del loro gergo malandrinesco! E tutto ciò lasciando stare che durante il nostro staggimento i congiunti, gli amici devono aversi dato un gran moto onde procurare a forza di denari la nostra liberazione. Si è dovuto pattuire, mercanteggiare, lesinare, talvolta né più né meno, come se si trattasse dell’acquisto o della vendita di un quadrupede, una derrata, di un capo di commercio qualunque.
Talché a villeggiatura finita, ci troviamo un qualche malanno di incubazione, cagionato non soltanto dai disagi e dalle sofferenze di una così triste dimora, ma vieppiù ancora dallo spavento della brigantesca apparizione, e per sopraumento con la scarsella dimagrata dal prezzo del riscatto”.
Il brigantaggio era un fenomeno che certamente non nasceva con l’Unità d’Italia, dopo tale periodo i nuovi briganti andarono ad ingrossare le bande già esistenti durante il periodo borbonico. A tali scellerate società si erano già aggiunti i membri dei disciolti reggimenti borbonici che non erano riusciti immediatamente ad integrarsi e i renitenti alla leva. E’ noto che l’istituzione della leva obbligatoria provocò una scossa profonda nelle contrade meridionali.
Venivano chiamati alle armi migliaia di giovani che erano per molte famiglie le uniche braccia da lavoro. La renitenza alla leva ebbe notevoli ripercussioni per molti anni: piuttosto che abbandonare la casa, la famiglia, la terra i giovani siciliani preferirono la macchia e la campagna che consentiva sempre di rimanere vicini ai propri cari, alle proprie cose e ai propri interessi.
Ma in Sicilia la leva produsse anche un numero notevole di facinorosi che cercavano di procurarsi col furto il sostentamento necessario che era venuto meno a causa della necessità di abbandonare il lavoro e diede luogo alla costituzione di bande e comitive armate attive per molti decenni. Contro i renitenti il governo reagì in maniera violenta e repressiva, prima con l’applicazione della nota legge Pica, poi ordinando delle vere e proprie spedizioni punitive allo scopo di eliminare una volta per tutte la piaga del malandrinaggio.
Fu il generale Govone ad organizzare quelle spedizioni che ebbero inizio il 26 giugno 1863 dalla provincia di Girgenti e che videro l’impegno di venti battaglioni con l’ordine di battere ” quel che più si può di paesi, arrestando tutti quanti si incontrano nella campagna con l’età apparente di renitente o col viso dell’assassino, circondando i paesi e facendo perquisizioni in massa” (G. Alongi,La mafia, Palermo, 1904, p.136).
I sistemi usati – quali incendi di case o privazione dell’acqua potabile per interi comuni e per diversi giorni – servirono spesso solo a far crescere il malumore delle popolazioni verso le autorità costituite. Tra i primi briganti che operarono nell’agrigentino e la cui fama fu notevole vengono ricordati, nel primo periodo post-unificazione, Alberto Riggio, che agì tra Sciacca e Palermo tra il 1868 e il 1875, e altri come Leone, Rinaldi e in particolare Vincenzo Capraro, che fu il successore diretto di Alberto Riggio.
Di Vincenzo Capraro sono note le gesta, molto spesso plateali oltre che cruente: “era un fattore nella fattoria dei signori Casandra di Sciacca, servì per qualche tempo di ausiliario latente della banda di Alberto Riggio, ma scoperto e scacciato dalla fattoria del signor Casandra, il ribaldo dopo essersi vendicato dell’espulsione dalla fattoria con l’assassinio del suo padrone, divenne gregario deciso e manifesto della banda di Alberto e fu suo aiutante di campo sino alla sua sconfitta. In seguito alla sconfitta e alla morte di Alberto, Vincenzo Capraro da gregario emerito raccoglieva la successione di Alberto e per concorde acconsentimento dei gregari era promosso a capo banda.
Era la seconda banda indigena della provincia di Girgenti, dopo quella di Alberto Riggio che era stata la prima, ma il fattore Capraro seppe così bene ordinare ed organizzata la sua banda che fu detta banda modello, e per il numero dei gregari e per le armi e per la disciplina; dissero anzi i militi di Corleone…che la banda Capraro era stata la prima in Sicilia che si fosse battuta a cavallo e ordinata a battaglia. Il periodo delle gesta del masnadiero Capraro durò dal 1868 al giugno 1875. In questo periodo i comuni di confine tra la provincia di Palermo e quella di Girgenti furono quelli che offrirono al masnadiero il maggiore contingente: Contessa, Giuliana e Castronovo in provincia di Palermo, Sambuca e Santa Margherita in provincia di Girgenti” (Vincenzo D’Alessandro, Brigantaggio e mafia in Sicilia, Mesina-Firenze, 1959, p.98).
Ma anche l’assassinio di Capraro venne prontamente vendicato come era nel codice d’onore di questi briganti. Così superstiti briganti della banda Capraro scelsero prontamente come capo il loro compagno più sanguinario, un certo Merlo, “per l’audacia dimostrata nell’assassinare quasi alla presenza della forza , nell’abitato di Sambuca, l’infelice milite Maggio, uccisore del Capraro, e percorrevano il circondario di Sciacca, di Corleone, di Mazzara, commettendo atti di inaudita ferocia”.
Nello stesso periodo operava a Favara e nei dintorni di questo paese la banda di Domenico Saieva, che era divenuto malandrino e mafioso in carcere nei sette anni di detenzione per una accusa di omicidio. Appena uscito, fu protagonista di diversi misfatti per i quali venne condannato al confino , ma riuscì a sfuggire ai militi che lo conducevano a Pantelleria e si diede alla macchia. Si mise in contatto con la banda Capraro e alla morte di questi lasciò la banda e agì in proprio, fissando il suo covo presso alcune miniere di Favara.
“Così iniziava l’attività della banda Sajeva che stringeva per due anni l’agrigentino in una morsa di paura . Il barone Celauro ed i fratelli Trainiti furono gli autorevoli protettori del gruppo di delinquenti; li sovvenzionarono, alloggiandoli, rifornendoli di armi e manovrando le loro imprese senza uscire dall’ombra, forti della loro rispettabilità, mandando allo sbaraglio gli uomini della macchia” (Gerlando Cilona, Favara nel tempo, vol. II, Agrigento) Sajeva venne catturato il 25 giugno del 1876 e venne condannato all’ergastolo. Alla fine del secolo scorso apparve nell’agrigentino la banda di Francesco Paolo Varsalona, fratello del brigante Luigi. Quest’ultimo era stato eliminato dai componenti della sua banda nel luglio del 1889, scontenti per come un bottino era stato ripartito.
Gli autori del delitto vennero condannati, ma Francesco Paolo, preso da rancore contro un testimone che nel processo aveva deposto a favore degli imputati, decise di eliminarlo e si diede alla macchia cominciando la sua carriera brigantesca (A. Cuntrera, Varsalona, il suo regno e le sue gesta delittuose, Roma, 1904, p.5).
“Varsalona comprese che i tempi non erano più propizi per esercitare il brigantaggio alla vecchia maniera, così, riunendo sotto il suo immediato comando latitanti, coi quali a cavallo e armati di tutto punto mettesi a scorrazzare per la campagna, entrare nei comuni e far mostra ovunque della sua forza. Egli comprese che questo sistema sarebbe stato molto più pericoloso, perché presto sarebbe stato raggiunto dalla pubblica forza e costretto ad attaccare combattimento, che sarebbe stato sempre fatale per lui e i suoi compagni, qualunque ne fosse stato l’esito.
E per questo che egli non ricorse mai ai sequestri di persona, come fecero il Lombardo, il Di Pasquali e il Leoni; invece di ricorrere a colpi che avrebbero suscitato molto rumore intorno al suo nome e che avrebbero provocato la reazione nel governo e nei cittadini, preferì operare con più prudenza, ma con esito sicuro e proficuo. Opera con oculatezza rara, e sempre invisibile, associandosi solo con uno o due compagni, rarissimamente con tre” (Ivi, p.6).
Il suo regno era costituito dai paesi dell’interno dell’agrigentino e in particolare Cammarata, Santo Stefano, Comitini, Casteltermini, Aragona. Ma poteva estendersi anche nei vicini paesi delle provincie di Palermo e Caltanissetta. Ecco sul fenomeno Varsalona una sorprendente testimonianza del sindaco di Cammarata: “la Varsaloneide dicono che sia un male, ma così non mi sembra, anzi la trovo logica, perché mentre la polizia è incapace di difendere la nostra persona, Varsalona, invece, mercé un contributo, che io non pago, ci garantisce vita ed averi. Del resto che male fa ? Non eseguisce sequestri di persona, non ammazza alcuno, insomma vive e lascia vivere” (Ivi, p.11). La banda Varsalona venne soppressa solo nel 1902.
Elio Di Bella