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Esplorare l’architettura con il Disegno è lo scopo di questo studio che tenta di verificare, al di là della storia e della critica architettonica, se i sistemi “rivelatori’ della rappresentazione possano aggiungere qualche “parola” a ciò che è stato scritto.
Si vuole verificare se un possibile “tacere” del disegno possa lasciare alla rappresentazione stessa il compito di manifestare qualcosa “stando” muta in un foglio di carta.
Il disegno è il “luogo” di costruzione della forma, il ridisegno è analisi della forma compiuta; il primo la messa in forma di un principio, il secondo la sua lettura, la sua decodificazione.
Nell’atto del ridisegnare viene affidato alla rappresentazione un ruolo critico e sintetico allo stesso tempo: una funzione di distinzione e di giudizio in un rapporto che è teorico e fisico, linguistico e spaziale.
Rappresentare significa, allora, mediare e integrare quella “sottile” distanza che si crea tra le “parole” e le “cose” in un procedimento che non è neutrale perché la “ricezione” dell’opera (architettonica) avviene con modalità differenti in funzione sia della formazione del soggetto indagante sia del contesto storico e culturale al quale egli appartiene.
Uno dei nodi critici del ridisegno è il problema della conoscenza che in architettura, così come in qualsiasi altro campo disciplinare, non si conclude nella semplice informazione dei dati percettivi. Rappresentare, che è espressione anche conoscitiva, non si riduce nella restituzione della forma visibile ma comporta in qualche modo la partecipazione alla creazione della cosa raffigurata secondo un procedimento proprio della critica.
Questo lavoro, attraverso il rilievo e il ridisegno, vuole aggiungere, “timidamente”, un nuovo tassello alla storia dell’architettura, disciplina che si avvale di disegni noti (già compiuti) e non più di studi di analisi grafica per la comprensione dell’architettura stessa.
Oggetto di questo lavoro sono due architetture “dimenticate” realizzate da Enrico Del Debbio e Angiolo Mazzoni realizzate ad Agrigento, una delle città più a sud d’Italia.
Nella seconda metà dell’Ottocento l’assetto urbano di Girgenti comincia a cambiare aspetto perché si iniziano i lavori relativi
all’espansione della città al di là delle mura chiaramontane che circondavano il centro antico; il versante meridionale della roccia della Rupe Atenea, per esempio, viene scavato per potere realizzare il tracciato della via Cavour (oggi viale della Vittoria), che soltanto agli inizi del Novecento raggiungerà l’estensione attuale e inoltre si costruirà la villa Garibaldi ai margini del “vuoto” che separava la Rupe Atenea dalla città murata
Questa depressione era chiamata “taglio empedocleo” perché attribuito alla volontà di Empedocle di dotare la città di un canale naturale di afflusso dei venti di tramontana; successivamente questo luogo prenderà il nome di Piano Sanfilippo, poi Piazza Vittorio Emanuele, sul quale si affacciavano, nella seconda metà dell’Ottocento, soltanto il Palazzo della Prefettura (1858) e il palazzo Vadalà (1860).
Benito Mussolini ebbe modo di visitare Agrigento per ben due volte, il 9 Maggio 1924 e il 15 Agosto 1937. In entrambe le occasioni furono inaugurate alcune opere pubbliche che però erano state promosse ben prima della visita del Duce. Il Monumento ai Caduti era stato costruito, ad esempio, nel 1923, il nuovo fabbricato della Stazione ferroviaria nel 1929 e l’Ospedale Psichiatrico nel 1931.
Il Monumento ai Caduti fu realizzato dallo scultore Mario Rutelli e venne inaugurato nel 1923 mentre l’edificio della stazione, progettato dall’architetto Fioretti, il 28 Ottobre del 1933, in occasione dell’undicesimo anniversario della marcia su Roma, alla presenza del sottosegretario alle comunicazioni Onorevole Ruggero Romano.
L’Ospedale Psichiatrico venne edificato in fondo al viale Cavour su progetto dell’ingegnere Donato Mendolia . Il progetto si basa sullo schema tipologico del sistema a padiglioni che bene rispondeva alle nuove esigenze della psichiatria per la cura delle malattie mentali.
Qualche anno prima, nel 1927, il viale Cavour assume la sua conformazione attuale. Si trattava dell’arteria nella quale si svolgevano le sfilate fasciste che si presentava come un elemento rettilineo definito da un lato dagli edifici costruiti in seguito allo smembramento ottocentesco e dall’altro da un forte salto di quota. Alle due estremità erano posizionati l’ospedale psichiatrico e la stazione ferroviaria.

La presenza dei due fondali può indurre a pensare che le sfilate terminassero in uno dei due punti sopracitati ma in realtà esse avevano come “capolinea” la Piazza Vittorio Emanuele all’interno della quale la villa Garibaldi aveva il ruolo di quinta scenica.
La villa, che fu uno dei primi polmoni verdi della città, si adagiava sul declivio della Rupe Atenea, ed era organizzata con percorsi che delimitavano le aiuole piantumate con alberi di varia essenza.
La zona della città che fu eletta a Piazzale Littorio, ovvero la zona preposta a qualsiasi manifestazione politica e militare, fu l’attuale Piazza Vittorio Emanuele.
Fino agli inizi del Novecento la piazza si presentava chiusa solo su tre lati, a est dalla Villa Garibaldi, a ovest dal Palazzo della Prefettura e a sud dal Palazzo Vadalà. A nord, invece, il margine era determinato da un salto di quota e non da un bordo costruito.
La necessità di delimitare il quarto lato della piazza era chiara ai gerarchi agrigentini che decisero di fare edificare due edifici che potessero sottolineare la grandezza e la modernità del regime.
Si costruirono così la Casa del balilla progettata da Enrico Del Debbio nel 1928 e il Palazzo della Poste e Telegrafi ideato da Angiolo Mazzoni la cui edificazione si conclude nel 1936. .
I due interventi permisero di ottenere uno spazio chiuso sui quattro lati che assunse le caratteristiche vere e proprie di piazza e che fu utilizzato come piazza d’armi per le manifestazioni di regime .
Piazza Vittorio Emanuele mantenne questo impianto morfologico fino al secondo dopoguerra. A partire dal 1949, infatti, vennero costruiti gli edifici del Genio Civile, dell’Inail e del Supercinema, che fecero assumere alla piazza la forma attuale .
Il confronto tra i disegni dei progetti, ridisegnati per “implementare” le rappresentazioni e quindi la conoscenza dell’idea progettuale, e le restituzioni del rilievo dello stato attuale[1] ci permettono di comprendere in che maniera siano stati “travisati” i significati di queste due opere, unici tasselli del razionalismo italiano in una piccola città siciliana di provincia
La Casa del balilla e il Palazzo delle Poste
Tra il 1928 e il 1937 Enrico Del Debbio progettò case del balilla per Agrigento, Enna, Ragusa, Avellino, Pagani, Salerno e Modena. Di questi progetti saranno realizzati solo quelli per Agrigento, Avellino e Modena che sono tre opere che fanno comprendere, come afferma Maria Luisa Neri[2], l’evoluzione linguistica dell’architetto carrarese.
La casa del balilla di Agrigento è la seconda in Italia poiché la sua costruzione termina nel 1929 subito dopo quella progettata per Gorizia da Umberto Cuzzi e Giuseppe Gyra la cui edificazione, però, ha inizio nel 1927[3].
L’edificio, costruito sul “Piazzale Littorio”, non solo definisce il lato nord della piazza ma diventa il fondale della strada perpendicolare al Viale della Vittoria, arteria nella quale venivano svolte le parate di regime; è certamente per questo motivo Del Debbio progettò il prospetto sud dell’edificio “grandioso” e “monumentale” proprio perché esso si affacciava direttamente sul piazzale delle adunate.
La posizione dell’edificio, arretrata rispetto al limite “naturale” del lato nord, dove era presente un notevole salto di quota, definisce sul retro una seconda piazza per la pratica degli sport all’aperto dei giovani balilla. L’edificio può essere quindi descritto come un diaframma a scala urbana tra due piazze, una monumentale e pubblica, l’altra a servizio delle funzioni dell’edifici
Del Debbio aderisce perfettamente ai modelli del proprio manuale[4] in cui è molto stretta la relazione tra la tipologia e il programma funzionale.
Il ridisegno che si propone per il confronto con il rilievo si riferisce alla prima ipotesi di Del Debbio in cui la palestra è disposta trasversalmente rispetto all’asse longitudinale dell’impianto a “C” che definisce il corpo centrale. La scelta di esaminare questa versione del progetto è data dal fatto che essa presenta elaborati completi, piante, sezioni e prospetti, e pertanto è da considerarsi come quella che l’architetto avrebbe voluto realmente realizzare. Le piante[5] ci informano con chiarezza dell’idea progettuale dell’autore .
La “strategia” compositiva di Enrico Del Debbio consiste nello scomporre il programma in parti funzionalmente e figurativamente autonome e pertanto l’edificio risulta composto da tre parti: il salone delle adunanze, gli uffici e la palestra. A tal proposito Reyner Banham, scrive: «piccoli elementi strutturali e funzionali (elementi architettonici) sono riuniti per formare volumi funzionali, e questi (elementi compositivi) per formare interi edifici […] [questa maniera] può essere considerata una caratteristica generale dell’architettura progressista dei primi anni del secolo ventesimo, il fatto di essere concepita in termini di volumi separati e definiti per ogni singola funzione e composti secondo un metodo che rendeva evidente la separazione e la definizione»[6].
Le sezioni prospettiche ricavate dal modello ci permettono di verificare l’analogia tra le parole della critica storica e lo spazio ideato dall’architetto carrarese .
Ciò che venne poi realmente costruito non è altro che lo stesso edificio con la palestra ruotata di novanta gradi , variante in corso d’opera che però svilisce sia il fronte est pensato da Del Debbio che il carattere di piazza dello spazio aperto destinato all’attività sportiva.
Il corpo centrale a “C” ricopre il ruolo “rappresentativo” dell’edificio e definisce l’accesso principale. Al piano terra sono presenti l’atrio, il comando balilla, il comando avanguardia e i locali di servizio mentre al primo piano trovano posto la segreteria, la presidenza, il comitato e la biblioteca; a questo corpo simmetrico si accostano da un lato la palestra e dall’altro il salone absidato, elementi spaziali che definiscono, sul retro, il cortile per i giochi. Mentre la “sala di proiezione” si dispone longitudinalmente in corrispondenza del sistema di circolazione formato da un largo corridoio che attraversa il corpo a “C”, la palestra si dispone trasversalmente ad esso facendo da quinta allo spazio aperto retrostante.
Una diversa sistemazione interna era stata pensata da Del Debbio anche per la sala proiezione. Negli archivi della DARC a Roma è, infatti, conservata una prospettiva interna del salone absidato, in cui il soppalco per il proiettore è sorretto da quattro pilastri che individuano una sorta di pulpito rialzato .
La pianta è organizzata a partire da uno spazio servente lineare che viene posizionato longitudinalmente rispetto ai tre volumi principali, quello centrale e i due laterali .
Ogni spazio è generato da una “forte” geometria; l’atrio centrale e il corridoio sono formati dall’accostamento di due rettangoli aurei, i bracci della “C” da due quadrati uguali di dimensioni pari a quelli che generano i rettangoli aurei della parte centrale e la palestra e la sagoma principale della sala per le proiezioni da due rettangoli di sesta maggiore (5:3)
Questo “rigore” geometrico è rintracciabile nelle indicazioni che Del Debbio fornisce nel suo manuale: «La superficie delle palestre normali può salire fino a 540 mq. Non è consigliabile una misura maggiore per la difficoltà d’insegnamento e controllo da parte dell’istruttore. Il rapporto migliore fra la lunghezza e la larghezza della palestra è di 1:0,6. […] L’altezza del locale può essere dai 6 ai 7 metri per avere una sufficiente cubatura ed un buon rapporto con l’area»[7]. Questa affermazione ci informa con chiarezza che l’impianto della palestra doveva essere progettato secondo il rettangolo di sesta maggiore (1:0,6=5:3); nella variante realizzata tale rapporto non è rispettato, anche se di poco, perché il progettista è in un certo senso “costretto” dalle giaciture e dai “fili” che ormai erano stati già costruiti.
L’architetto carrarese interviene sui fronti con un duplice esito perché da un lato riafferma l’autonomia dei tre volumi definendo una gerarchia attraverso un trattamento differenziato, il fronte trabeato per l’accesso alla sala, l’ordine gigante con frontone nella parte centrale e soltanto finestre per la palestra e perché, dall’altro, attribuisce all’edificio solennità e monumentalità con un richiamo al mondo classico, quasi d’obbligo ad Agrigento non tanto nella forma costruita quanto nell’allusione. Del Debbio, infatti, poggia l’edificio su un crepidoma che permette, nello stesso tempo, di sollevarlo da terra e di connettere ulteriormente i tre volumi. Questo avancorpo, che presenta un portico coronato dal frontone, viene evidenziato maggiormente dalla presenza dei due corpi laterali ciechi.
I quattro pilastri dell’ordine gigante inquadrano i tre ingressi all’atrio e le tre finestre del piano superiore generando forti effetti chiaroscurali .
Oggi il rigoroso impianto progettato da Del Debbio non è più leggibile perché l’edificio è stato frazionato ed è sottoposto a un differente regime proprietario. Un cinema, un bar, una tabaccheria, una farmacia e alcuni magazzini occupano quegli spazi di piano terra un tempo occupati dai giovani e dai rappresentanti dell’Opera Nazionale Balilla mentre alla palestra e alla sala da scherma sono stati preferiti una porzione di parcheggio e parte di una sede stradale. Il primo piano è stato ampliato e frazionato per ricavare alcuni uffici del Genio Civile che ha realizzato anche, all’interno del volume, un nuovo piano calpestabile raggiungibile da una scala costruita ex-novo .

Di quest’ultimo intervento non è stato possibile rintracciare alcun documento scritto né qualche elaborato grafico forse perché trattasi di un “paradossale” episodio di abusivismo effettuato da un organo preposto anche al controllo dell’attività edilizia.
Adiacente al fianco ovest della casa del balilla è ubicato il Palazzo delle Poste progettato da Angiolo Mazzoni e ultimato nel 1936. L’architetto bolognese presenta il suo progetto, attraverso la realizzazione di un modello in gesso, nel settembre del 1931 al Palazzo di Città alla presenza del Podestà Corsini e del Prefetto Miglio.
«Dovettero passare almeno cinque anni perché il Senatore Roberto De Vito e l’Ammiraglio Pession riuscissero a far approvare questo progetto che Costanzo Ciano qualificò: “una seggetta”»[8] .
L’edificio ha una “impronta” circolare che in alzato diventa un volume cilindrico che offre all’osservatore un’immagine dinamica sempre in continuo cambiamento. La plasticità dell’edificio si contrappone fortemente sia al rigore formale dei vicini edifici tardo ottocenteschi sia alla “linearità” della casa del balilla.
La scelta della forma cilindrica è dettata sia da motivi “concettuali” che strutturali: l’impianto circolare trasforma infatti l’edificio in una cerniera urbana tra due strade tangenti ad esso permettendo allo stesso tempo di risolvere il problema della spinta che il terreno retrostante esercitava sull’edificio posto in una particolare condizione orografica.
Mazzoni, pur ricorrendo ad una forma “rigida”, il cilindro, non rimane “imbrigliato” da essa ma la modella in funzione delle ragioni urbane e figurative.
Il progettista, infatti, sottrae una parte dell’anello esterno del cilindro realizzando un percorso verticale che collega due brani del tessuto cittadino dimostrando che il suo non è soltanto un intervento architettonico ma anche urbano .
Il portico, legato alla piazza dalla gradinata, è concepito come una estensione dello spazio urbano e la scala, che appoggiandosi all’edificio ne prende la forma, costituisce la sua prosecuzione collegando tutti i livelli dell’edificio alle varie quote altimetriche .
Ancora più sofisticata è la soluzione “urbana” che Del Debbio adotta a nord; egli infatti progetta una corte a quota della piazza realizzando un muro di contenimento allineato con il centro della circonferenza della base del volume che prende successivamente, degradando, la forma di una semicirconferenza per poi allinearsi perpendicolarmente alla via Imera. Si viene a creare, così, una scala prima rettilinea e poi curva che si relaziona, alla quota più bassa con la “linearità” della via Imera e poi “piegandosi” con l’assetto “sinuoso” della Salita degli Angeli, ora via Gioieni .
La pianta rimanda evidentemente allo schema tipologico di un edificio a pianta centrale dove gli elementi sono disposti secondo anelli concentrici. Nel Palazzo delle Poste di Agrigento si possono individuare tre anelli a quote diverse: il primo, al piano rialzato, è lo spazio di servizio per gli uffici, il secondo, presente a partire dal secondo piano, è il corridoio che si affaccia sulla corte interna, e il terzo, esterno all’edificio, è formato dal portico e dalla scala e pertanto assume un valore urbano.
La sala centrale del pubblico, posta al piano rialzato, è uno spazio a doppia altezza. Il muro circolare, su cui si aprono gli sportelli dei funzionari, si conclude all’altezza del primo livello per poi diventare una grande vetrata, anch’essa circolare, che dà luce alla sala. Al centro di essa è posizionato lo “scrivimpiedi”, arredo fisso che Mazzoni progetta sempre con forme differenti negli edifici postali da lui progettati e realizzati .
Al piano rialzato si può accedere anche da quattro ingressi posti sul retro dell’edificio, nella corte laterale a quota della piazza, raggiungibili con due rampe di scale accostate sulla parete circolare .
La scala interna che collega i quattro livelli si sviluppa secondo la “sagoma” della parte della sezione orizzontale sulla quale insiste. Delle tre rampe, necessarie per superare l’interpiano di ml. 3.90, costante in tutto l’edificio, due sono disposte in modo radiale mentre la terza, quella centrale, “asseconda” la curva della parete alla quale si appoggia. Presso il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (MART), dove sono custoditi alcuni disegni relativi al progetto di Mazzoni, vi è una tavola (1598×766 mm.), a matita su carta, in cui la scala è rappresentata alla scala 1:20 e dove è presente il dettaglio del corrimano al vero .
Lo schema distributivo degli altri piani è estremamente semplice: un elemento circolare, il corridoio, serve i vari ambienti, necessari per assolvere alle diverse funzioni e individuati dalla disposizione dei setti murari in maniera radiale .
L’edificio è stato sottoposto ad un intervento di restauro nel 2003 ma ha subito, nel passato recente, interventi di adeguamento alle esigenze delle Poste Italiane che hanno compromesso la spazialità interna dell’edificio soprattutto ai primi due livelli, quelli comunque più rappresentativi perché riservati al pubblico.
Non è stato possibile documentare fotograficamente il nuovo assetto degli interni di piano terra perché l’amministrazione postale non lo ha permesso per motivi di sicurezza, ma il raffronto tra il rilievo dello stato di fatto e il ridisegno del progetto dell’architetto bolognese possono, insieme alle foto d’epoca conservate al MART, fare comprendere con chiarezza che anche questa architettura ha perso parte della sua “bellezza” anche se il regime proprietario non sia mai cambiato . Il rilievo, operazione necessaria per conoscere il manufatto, non è stato, in questo caso, soltanto una mera restituzione del manufatto ma indispensabile “strumento” per il confronto con un altro “rilievo”, il ridisegno dei progetti, al fine di mettere in luce le differenze tra l’idea di architettura e l’idea dell’odierno abitare.
[1] Questo lavoro è una sintesi di Agrigento anni ’30. Tesi di laurea di Giovanni Campanella e Giovanni Rizzo, Università degli Studi di Palermo. Facoltà di Architettura della sede di Agrigento. A.A .2007-08. Relatore: Prof. Francesco Maggio. Tutte le rappresentazioni relative agli edifici sono state eseguite dagli autori della tesi di laurea che hanno fotografato anche i disegni custoditi presso gli archivi.
[2] Cfr. M.L. Neri, Enrico del Debbio, Milano 2006, p. 138.
[3] La casa del balilla di Agrigento viene inaugurata il 29 dicembre del 1929 mentre quella di Gorizia il 27 ottobre dello stesso anno. Cfr. R. Capomolla, M. Mulazzani, R. Vittorini, Case del balilla. Architettura e fascismo, Milano 2008, p. 238.
[4] E. Del Debbio, Progetti di costruzioni. Case balilla-Palestre-Campi Sportivi-Piscine ecc., Roma 1928.
[5] Gli elaborati sono conservati presso l’archivio Del Debbio custodito a Roma al DARC presso il Museo Hendrick C. Andersen.
[6] R. Banham, Architettura della prima età della macchina, Bologna 1970, p. 17.
[7] E. Del Debbio, Progetti di costruzioni…, cit., p. 9.
[8] L’annotazione si trova su una foto del plastico in gesso dell’edificio conservata presso il MART di Rovereto, fondo Mazzoni.