FERDINANDO GREGOROVIUS nell’opera Passeggiate per l’Italia pubblicata nel 1855 descrisse il suo viaggio a Girgenti
Riportiamo il testo del suo viaggio
Giungemmo, così, a Molo di Girgenti, piccolo porto lungi tre miglia circa da Agrigento, e la notte era profonda allorchè entrammo nell’antica Akragas, la patria di Empedocle, ora la meschina città di Girgenti.
All’incerta luce delle stelle tutta quella solitudine assumeva un aspetto classico e malinconico e, allorchè, al mattino, fui alle porte della città, vidi un paesaggio di poco inferiore ai campi di Siracusa per grandezza e solennità di stile.
Eravamo nell’antica Agrigento, e m’è forza, per soddisfare ad una promessa, dire brevemente di questa formosa vetusta città e dei suoi monumenti.
Essa giace in una pianura incassata scendente al mare, distante oltre tre miglia, e circondata da colline sassose e di aspetto imponente. Due fiumi corrono ad oriente ed occidente di questa pianura: l’_Akraga_e l’_Hypoa_, denominati oggi rispettivamente S. Biagio e Drago.
Questi circoscrivevano da due parti il perimetro della città e si congiungevano a’ piedi delle mura di questa a mezzogiorno; qui il secondo perdeva il nome e scendeva al mare riunendo le sue acque con quelle del primo.
La pianta dell’antica Agrigento si presentava come un triangolo irregolare, fiancheggiato dai due fiumi, con la base verso nord, appoggiata contro due colline: il _Kamiko_, per cui trovasi con Girgenti e la Minerva. Questa era la città propriamente detta, a cui si accostavano i sobborghi, Neopoli (città nuova), come la denomina Plutarco, la quale si allargava sotto il _Kamiko_ occupando quasi tutta l’altura. Le alture naturali ed un dedalo di gole e di fossati, costituivano le difese della città, e ancora oggi ne sono visibili le vestigia a levante ed a mezzogiorno. Ponendosi dove sorgevano le mura a sud, nel centro di quella serie di templi divisi, dei quali sono giunte sino a noi alcune reliquie, si ha davanti una costa di grandiosa e malinconica bellezza, della quale è meglio tacere piuttosto che tentare la descrizione con parole.
La pianura scende al mare e offre, nel suo aspetto solenne e deserto, un paesaggio di forme severe che doveva trovarsi in completa armonia con la grandezza monumentale dei templi dorici. Tutto vi è grandioso: l’orizzonte ampio, il mare vasto, calde vi sono le tinte e la terra arida ci indica la prossimità dell’Africa; l’unica vegetazione che qui si scorga è quella malinconica degli olivi.
All’ingiro — ove s’ergevano templi, ove ancora posano centinaia di tombe, di loculi, di grotte — sorgono qua e là tronchi di colonne e il suolo è coperto di avanzi di architravi colossali e di triglifi; tutto vi chiama alla contemplazione, all’ammirazione, e chi non si sente commosso a quella vista, vuol dire che non nutre nessun amore per l’antica Grecia, e non sa apprezzare la splendida civiltà di questa. Non è possibile considerare una città distrutta o parlare dei suoi monumenti senza prima ricordarne le vicende. Perciò io voglio anzitutto dare un cenno della storia dell’antica Agrigento nella speranza che il lettore di queste pagine sia indotto a fermarsi in questa città di fama mondiale e di completare quanto io accenno semplicemente. Vi sono inoltre nella vita di Agrigento una folla di grandi figure, il cui nome è sulle labbra di tutti, in quanto questa città fu una delle principali fra le città elleniche, e se non così potente come Siracusa, fu però ricca in non minore misura di felici e spirituali qualità.
Anche prima dei Greci era già un centro importante dei Sicani. Il suo re Kokalus aveva, secondo il racconto di Diodoro, ospitato Dedalo fuggiasco e questi costruì per lui sul Kamiko una rocca alla quale si poteva accedere solamente per una tortuosa via artificiale. In questo castello imprendibile portò Kokalus il suo tesoro. L’Agrigento ellenica sorse nei due anni della 49ª olimpiade (582) come città coloniale della vicina Gela, e presto superò in importanza la città madre: avendole dato un rapido sviluppo il commercio con Cartagine.
Gli Agrigentini avevano prima una forma oligarchica di governo secondo gli statuti di Charondas di Katana, che durò fino a che Falaride la mise in mano ai tiranni. Quest’uomo straordinario era Cretese di nascita. Incaricato della costruzione del tempio di Zeusi Polieus, si giovò di questa impresa che gli metteva a disposizione denaro e uomini, nonchè il punto più forte della città. Egli assoldò dei mercenari, armò i prigionieri e mentre che si celebrava la festa di Cerere, si rese signore e tiranno di Agrigento.
Ai Greci era così odiosa la monarchia, che concepirono Falaride come un mostro favoloso, e la sua crudeltà diventò proverbiale. A tutti è nota la leggenda del toro di bronzo arroventato, che Perillo dovette costruire per quel tiranno a fine di farvi morire dentro gli stranieri e le persone a lui nemiche. Il toro d’Agrigento e l’immagine del toro di Dedalo furon rimandati a Creta e di poi alla vicina Cartagine, dove furono sacrificati degli uomini nei fianchi del toro. Che il toro di Falaride esistesse veramente lo afferma Diodoro. Egli racconta: Himilkone lo ha spedito a Cartagine dopo la conquista di Agrigento, ma Scipione, 260 anni dopo, in seguito alla distruzione di Cartagine, lo ha ritornato agli Agrigentini. Il toro di Falaride ha servito a Luciano per due dialoghi satirici, dove egli fa comparire degli inviati del tiranno in Delfi i quali portano come offerta al Dio quella macchina infernale, e il crudele tiranno vi è presentato come un uomo giusto; egli, inoltre, per bocca dei sacerdoti, fa comparire il dono del feroce come un’assai religiosa offerta. Non è facilmente possibile potere spingere più oltre la malignità contro la Chiesa come Luciano ha fatto in questi suoi scritti. Falaride fu potente e crudele, ma anche egli col tempo, circa verso la metà del VI secolo a. C., si distinse a guisa degli altri tiranni greci come uomo d’intelligenza, e visse nella compagnia di filosofi e artisti.
Si raccontano di lui dei tratti di generosa magnanimità come la storia di Menalippo e Cariton che ricorda quella Dionisia di Damon e Pitia, e quella che viene ricordata dal famoso Stesicoro. Falaride, che aveva assoggettate tante città, si alleò una volta con quelli d’Imera, a patto che essi dovessero eleggerlo a loro capo e potersi così vendica dei loro nemici. A ciò si oppose Stesicoro: egli venne al popolo e raccontò una favola. Un cavallo pascolava una volta, solo, in un campo; venne il cervo, più forte, e lo cacciò via. Il cavallo andò per aiuto dall’uomo e lo pregò di castigare il cervo. Bene, disse l’uomo, però tu mi devi portare sul dorso. Il cavallo acconsentì, si vendicò così del cervo con l’aiuto dell’uomo, ma portò per sempre il morso che questi gl’impose e subì il suo dispotico dominio.
«Così, disse Stesicoro, volete somigliare anche voi al cavallo della favola, o uomini d’Imera; voi dovete ben riflettere prima di sottomettervi al giogo di Falaride». Gli Imeresi rifletterono, infatti, e quindi abbandonarono ogni idea di alleanza col tiranno. Però, poco dopo cadde il poeta in suo potere e gli fu condotto davanti. Ma non gli fece alcun male, bensì gli offrì ospitalità e ricchi doni, prendendo molto diletto a’ suoi sapienti discorsi, e all’armonia dei suoi canti, e lo licenziò quindi con ogni onore. Assai importante appare l’influenza che i filosofi avevano sui tiranni di Sicilia. Come nei tempi favolosi gli eroi erravano pel mondo per distruggere i mostri, così più tardi i filosofi viaggiavano pel mondo per liberarlo dai tiranni.
Il cómpito della filosofia è sicuro: liberare l’umanità da ogni specie di tirannia, e questo scopo è chiaramente espresso nelle antiche relazioni dei famosi viaggi compiuti dai Pitagorici e dagli Eleusini. Vanno verso Falaride Demostene, Zenone di Elea e Pitagora per ammonirlo, allontanarlo dalla tirannia, e rivolgerlo alla virtù. Nella vita di Pitagora sono narrati i ragionamenti che un filosofo ebbe con Falaride. Egli paragonò i cattivi e i buoni modi di vivere, gli scopi, le capacità, le imperfezioni e le passioni dell’anima, rese manifesta l’onnipotenza di Dio dalle sue opere, e convinse così l’incredulo tiranno.
Egli non tacque del castigo che aspetta ai violatori della legge, e parlò molto sul giudizio divino e sulla virtù, sulle vicende della sorte e della bramosia degli uomini pel possesso e la sovranità. Ai discorsi dei filosofi rispondeva così il tiranno geniale: «Per la signoria è come per la vita. Nessuno vorrebbe nascere se sapesse anticipatamente il martirio della vita, però appena si è nati non si vuol più morire; così nessuno vorrebbe essere tiranno, se conoscesse anticipatamente la pena che soffrono i tiranni; appena però lo si è divenuti, non si può più cessare di esserlo».
Si ricordano le parole profonde che un siracusano rivolse a Dionisio. Quando questi una volta era in dubbio se deporre la sovranità o no, uno dei suoi amici gli disse: «O Dionigi, la tirannide è una bella veste da morto!». Il presente, così mi sembra, fa rivivere quei tempi della tirannide con un esempio visibile nel ricordo: esso mostra che la natura umana è eternamente la stessa. Quando si paragonano i due grandi periodi della tirannide, la ellenico-sicula e la medioevale, che si equivalgono, con l’apparizione della nostra giovane tirannide nei suoi intrighi e nelle sue macchinazioni, si vede che nulla è nuovo sotto il sole. È cessata solamente la vecchia libertà dei discorsi filosofici e i nostri professori di filosofia adesso non fanno che creare o combattere dei sistemi e delle chimere, che non hanno nessun potere sulla felicità dei popoli.
Una favola dice che Falaride perdette la vita per una parabola di Pitagora. Parlava una volta, il gran filosofo, alla sua presenza e a quella dei cittadini della paura degli uomini davanti ai tiranni e dimostrò come essa fosse senza fondamento con l’esempio dei colombi, che, paurosi, fuggono davanti lo sparviero e invece potrebbero metterlo in fuga se essi contro di esso coraggiosamente si volgessero.
Questo discorso infiammò un cittadino presente, che raccolse una pietra e la gittò contro il tiranno: altri seguirono il suo esempio e così Falaride rimase ucciso.
Altri raccontano che Zenone di Eleusi spingesse gli Agrigentini alla rivolta contro di lui. Il ricordo di Falaride si è mantenuto nel mondo e così notevole sembrò quest’uomo all’antichità che gli si attribuirono centoquaranta lettere morali e filosofiche, sulla autenticità delle quali però i dotti hanno lungamente disputato.
Dopo la sua morte fu di nuovo innalzata la democrazia e a capo dello Stato subentrarono due uomini saggi, Alkmener e Alkander, sotto il potere dei quali la repubblica rifiorì e divenne così ricca, che i cittadini cominciarono a portare abiti bagnati nella porpora. La lussuria e la loro essenza geniale e sofistica sembrano essere state principalmente causa della loro rovina.
Al tempo di Gerone di Siracusa, un uomo molto forte, Tirone, riuscì a diventare il tiranno in Agrigento. Egli si era imparentato con quel re e ambedue i capi siciliani si aiutavano nell’esecuzione dei loro progetti. Cominciò allora il periodo di fioritura della Sicili dopo che i Cartaginesi presso Imera ebbero a soffrire una sanguinosa sconfitta nell’anno 480. Il maggior numero di prigionieri cartaginesi l’aveva fatto Agrigento, e parecchi cittadini tenevano nella loro casa 500 incatenati. Però il numero maggiore fu assegnato alla comunità, dalla quale furono obbligati a trasportare le pietre che servirono a fabbricare i tempî d’Agrigento, ed a lavorare nei canali sotterranei che il celebre Faax aveva ideati. Oltre a ciò gli Agrigentini costruirono una piscina per ingrassare dei pesci rari per le loro cene raffinate; essa offriva anche un quadro pittoresco, così dice Diodoro, perchè molti cigni vivevano nelle sue acque. Gli abitanti piantavano inoltre su tutta la loro terra la vite e molti alberi da frutta.
La signoria di Tirone fu il periodo più splendido di Agrigento. Il commercio e l’agricoltura resero assai ricca la città, che si arricchì di belle opere architettoniche, plastiche e pittoriche; feste pompose dilettavano il popolo e alla corte del mite signore si videro i sapienti e i poeti dell’Ellade: Pindaro, Bacchilide, Eschilo furono in Agrigento; quando una questione sorta fra Gerone e Tirone stava per trascinarli alla guerra, si intromise per rappacificarli il gran poeta Simonide. Pindaro inoltre compose i suoi canti olimpici di vittoria su Tirone di Agrigento che aveva vinto col suo ardire, e magnificò nei canti istmici Kenokrate Akragas come la più bella fra le città del mondo. Tirone regnò sedici anni. Quand’egli, nell’anno 472, morì, il popolo gl’innalzò una bella tomba e gli rese gli onori degli eroi. Suo figlioTrasidaos non gli somigliò; odiato dagli abitanti, fu scacciato e piùtardi giustiziato a Megara. Gli Agrigentini avevano abbattuto i tiranni e avevano dato a tutta la Sicilia il segnale della liberazione dalla tirannia. Mentre, dunque, nelle città veniva esaltata la democrazia, Empedocle in Agrigento dava una costituzione che assegnava uguali diritti tanto all’aristocrazia, quanto al popolo.
Sembra che le basi politiche del gran filosofo fossero rappresentate dall’eguaglianza di tutte le classi di cittadini; egli però si considerò come un Dio, come vien riferito da lui stesso. Vestiva di porpora e portava una corona d’oro sulla chioma lunga e abbondante; quando usciva lo seguivano paggi graziosamente abbigliati. Così lo descrissero gli antichi, come un eroe nel quale la natura spiegò il suo più alto valore. Empedocle fu una delle figure più fulgide nelle quali i Greci abbiano ammirato il genio; i biografi postumi gli attribuirono la più alta coscienza della divinità del genio umano.
La filosofia naturale della quale fu maestro Empedocle, non rimase astratta in lui, ma l’applicò alla vita; e fu uno dei più grandi medici dell’umanità. Egli aveva liberato i Selinuntini dalla peste, e così meravigliose apparivano le sue guarigioni, che di lui si favoleggiò che sapesse resuscitare i morti.La medicina divenne così la scienza prediletta dei Siciliani: accanto ad Empedocle troviamo il suo amico Pausania e il suo emulo Akrone di Agrigento. Fu anche famoso più tardi, nella scienza medica Erodico, fratello di Gorgia, e al tempo di Aristotile Menecrate di Siracusa.
Questi imitò la vanità di Empedocle, e di lui vengono narrate storie assai amene. Non prendeva denaro per le sue cure, ma voleva solo che i suoi pazienti si nominassero suoi schiavi. Aveva guarito, ancora, con grande arte, due ammalati; essi dovevano seguirlo ovunque, chiamandosi uno Ercole, l’altro Apollo; però egli era Giove! Una volta scrisse a Filippo di Macedonia la lettera seguente:
«Menecrate Giove a Filippo, salute!
«Tu regni in Macedonia, io regno nella Medicina. Tu puoi far morire quelli che stanno bene, io posso assicurare gl’infermi di vivere sani fino alla vecchiaia, se essi mi ubbidiscono. La tua guardia del corpo è di Macedoni, la mia di quelli che ho guarito. Poichè io, Giove, ho ridato la vita!».
Rispose il re:
«Filippo augura a Menecrate cervello sano. Ti consiglio di fare un viaggio a Anticyra».
Anche Plutarco racconta che ad una lettera di Menecrate ad Agesilao di Sparta, questi in simil guisa rispondesse:
«Il re Agesilao alla sanità di Menecrate».
Si scorge già, come alla scienza naturale, della quale la Sicilia era la patria, cominciasse ad unirsi la ciarlataneria, come alla filosofia cominciasse ad unirsi la sofistica. La Sicilia, patria dei sofisti, era anche la patria dei ciarlatani, e anche oggi questa regione è caratterizzata in diversi modi da menti sofistiche e dal ciarlatanismo, ed io credo che non perderà mai questi caratteri, essendo i prodotti della sua natura vulcanica.
Empedocle preludiava già alle storie magiche e meravigliose dei tempi seguenti. Intorno alla sua morte la leggenda futura distese una luce favolosa, come per il famoso Apollo di Tyana e per molti altri semidei e profeti cristiani. Si racconta che egli abbia richiamato in vita una donna già morta e che sia quindi andato con molti amici nella villa di Peisanax per fare dei sacrifici. Quando essi al mattino si svegliarono, si accorsero che mancava Empedocle. Se ne domandò agli schiavi, dei quali uno solo potè riferire che aveva sentito gridare nella notte da una voce soprannaturale il nome di Empedocle. Quando egli si svegliò vide una luce celeste, un chiarore di fiaccole e poi nulla più.