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Hans Otto Schonleber panorama di girgenti

Geologia di Agrigento: i suoi templi, i suoi monumenti e quei suoi antichi palazzi costruiti con il tufo

26 Aprile 2022 //  by Elio Di Bella

Dal Monserrato alla Rupe Atenea, sino quasi al fiume Naro, si svolge; una crosta di tufi calcarei, che si distacca nettamente dalle sottostanti argille plioceniche; ; di tufo è pure il vero e proprio piano inclinato, che dalla  cresta suddetta scende verso il mare, insieme ai torrenti Sant’Anna (Hipsas) e San. Biagio (Acragas), confluenti alla medesima foce.

L’abitato medievale e moderno s’addensa dove sorgeva l’acropoli dell’antica città, la quale dalle alture discendeva giù per tutto l’ampio spazio racchiuso dai menzionati corsi d’acqua. Inneggiando alla bellissima fra le mortali città, Akragas, Pindaro ne celebra il colle  di vari edifici adorno (1) .

Le fabbriche antiche, templi compresi (dalle rovine che ben s’accordano a tanta esaltazione), erano costruite di tufo. Quali testimonianze dei colossali lavori eseguiti per trarre il materiale occorrente, vennero additati i cosiddetti  “ipogei”, groviglio inestricabile di gallerie che forano il sottosuolo, allargandosi in vasti spazi sorretti da pilastri. In verità essi possono considerarsi cave di pietra fino a un certo punto, e in ogni modo non furono scavati a questo scopo; si tratta di gallerie filtranti e di acquedotti sotterranei, del tipo notissimo anche altrove nelle città greche.

I geologi distinguono i tufi calcarei sabbiosi dagli strati fortemente inclinati, che affiorano alla Rupe Atenea, e che sono riferibili al pliocene superiore, da quelli ben più diffusi e tutti probabilmente già quaternari, che dovunque si stendono in banchi suborizzontali; questi sono di colore giallo brunastro e racchiudono moltissime conchiglie, sia pure quasi sempre allo stato di modello (Cyprina islandica, Dentalium sexangulum, ecc.), tanto che si potrebbero benissimo chiamare tufi conchigliari. Il tono giallastro del tufo adoperato tende sempre, e talora decisamente, al rossastro. La roccia, variamente arenacea e fossilifera, è tenera appena scavata, ma diviene a poco a poco abbastanza compatta e durevole. Non tanto però che oggi la conservazione delle vestigia dei templi, che hanno perduto l’originario rivestimento intonacato, non desti gravi timori.

Gli occhi del visitatore — abbagliati dallo splendore dei monumenti antichi – si tennero troppo a lungo distolti dalla città medievale. Naturalmente i costruttori dell’età di mezzo si valsero dapprima dei materiali della città antica, ed un cronista d narra in proposito un episodio. Nel corso del secolo XII fu vescovo di Agrigento Gualterius Francigena, qui in Episcopatu residens de Sarracenis multis valde verebatur et consilio habito cum canonicis subito disposuit facere turrim ad munimen Ecclesie et subsidium civitatis: cui cum canonici dicerent multorum annorum proventus Ecclesie non posse sufficere expandi fecit coram eis duo fortella lorice piena bisanciis aureis infinite multitudinis super quod stupefacti dixerunt voluntatem suam optime perfici posse, mox emptis multis bufalis fecit trahi lapides magnos de civitate veteri et tribus annis complevit edificium turris (2).

Anche oggi facilmente riconosciamo materiali antichi reimpiegati nelle costruzioni medievali, nella chiesa di San Nicola, ad esempio, ed in quella di Santa Maria dei Greci, costruita sull’area e con pietre di un tempio forse di Minerva. Era peraltro tanto agevole l’estrazione del tufo, che la maggior parte delle pietre usate nei monumenti agrigentini, dall’alto medioevo ai giorni nostri, si direbbe tratta direttamente un po’ dappertutto nei paraggi dell’abitato. Particolarmente rinomate, sino dall’antichità, due cave: quella detta Balatizzo, a libeccio della città, a circa duecento metri dalle ultime case, dove la pietra, di colore giallo rossastro chiaro, è priva di fessure nonché scarsa di conchiglie; e la Cavetta, a circa mezzo chilometro dalla periferia, molto apprezzata per la particolare durezza e compattezza della pietra.

L’esame dell’architettura agrigentina medievale offre qualche cosa di nuovo in fatto di pietra. Mal si sarebbe prestato il grossolano tufo calcareo a quei leggendari lavori d’intaglio, che caratterizzano l’arte medievale normanno-chiaramontana Venne usato perciò — accanto al tufo, che rimane la pietra fondamentale d’ogni muratura -un calcare marnoso bianco o bianco – grigrio a grana fina, la pietra matta, che tanto bene si prestò ai decoratori medievali, ma che  purtroppo, a motivo della scarsa durevolezza, fa sì che adesso cadano in rovina opere stupende.

La roccia provenne certo dalle formazioni mioceniche della regione, e tutto lascia supporre che si traesse almeno in parte nei pressi della città, ma non sono stati sinora scoperti adeguati segni di cave. Era stato supposto che queste si trovassero a settentrione della città, nel territorio che va dalla borgata di Montaperto alla Serra di Ferlicchio a San Giuseppe, senonchè il calcare di questi luoghi non ha nulla a che vedere con quello usato nei monumenti. Soltanto a Burgio si  ritrovò qualche traccia di scavo entro una pietra calcarea marnosa somigliante a quella in questione.

Nei restauri dei monumenti si adopera oggi un calcare di Comiso in provincia di Ragusa,  simile al punto da giustificare la supposizione che se ne facesse giungere anche passato ad Agrigento. Nelle formazioni mioceniche attorno alla città compare il gesso, ed anche questa roccia figura nelle vecchie case cittadine. Tuttora nelle frazioni rurali (Montaperto,Gallotti, Giardina) il pietrame di gesso viene adoperato per la costruzione di muri,  lastricati di cortili ecc.

Monumenti e Palazzi cittadini

Il monastero di Santo Spirito, caratteristica costruzione eseguita nel secolo XIV da Marchisia Prefoglio, capostipite della schiatta dei Chiaramonte, appare un esempio meraviglioso di magione siciliana feudale della fine del ‘400, superba nei suoi severi ambienti e nelle sue bellissime porte e finestre » (Mauceri).  

 La facciata di questo complesso monumentale è un  esempio di squisito accordo tra la parte inferiore medievale e quella superiore barocca, entrambe di tufo ricco di conchiglie; tuttavia nel portale e nel rosone della chiesetta medievale compare la pietra matta.

Nelle bifore superiori dell’annesso chiostro, come pure nelle tre finestre ogivali della chiesa di San Calogero, balza una simpatica bicromia ottenuta alternando conci tagliati e levigati di pietra matta e conci di tufo arenaceo.

Nella chiesa di San Giorgio degli Oblati sono di pietra matta due grandi finestre a feritoia, e tutto il paramento della facciata, compreso lo stupendo portale decorato a zig zag e fortemente corroso, anche ad alveoli .

Interessante pure la chiesa di San Nicola (dai XIV al XVI secolo) con annesso convento cistercense anteriore al secolo XIII: muratura di tufo arenaceo, compresa la facciata della chiesa col suo portale; bifore del convento di pietra matta.

Anche nel Duomo (San Gerlando), costruzione iniziata nel secolo XI, la massa muraria della chiesa è tutta in conci di tufo arenaceo; le finestre ogivali, il rosone intagliato a ricamo e qualche altro particolare sono di pietra calcarea marnosa. Di tufo è pure la torre campanaria, salvo un fianco parato di pietra matta e splendidamente decorato da due piani di finestrette ogivali, in parte cieche, e da una finestra ogivale, il tutto in pietra matta fortemente deteriorata e corrosa.

Ricordo ancora il Palazzo Filippazzo in Salita Sant’Antonio, dove i cantonali e tre finestre bifore di pietra matta spiccano dal paramento in tufo; il Palazzo De Pugiades, oggi Istituto del Boccone del povero, con due grandi finestre bifore di tufo arenaceo conchigliare, salvo le colonnine in pietra matta; la chiesetta ed il monastero di San Francesco con portali, finestre, decorazioni varie in pietra matta, il resto in tufo.

Nelle fabbriche più recenti, e specialmente nei tanti palazzi e palazzetti e chiese dei secoli XVI, XVII e XVIII compare soltanto il tufo arenaceo, per lo più ristretto alle sole decorazioni apposte ai muri di pietrame grezzo intonacato; così nei palazzi Galifi in Via Garibaldi e Torricelli in Piano Barone, entrambi del secolo XVI, con caratteri stilistici gotici nei portali d’ingresso ed in qualche finestra, barocchi nel rimanente. Ed ancora: il Palazzo Celauro ed il Palazzo Carbonaro in Via Atenea, il Palazzo Vescovile, quello della Biblioteca Lucchesiana ecc. Anche le facciate delle chiese sono tutte costruite e decorate in tufo, salvo qualche sporadico motivo in calcare compatto (San Domenico, San Giuseppe, Santa Rosalia e del Purgatorio).

FONTI. — M. CRAVERI, Il tufo calcareo o breccia conchigliare dei templi di Girgenti, « Boll. Soc. geol. ital.  XXIX, 1910; R. FABIANI, Guida sommaria delle escursioni (del XLIV congresso della Soc. geol. Ital.) Palermo, 1931 ; E. MAUCERI, Sicilia ignota, « L’arte» XXII, 1919; E. STOHE, Il terreno pliocenico dei dintorni di Girgenti, « Boll. Con. Geol. d’Italia » VII, 1876. Informazioni del compianto ing. MICHELE GIAMMUSSO, del dott. PIETRO GRIFFO, dell’ing. GIUSEPPE MESSINA e del prof. GIOVANNI ZIRRETTA.

1 PINDARO, Ode pitica XII (trad. Cerrato). — 2 « In C. A. GARUFI, L’archivio capitolare di Girgenti, « Arch, stor.siciliano  XXVIII, 1903 II passo è tratto dal Libellus de sucessione pontificum Agrigenti.

Francesco Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze, 1953, pp. 439-442

Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento, agrigento racconta, agrigento storia, akragas, geologia, girgenti, sicilia, valle dei templi

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