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Le strade, nelle quali mi smarrii, sono scoscese, tortuose e poco praticabili la seradi Gastone Vuiller
Eccomi a Girgenti, l’antica Agrigento, dopo uno sbarco notturno, e un viaggio di qualche chilometro in ferrovia. Agrigento, o l’Akragas dei Greci, fu fondata verso la cinquantesima olimpiade, cioè circa 600 anni avanti Gesù Cristo dagli abitanti di Gela. Dopo Siracusa, Agrigento fu la città più grande, più ricca e più popolosa della Sicilia. La città presente occupa l’antica acropoli; è situata sopra un’alta roccia dominante in mare.
Le strade, nelle quali mi smarrii, sono scoscese, tortuose e poco praticabili la sera, perciò rinunziai quasi subito ad una passeggiata notturna, che per me ha generalmente una grande attrattiva.
Nel momento che mi disponevo a ritornare all’albergo, nel quale non avevo fatto che una semplice apparizione appena arrivato, scorsi delle persone cariche di brocche, ferme presso d’una fontana, che guardavano attentamente il cielo, il quale era seminato di stelle filanti come razzi, scintillanti e cadenti in faville verso terra in una vera pioggia di fuoco.
Secondo la credenza siciliana, le stelle cadenti (stiddi chi currinu) sono presagio d’assassinii o di morte, perché le stelle si estinguono insieme con le vite umane. Spesso la stella che fila e sparisce è l’anima d’un assassinato che s’incammina verso il luogo ov’è attesa; ma Dio ne guardi dall’indicarla col dito, sarebbe un sacrilegio; si contentano di desiderarle una sorte felice. Quando il cielo sereno è coperto di stelle, è segnale di pioggia o di scirocco; se si muovono sono indizio di siccità o di terremoto.
Le persone che vidi ferme alla fonte traevano pronostici dall’aspetto delle stelle e le donne stavano sopra pensieri; tante erano e tante in quel limpido cielo le stelle che filavano o cadevano!…

Interrogai un vecchio dal viso piacente, cosa rara in questa popolazione tanto rozza, ed egli mi disse: “Nasci omu e nasci stidda” (nasce l’uomo e nasce la stella), poi aggiunse: e muore questa quando muore quello. Vedete, signor forestiere, ognuna di queste stelle cadenti è segno della morte d’un uomo, il quale spira in quello stesso momento che la stella fila. Noi certamente assistiamo, da lontano, ad una carneficina; si deve dare qualche gran battaglia, a quest’ora. Vedrete, lo sentiremo fra poco…
“E’ così, continuò sotto voce, come parlando fra se: ogni stella è un’anima e i milioni d’anime che vedete erranti nel cielo comunicano fra loro. Non hanno forse il linguaggio di luce, come i vascelli sul mare? Quando un dolore le affligge, si velano, tremolano, si direbbe quasi che piangano, mentre altre notti scintillano allegramente.
“Le stelle vegliano su noi, e, guardate, la casa mia è laggiù, non potete distinguerla in mezzo al buio, ma quella stella che vi brilla sopra la vedete bene: essa è l’anima d’un mio parente sparito per sempre.
“Sappiamo ancora che in ogni stella c’è un angelo, e perciò sono sì angileddi (angeliche); nondimeno non sono tutte buone; le avete vedute poco fa le stelle maligne, quelle che portano le cattive nuove o che annunziano le disgrazie future e, mirate, ce ne sono ancora che corrono per il cielo all’impazzata; non bisogna restare un pezzo sotto il loro influsso maligno”.
Mi allontanai, ed egli, secondo l’uso siciliano mi disse, “Bonanotti! servu di Voscenza”. Ed io risposi, secondo l’uso siciliano, “Vi lassu cu la santa paci”…
Quel buon uomo dalla faccia simpatica, aveva delle ciocche di capelli bianchi che gli venivano fuori dal berretto di lana, portato indietro e un po’ sulle orecchie, e gli svolazzavano sulle tempie, l’aria del viso rammentava qualche cosa degli antenati greci.
Lo ritrovai il giorno dopo, a tutto scoppio di sole; mi riconobbe e mi venne incontro; io lo avevo quasi dimenticato.
La notte era dolce ed io feci tardi sul balcone dell’albergo, addossato alla città.
La notte era dolce ed io feci tardi sul balcone dell’albergo, addossato alla città. Da quell’altezza mi pareva quasi di librarmi nello spazio; la luna splendeva nel cielo, ove qualche stella filava ancora. La pallida Diana rischiarava la immensa pianura, un poco in declivio, che si stendeva fino al mare, e nell’azzurro scuro di questo i suoi raggi cadevano come una minuta pioggia d’argento. Tutto il piano dormiva in un diafano mistero, e in lontananza, attraverso i pallidi ulivi e i neri carrubi, intravedevo, come in un sogno, i colonnati dei templi antichi.
Il paesaggio era grandioso. La considerevole estensione occupata già da Agrigento, che al tempo del proprio splendore contò fino a ottocentomila abitanti, si svolgeva sotto i miei occhi, e il velo notturno la rendeva ancora più vasta. Sulla costa oscura riluceva qualche solco capriccioso simile ad un ruscello di argento liquido. Erano i due fiumi che circondavano la gran città: l’Hypsas e l’Acragas.
Intravedevo un gran altipiano coperto dai resti del tempio dei Giganti, e poi tombe e tombe ancora, poiché qui, su questa riva ora silenziosa, Roma e Cartagine, ruggenti, si contesero accanitamente l’impero dell’antico mondo.
Sulla costa s’innalza il Campo romano, monticello isolato, dove i Romani piantarono l’accampamento, quando assediarono Agrigento; vi è pure il monte Toro che l’esercito cartaginese occupò, quando andò in aiuto della minacciata città. Sulla sinistra si stende una gran cresta arida è la Rupe Athenea, dove fu un tempio di Minerva, ora scomparso. A destra, tremolanti come le stelle, luccicavano i lumi di Porto Empedocle, l’antica Emporium Agrigentinorum.
Nella solitudine e nella calma profonda di quella notte serena, le grandi memorie del passato m’incantavano, non sapevo staccarmi di là.
Sotto di me, giù giù, nella spaziosa pianura, qualche lieve zeffiro mormorava ogni tanto, come un sussurrìo di ninfeee fra i rami degli alberi, mentre il canto soave dell’usignolo saliva a me nel silenzio della notte.
Oh! quel canto in quella luce siderea, sotto quel cielo d’argento, con quella pioggia di perle sul mare e quelle brezze tiepide che mi sfioravano come carezze!…
Poi tutto tacque, l’infinito s’addormentò, ma la luna continuò a salire lentamente nel cielo, versando sui flutti la sua brina luminosa.
Il silenzio! …ma ora che ascolto meglio la notte, capisco che non è silenzioso!…
Ho aperto le imposte: oh la bella cintura di colonne d’oro dei templi antichi
La natura ha come un leggero brivido, una leggera musicale armonia… tanto leggera che l’orecchio piuttosto che udirla la indovina. Forse è l’eco dei grilli sulla pianura o il lontano rumore del mare?…
Quando il sonno chiuse le mie palpebre, il canto dell’usignolo saliva ancora, a intervalli, dalla pianura, nella grande poesia della notte.
Ho passato la notte senza sognare… Le armonie che esalava la pianura sopivano il crepuscolo della sera, cullando ancora vagamente i primi albori mattutini. Ora sono più incerte e ondeggianti, pare che vengano da un mondo lontano, come i raggi delle stelle che prima di giungere a noi hanno viaggiato secoli e secoli nello spazio infinito.
Questo dormiveglia inconscio e dolce che non è il pieno possesso di se medesimi, e che non è più il sonno, si prova negli anni giovanili, ma raramente poi.
Un raggio di sole che tremola sull’imposta mi toglie da quel piacevole torpore. Quel sorridente sole, amico del viaggiatore, dona già dei riflessi rosei al cielo e alle creste dei monti vicini. E fra poco, alzandosi verso lo zenit, splenderà sul paesaggio d’Agrigento che la luna ha accarezzato nella notte con la sua luce blanda.
Ho aperto le imposte: oh la bella cintura di colonne d’oro dei templi antichi ch’io scorgo laggiù al sole, attraverso i boschi, dinanzi al mare!… Il mare azzurro, gli ulivi d’argento, i templi d’oro, che visione divina! E qual rara felicità, non è vero? poter contemplare al tempo stesso, strettamente unite, la natura e l’arte, questi due splendori immortali.
Eccomi ora errante per le vie scoscese della città originale, intravista jersera sotto le stelle. La strada principale dove sono le botteghe e qualche albergo, segue la curva del colle; questa sola ha rapporto con la linea orizzontale. Qui è il centro degli affari, ma la strada conserva ugualmente la sua impronta locale: vi passano i mulattieri, e i venditori d’arance fanno sentire ogni poco una specie di lamentevole cantilena per richiamare l’attenzione dei compratori.
santa maria dei greci agrigento
Poi non vi sono che vicoli tortuosi, stretti, quasi impraticabili e spesso s’incontrano delle scalinate che s’intrecciano, le quali conducono alla cima su cui s’innalza la cattedrale.
Prima però bisogna fermarsi un momento dinanzi un antico palazzo d’aspetto spagnolo, dalle muraglie corrose dal tempo, posto su una piazzetta; vi si ammirano le ringhiere dei balconi, in ferro battuto d’un gran carattere e di un lavoro bellissimo; ciò sorprende altamente in mezzo a quel vicinato di casupole.
A me piace questo labirinto di viuzze, le quali presentano ogni tanto, da qualche buco, un bel punto di vista sul mare, dalle prospettive luminose sulla pianura o dei lembi di cielo turchino. Tutto è pittoresco in questo quartiere, e la chiesa di Santa Maria dei Greci è degna di considerazione. E’ la più antica chiesa di Girgenti; fu costruita sulle rovine del tempio di Giove Polieus; due colonne del santuario pagano sono ancora incastrate nei muri interni e in una galleria bassa, con volta, si vedono dei gradini e dei plinti di colonne.
M’ero riservato di visitare, dopo mezzogiorno, i grandi templi della pianura. La gita è lunga; ci vogliono tre o quattro ore di carrozza contentandosi di vedere tutto superficialmente, perciò risolsi di consacrarvi tutte le ore pomeridiane.
Scendiamo una strada, fiancheggiata di cactus e di aloe, attraverso gli uliveti; i fiori d’oro, di porpora e d’azzurro, che abbiamo intorno, spiccano allegramente in mezzo alla bionda messe. Partendo dall’alta acropoli seguiamo sempre la cinta dell’antica città. Il pendio della strada è formato da frantumi di vasellami, scorie, filari di pietre e massi sparsi qua e là, ed anche qualche tronco di colonna dorme nella polvere; tutto ciò fa pensare! la natura s’è nuovamente impadronita di quell’antico sepolcro d’un popolo e fiorisce sulla terra cruenta e stilla profumi nelle cenerei dei morti. Che cosa importa a lei dei monumenti dell’arte, dei dolori e delle lotte umane, non vive e ringiovanisce eternamente?

Il fiore verginale si schiude sulla polvere delle tombe e sorride al cielo azzurro; le tenere erbette si dondolano graziosamente al soffio degli zeffiri; gli uccelli gorgheggiano e il fantasticare eterno delle cose continua eternamente sotto la luce del sole:
La terre maternelle et douce aux anciens dieux / Fait à chaque printemps, vainement éloquente, / Au chapiteau brisé verdir une autre acante… /
(traduz.: La terra, agli antichi Dei dolce e materna, / eloquente invano, fa ogni primavera / rinverdire presso il capitello spezzato un altro accanto)
Eccoci giunti alla chiesa di San Niccolò; dei poverelli che seguivano il mio legno correndo, m’offrono medaglie d’Agrigento dissotterrate dal vomero o dalla vanga; ma sono di poca importanza. E’ molto tempo che questa terra è frugata e che queste necropoli sono violate, e se il caso fa scoprire ancora qualche moneta rara, essa è destinata a tutt’altri che al viaggiatore.
Ci viene incontro una donna; certamente è la custode della chiesa, che io devo visitare. Mentre traversiamo il giardino lì presso, questa prende dei fiori e me li offre; è usanza gentile; della Sicilia; anche nei luoghi più remoti vi accoglie spesso un sorriso e una manata di fiori. Quella donna sosteneva discretamente bene la sua parte di cicerone, serbandomi le sorprese di certe aperture, traverso le quali apparivano i templi, il mare o la città, tutta scintillante dei raggi che rifrangono sull’antica acropoli.
Ma tutt’un tratto la brava donna si fermò cacciando un urlo. Me le accostai subito; ella guardava fissamente con terrore il suolo ove io non scorgevo altro che un rospo disseccato: ” Oh che disgrazia! diceva lei, che gran disgrazia!…
– Ma non è altro che un rospo, buona donna, le dicevo io, non abbiate paura; del resto poi la bestia è morta.
– Comu è vera Maria santissima! esclamò, questo incontro non fa prevedere altro che un gran pericolo per me.
Restò un momento pensierosa, poi mi lasciò improvvisamente con un saluto breve e asciutto, come se io avessi avuto, in certo modo, colpa di quell’incontro che essa considerava pericoloso per se.

Questo fatto non doveva sorprendermi perché i campagnuoli siciliani hanno un religioso rispetto per il rospo, buffa, come lo chiamano loro; sono convinti che queste bestie racchiudono l’anima dei defunti condannati dalla giustizia divina a espiare così i propri peccati. Tale credenza è certamente un resto di metempsicosi; però la vista di un rospo morto è di cattivo augurio e allora al rispetto subentra il terrore. La vita dei rospi è in tal modo utilmente protetta; i campagnoli dicono che chi ne ammazza uno resterà bersaglio alle più grandi sciagure per il corso di sette anni.
Continuando lentamente la mia passeggiata nel giardino solitario giunsi davanti ad una costruzione romana, che la custode mi aveva indicata da lontano col nome di cappella di Falaride. Questo monumento diventò un oratorio sotto i Normanni che aprirono due porte ogivali sulle antiche muraglie; mi dette poi nell’occhio, lì vicino, la bianchezza marmorea d’un cornicione di forma circolare e d’ordine corinzio. Che cosa fosse quel monumento in passato non si sa; oggi circonda una conserva d’acqua.
La vista che si gode dagli orli, benché poco elevati, della conserva è superba; i templi antichi lasciano intravedere le loro colonne attraverso gli aranceti e più in là si stende l’azzurro mare infinito. Restai lì un pezzo, oppresso dal caldo, con gli sguardi smarriti nel fogliame che tremolava e cangiava colore al soffio irregolare della brezza marina, risalendo col pensiero errante al corso delle età remote.
Non vedevo più, nel mio sogno, dei campi di rovine intorno a me, ma l’antico splendore dei santuari che dominavano una grande città, la cui magnificenza sbalordì l’antico mondo.
Suonò, su in alto, la campana della Cattedrale, e qualche belato di gregge salì dalla pianura, mentre stormi di colombi volteggiavano su cielo turchino, come bianchi petali di fiori trasportati dal vento. Quell’associazione della poesia del presente con la rievocazione del passato, fu il sogno d’un istante. La realtà mi riafferrò tosto e, stornando gli occhi da quell’incanto, rividi Girgenti posta su quella cima sterile, con le vie polverose e povere, e con la sua rozza popolazione.
L’antica Agrigento è ben morta, il rantolo del suo giorno estremo fu soffocato dai secoli e il letto di questi fiumi che straripavano onde cruente, è ora inaridito. Presentemente il vomero dell’aratro sminuzza intorno ai templi ruinati gli ultimi frammenti delle antiche statue, facendo scintillare al sole, di quando in quando, e fra la polvere, delle medaglie d’oro con l’effigie dei proconsoli; raggi effimeri di una gloria passata!
Una grave tristezza incombe su questa costa dal monte Erice a Siracusa.
la campagna agrigentina di gaston vuiller
Ma perché sognare ancora, perché questa evocazione d’un passato ormai tanto lontano? I popoli, come gli uomini, subiscono il loro destino e i secoli non contano nulla nell’eternità delle cose.
Trovai subito la vettura che m’aspettava davanti la porta della Chiesa di San Nicolò e giunsi presto al tempio della Concordia, il monumento antico meglio conservato che si trovi in Sicilia, sul continente italiano e in Grecia.
Gli architetti che lo idearono, si preoccuparono molto della posizione e della bella grazia dell’edifizio, nel che erano maestri. Il tempio è situato sopra un’altura e da al paesaggio un carattere superbo profilando sul cielo i suoi colonnati d’una bella tinta calda. Esso domina selve d’ulivi, di messi e infine il mare. L’iscrizione seguente incisa sopra una pietra incastrata in un muro della città di Girgenti gli ha dato il nome:
Concordia agrigentinorum sacrum / respublica lilybetanotum / dedicantibus M. Atterio / candido procons / et L. Cornelio Marcello a. PR.PR. /
L’origine del tempio della Concordia è molto anteriore a questa iscrizione. Dopo la guerra punica, fu certamente restaurato poiché, secondo Diodoro, tutti i templi d’Agrigento erano stati arsi e distrutti in quel tempo.
L’edificio, esastilo e periptero, posa su sei scalini e le sue proporzioni sono d’una semplicità mirabile. Misura metri 19,68 di lunghezza, e 12 di larghezza. E’ contornato da trentaquattro colonne scannellate senza plinto, d’ordine dorico. I pietrami sono sovrapposti senza cemento e le commettiture sono accomodate con tanta precisione, da essere visibili appena.
Nel medioevo questo tempio fu trasformato in una chiesa dedicata a San Gregorio delle Rape e a ciò dobbiamo l’essersi conservato.
Il tempio della Concordia è meno grande del Partenone, ma l’essere isolato lo fa parere più grande di quello che è. E nonostante la bellezza e lo splendido colore delle rovine, un non so che di triste pesa su queste piagge deserte; non vi si ode che l’eterno sibilo del vento sui ciottoli, né altro si vede che il perpetuo e malinconico barcolamento delle onde vicine; l’occhio si smarrisce nell’immensità dello spazio e il sole ardente scaglia ognora i suoi dardi infuocati sulla pietra impassibile.
Abbiamo seguito la cresta d’una collina, andando lungo le antiche mura che difendevano la città al sud. Terone impiegò alla loro costruzione i Cartaginesi fatti prigionieri alla battaglia d’Imera, e per uno strano ricorso delle cose, i discendenti di questi dovevano rovesciarle un secolo dopo.
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