L’aria è già calda alle dieci quando si esce di casa per una passeggiata mattutina.
La Vanedda Sferri è silenziosa nel giorno di festa, le botteghe chiuse anche quella di frutta e verdura e quella del bucceri tignusu, il macellaio sul cui banco fanno di solito brutta vista pessimi tagli di carne vaccina e le sosizze aromatizzate con i semi di finocchio vendute a due prezzi: più economiche se pi’ darre’, già pronte sul banco di marmo, più care se fatte pi’ davanti sotto l’occhio vigile del compratore.
Solo all’inizio della vanedda si ode uno sferragliare e un acciottolio di vetri: è la piccola fabbrica di gazzose che lavora a pieno ritmo a riempire le bottigliette poligonali, verdastre del liquido acidulo da chiudere con il tappo a pallina e la guarnizione di gomma rosa.
Ecco piazza Municipio, anch’essa vuota e silenziosa. L’unico caffè-pasticceria non ha ancora clienti. Più sopra improvvisamente si apre u’chianu S.Giuseppe che invece brulica di uomini di tutte le età che parlano tra loro a voce bassa in piccoli capannelli che si formano e si sciolgono continuamente.
E’ una indistinta massa marrone quella che gli uomini formano: sono tutti vestiti di velluto marrone a larghe coste, giacche e calzoni quasi sempre consunti e sformati e portano tutti la coppola, marrone anch’essa o nera, a coprire parzialmente i volti abbrustoliti dal sole , quasi indistinguibili dal vestito. I colli rugosi sono solcati sul retro da profonde incisioni a losanga, frutto di ore e ore di lavoro nei campi, curvi a zappare, sarchiare, diserbare, mietere sotto il sole africano. Ai piedi grossi scarponi imbullettati che risuonano sulle balate di lava della strada.
Sono i viddani che la domenica lasciati i campi e le case, sono venuti per incontrare amici e conoscenti, scambiare opinioni, parlare finalmente, dopo una settimana di silenzio in campagna, fare piccoli affari, curare la propria persona. Ecco infatti i più giovani entrare nella farmacia della piazza, accostarsi al bancone dove con un nichelino è possibile spillare dal distributore sulle proprie mani poche gocce di Oglio Venus con cui ungere e profumare i capelli irsuti. Poco più in là il negozio di barbiere fa il pieno: i viddani non hanno rasoio o non hanno tempo durante la settimana e la domenica è il giorno della barba.
Siedono compunti sulla poltrona del barbiere che ai più anziani (già a cinquanta anni a molti di loro rimangono in bocca solo pochi denti giallastri) chiede se vogliono la rasatura “cu u pumiddu ca si mangia” perché per radere a puntino le guance flosce è necessario riempirle con le piccole verdi acidule melette di S.Giovanni. Solo alcuni si possono permettere questo lusso, gli altri si contentano di riusare le melette già state in bocca di altri.
Non c’è rabbia nei loro volti, anzi l’occasione della passeggiata domenicale, rallentarsi della fatica, l’aspettativa della Messa dove incontreranno le loro donne o potranno occhieggiare alle ragazze da marito, le schette, anche se uomini e donne in chiesa siedono su file diverse e le donne hanno tutte il capo coperto.
Siedono in chiesa, chi può, perché la seggia si paga, sulle sedie impagliate, gli uni alla destra le altre alla sinistra dell’altare. Ascoltano in silenzio la Messa in latino, si alzano e si siedono quando richiesto; gli uomini non si inginocchiano. Alla Comunione pochi, quasi solo donne, ricevono l’ostia. All’ite missa est sciamano di nuovo al sole; occhiate furtive tra i due sessi, poi le donne di nuovo rapidamente a casa. Gli uomini si trattengono ancora un po’; intanto si sono uniti a loro anche i burgisi e pochi borghesi alcuni di loro figli arrinisciuti di viddani. C’è il tempo per qualche ultimo commento sui fatti della settimana, su persone recentemente scomparse, su piccoli scandali e pettegolezzi, poi tutti a casa.
Alessandro Finazzi Agrò
https://www.spreaker.com/episode/42340781
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