Dal 1831 al 1854 tre epidemie di colera sconvolsero la provincia agrigentina. Un male sconosciuto nelle sue cause e dinanzi a cui gli unici efficaci rimedi sembrarono in quegli anni il cordone sanitario, marittimo e interno (con cui ogni città si proteggeva, impedendo l’ingresso a persone e cose provenienti dalle zone già contagiate) e i lazzaretti, in cui venivano messi in quarantena i casi sospetti e i malati.
L’epidemia del 1854 ebbe origine a quanto pare durante la guerra di Crimea (ma altri dicono in India) e si diffuse presto anche in Italia.
In provincia di Agrigento colpì soprattutto la città di Licata, che in quell’anno contava 14119 abitanti.
Il primo caso si registrò a Licata il 26 ottobre e l’ultimo il 13 dicembre.
Grazie ai numerosi documenti, conservati nell’archivio di Stato di Agrigento(inventario 4 fascicoli 502-507), siamo in grado di ricostruire come si viveva e si moriva a Licata in quei due terribili mesi. Molte le testimonianza di medici, amministratori e cittadini su ciò che accade in quei due mesi a Licata.
“Alla dichiarazione del colera ognuno rabbrividì, all’idea di questo mostro, il vero Proteo della favola, che colla celerità del fulmine spopola interamente città – scrisse il dr. Gaetano Giganti di Licata – la gente fugge pavida e smarrita”.

“Trovandomi nella carica di secondo eletto – scriveva infatti l’amministratore Giuseppe Sapio, secondo eletto, l’undici novembre 1854, all’Intendente borbonico della provincia di Girgenti, Salvatore Vanasco – sento il dovere far presente a Lei. Signore, lo stato affliggente del mio paese travagliato da fatal morbo asiatico (il colera) che pare non volesse cessare anco per mancanza di soccorsi… Siamo qui con un sol medico il dottor Giganti, e Dio non voglia che non venisse meno, come fu pel dottor Bucceri ammalatosi.
Il dottor Milano non assiste perché Sindaco e non fa il Sindaco perché medico. I continui reclami di tanta povera gente che desidera la visita di un medico straziano maggiormente l’anima per non poterli consentare. Si muore come a cani. I cadaveri non si vogliono far uscire dalle case di notte, ma si vuole aspettare il giorno per farsi lo stato civile, e ne avviene che la povera gente che sta una notte intera in un’unica stanza col cadavere, e l’indomani si attacca di morbo il parente. Nel nuovo camposanto si seppelliscono quasi sopraterra di modo che i cani si possono saziare di carne umana”.
Mancarono quindi fin dall’inizio le forze necessarie. In paese, nel primo mese dell’epidemia, il medico condotto, il dr. Bucceri, a causa di una grave reumatologia non fu in grado in quei giorni di uscire da casa per assistere i contagiati. A Licata operavano pertanto solo due medici, il dr. Gaetano Giganti e il dr. Vincenzo Milana, che però era anche il Capo Urbano (il Sindaco) di Licata e, quindi, doveva anche svolgere in quei giorni importanti incarichi amministrativi, tra cui l’organizzazione del cordone sanitario e del lazzaretto. Ma di questi due dottori si dice in un dispaccio del 3 novembre 1854 che “ignorano il morbo che debbono combattere perché giovani e privi di prattica”. Un altro medico chirurgo, il dr. Antonino Bosio, venne accusato di aver abbandonato la città e di essersi rifugiato in campagna per assistere i suoi familiari, dimenticando però i suoi doveri.
Non tornava neppure quando il suo intervento era richiesto in modo urgente per assistere le puerpere e per i parti cesarei. Quando l’epidemia cessò venne svolta un’inchiesta e il dr. Bosio fu sospeso dal servizio e allontanato da Licata. Venne sostituito dal chirurgo dr. Antonino Cipriano, che ricevette invece l’encomio della deputazione sanitaria locale.
Poi, finalmente, su insistenza dell’intendenza di Girgenti e del Real segretario di Stato, Maniscalco, che seguì la vicenda giorno per giorno, arrivarono da Palma di Montechiaro il professor Lombardo e soprattutto i fratelli dr. Angelo e dr. Vincenzo Sesta da Serradifalco. Altri sanitari della provincia agrigentina si aggiunsero man mano che la tragedia si manifestava in modo sempre più evidente.
Però il loro numero rimaneva insufficiente e infatti , “taluni degli infelici attaccati (dal morbo) non hanno potuto avere medico – leggiamo in un altro documento. E quanti chiamavano un medico privato non ottenevano una pronta assistenza perché ” da qualcheduno si richiedeva un pagamento anticipato “.
Il cordone sanitario, sia quello attorno alla città che quello marittimo, venne istallato con un certo ritardo perché il sindaco ( che era anche medico) ravvisò nei primi casi sospetti di colera
Già ai primi di novembre di registrarono difficoltà in città per l’approvvigionamento dei beni di consumo fondamentali. Nei primi giorni di novembre mancò il pane.
Nei documenti del tempo si elogia invece l’impegno dei sacerdoti. Viene ricordato in particolare l’arcidiacono don Giacomo Urso , che ” con premura, solerzia e zelo, non badando ai mali che ci travagliano – scrive un testimone all’Intendente- tutto è dedito al suo sacro ministero”.
In nessun altro comune della provincia di Agrigento si ebbero così tanti morti come a Licata nell’epidemia del 1854-55. Lo stesso Giuseppe Picone nella sua opera Memorie storiche agrigentine ricorda che quell’epidemia a Girgenti arrivò, ma non attecchì. Alcuni casi si ebbero soprattutto a Ribera e Caltabellotta. E anche l’Intendente rassicurava il sovrintentende generale di salute pubblica della Sicilia che in tutta la provincia si registravano pochi casi. Ma quando doveva riferire quanto accadeva a Licata, sottolineava invece che lì ” il colera imperversa e che di quanti ne vengono attaccati assai pochi guariscono”.

Dai documenti conservati presso l’archivio di stato di Agrigento risulta comunque anche che la commissione sanitaria di Licata si decise molto tardi ad ammettere la diffusione del morbo. Scriveva, infatti, l’intendente Vanisco che la commissione sanitaria di Licata solo il 4 novembre inviò un rapporto dettagliato sull’epidemia, “dopo avere vagato, per più giorni in effimeri malintesi dettagli, per mantenere sotto un velo (n.d.r. cioè per coprire) la invasione di un morbo esiziale. Per avidità di guadagno si è avuta più anco la imprudenza di elevare a me dei dubbi se era il caso, o pur no, di ammettere a pratica le provenienze da luoghi infetti (n.d.r. se bloccare cioè i commerci con Licata), o sospetti di colera “. Il cordone sanitario quindi venne avviato con qualche grave ritardo. Quello marittimo poi si rilevò inefficace.
Dopo il primo caso, decine e decine di famiglie si diedero alla fuga, per mare e per terra. La commissione sanitaria di Palma di Montechiaro si allarmò perché già nei primi di novembre molte famiglie licatesi ” si sono stanziate nelle campagne di questo comune e di Campobello di Licata”, mentre nella marina di Palma “si avevano attraccato diversi pescherecci provenienti dal porto di Licata”. Si temeva che avrebbero diffuso il contagio anche nei paesi limitrofi.
Chi restava in città, poi, per ignoranza, aggravava la propria condizione. Con un dettagliata nota il Comando urbano di Licata il 3 dicembre accusava ” la bassa gente” di non aver cura sul principio in cui si manifestava il morbo a chiamare gli agenti dell’arte (n.d.r. i medici) ” e così, molto facilmente ” vanno a morire”, perché il medico arriva troppo tardi. Anche se ben poco potevano fare allora i medici, giacché solo nel 1883 lo scienziato tedesco Robert Koch isolò l’agente patogeno, il vibrio cholerae, e riconobbe la malattia come una specifica infezione gastrointestinale; si aprì così la possibilità di una profilassi, realizzata a New York nel 1887. La messa a punto di un vaccino da parte dell’Istituto Pasteur nel 1892 e i diversi mezzi di prevenzione impedirono alla sesta epidemia (1899-1923) di diffondersi drammaticamente in Europa.
Tuttavia nel 1854 era abbastanza chiaro che allontanarsi dai luoghi contagiati e migliorare le condizioni igieniche erano provvedimenti salutari.
A Licata pertanto, i cittadini protestarono ritenendo che tra le cause del colera vi fossero alcune paludi dove ristagnava acqua putrida e che questa ammorbasse l’aria e diffondesse il “veleno” (il colera). Venne dato pertanto incarico dalla commissione sanitaria ad alcuni capi mastri di prosciugare le paludi, ma questi, col chiaro intento di speculare sulla faccenda, pretesero ben seimila ducati. Una cifra spropositata.
Una svolta nella cura e nella vita della città si registrò in particolare quando a Licata giunsero i fratelli dottori Vincenzo e Angelo Sesta di Serradifalco. S’insediarono il 14 novembre e rimasero in città fino alla fine dell’epidemia. In quei giorni ” si diedero con estremo ardore a visitare gli infelici sofferenti…infondendo a tutti il più possibile coraggio…e fu tanta e tale la fiducia che i Sesta si accattivarono che…dal cupo silenzio e dal tetro lutto si passò allo schiamazzo e al brio “, si sostiene in un documento.
I due fratelli intervennero contro i pregiudizi e contro i rimedi inutili, prescrissero farmaci più efficaci e soprattutto diedero ottimi consigli sull’igiene. Raccomandarono la pulizia delle case e delle strade, di non mangiare frutta acerba e guasta, di seppellire i morti fuori città, di non organizzare cerimonie religiose e altre adunanze che mettevano i sani a contatto con i malati. Il primo febbraio 1855, Maniscalco, si congratulò a nome del Luogotenente Generale del Regno delle due Sicilie con i due fratelli per “l’opera loro intelligente e virtuosa”.
Finalmente, l’undici dicembre si registrò l’ultimo morto per colera e la commissione sanitaria poté, con sollievo, comunicare all’Intendente di Girgenti che l’epidemia era cessata. In due mesi si registrarono a Licata 437 casi di colera, per 263 malati l’epidemia fu fatale, 125 i maschi deceduti e 138 le donne.
Elio Di Bella