
Agrigento e la luna
25 ottobre 1939.
Agrigento. Siamo giunti ai templi la mattina verso le nove. Faceva caldo come a Roma in pieno giugno. Quando ero venuto anni fa ad Agrigento, fiorivano i mandorli e i nove grandi templi dorici, d’un tufo colore di ruggine, sorgevano in fila sopra lo scrimolo della collina fuori da quelle nuvolette dei mandorli, rosee e odorose, come giganti adusti fuori dalle spume sacre a Venere Anadiomène : un bel contrasto romantico, da cartolina tedesca a colori. Goethe infatti, sia detto con reverenza, descrive Agrigento così. Il cielo era anche allora limpido e azzurro, ma oggi l’autunno lo fa più tenero e lontano.
A guardarlo dove tocca il mare, impallidisce. I mandorli hanno più poche foglie. Gli ulivi, i vecchi ulivi, dai tronchi color di pomice, contorti gozzuti rugosi, sono rimasti i padroni di queste pendici. In mezzo a un campo una capra bianca è legata alla punta d’una roccia e quando ci vede fermi sulla strada viene verso noi finché la orda glielo permette, e a collo teso bela tanto fioca e supplichevole che pare la cavezza la strangoli.
Siamo in parecchi. Mussolini, per sistemare questa zona sacra dei templi, ha dato mezzo milione di lire, e ora sulla strada, ora in un campo, ora all’ombra dentro il colonnato d’un tempio, ora al sole in circolo seduti sopra i massi caduti da un frontone o da un architrave, discutiamo sul modo di spenderle, così che ogni lira giovi. Gl’ingegneri e i soprastanti stendono sui pietroni carte e progetti. Alla nostra destra di là dalla valle la città nuova e chiara s’allunga sopra l’altra collina che sembra parallela a questa. Alla sinistra, in fondo a un’altra valle più larga e adagiata, scorre il fiumicello che i greci chiamavano Akragas e che ha dato il nome alla città.
Le mosche, intorpidite dal caldo, ronzano in cerchio e, se le scacci, tornano e riprendono ostinate il medesimo giro. Mosche nuove ogni estate, ma il giro, il ronzìo, il fastidio sono identici a quelli di allora quando, venticinque o ventiquattro secoli fa, questi templi furono alzati, dopo la vittoria a Himera, dei siracusani e degli agrigentini sui cartaginesi, nel 482. Furono alzati in meno di cento anni come se gli agrigentini, presentendo la brevità della loro fortuna e ricchezza, volessero affermare davanti alla divinità la loro volontà di grandezza e di durata.
ugo ojettiE invece un antico ha scritto di loro che costruivano templi e monumenti come se non dovessero morire mai e si godevano la vita come se dovessero morire il giorno dopo. I due fatti sono inconciliabili? Coi monumenti chi dura non è il gaudente Tizio o l’austero Caio: è la patria.
Questo tempio detto della Concordia, dove ci siamo raccolti, ha tredici colonne sul lato più lungo ed è il più intatto perché diventò una chiesa cristiana, dedicata ai santi Pietro e Paolo. Costruito circa quattrocentocinquant’ anni prima di Cristo, Cristo l’ha salvato. In esso l’arte del costruire era divenuta fissa come una metrica, e le sillabe lunghe sono colonne. L’intercolunnio centrale, tanto sul lato breve che su quello lungo, è di tre metri e venti; poi diventa di tre e dieci; agli estremi, verso l’angolo, le colonne si fanno più folte ché portano sul capitello un peso maggiore, e perciò distano soltanto tre metri. E’ un piacere guardando questi colonnati e questi calcoli pensare che oggi i poeti più arditi, cioè col polso più saldo, tornano, fuori della licenza in voga, all’endecasillabo, a malore e a minore, felici di ritrovare una cadenza e una regola.
Maledette mosche, ronzanti, assonnate e stizzose, dentro quest’aria tepida e immobile. Eppure sono i soli esseri viventi rimasti simili a quelli d’allora. Vi sono, è vero, gli ulivi, ma non si muovono. Col loro pallore, tra nube e luna, accompagnano bene l’agonia e le rovine dei templi. La morte d’un tempio è uno spettacolo pietoso e crudele. La divinità cui il tempio era consacrato, che aveva lì il suo altare, il suo corpo e la sua casa, che migliaia e migliaia di fedeli avevano per centinaia e migliaia d’anni lì dentro invocata, tra fiori e incensi col coro d’un inno o col mormorio d’una preghiera, lo abbandona? E’ segno che muore anch’ essa e s’inabissa. Di molti di questi templi non si sa più nemmeno il nome del Dio al quale erano dedicati. Ercole? Giunone? Giove? I Dioscuri? Demetra? Perséfone? Qualche archeologo ha finito a chiamare questi anonimi con le lettere dell’alfabeto : tempio C, tempio D, tempio E, ed è stato l’ultimo addio alla vita, al ricordo della vita. I templi non sono più che pietra, colme di terra. Dentro le scanalature delle colonne vedo tracce di un intonaco bianco, duro quanto uno smalto.
Duemila anni fa era dipinto di colori smaglianti, rosso giallo turchino, e sul tetto i tegoloni di marmo erano anche dipinti e abbagliavano. Prima di finir di morire i santuari lasciarono lentamente cadere queste vesti fiori te. Poi caddero i tetti e fu come quando un agonizzante spalanca le braccia perché il cielo veda tutta la miseria dell’abbandono.
Quando nel 406 i Cartaginesi, abbattute Himera e Selinunte e conquistata anche Agrigento che Pindaro aveva chiamata la più bella città del mondo, abbatterono anche taluni di questi templi? Certo è che i Romani, quando tolsero la città ai Cartaginesi, la trovarono spenta. Vi costruirono belle case e tombe massicce e squadrate e restaurarono qualche tempio, certo quelli detti ancora di Giunone e di Ercole. Poi le aquile condussero più lontano gli eserciti e la gloria, e Agrigento ricominciò tra i suoi ulivi color di cenere a morire. Ho veduto nel museo di Napoli una moneta d’Agrigento che davanti reca, col nome della città, un’aquila e nel rovescio un granchio. La sorte s’era voltata : il granchio era diventato il padrone. Ancora alla fine del secolo, scorso, per costruire il molo di Porto Empedocle, che è il porto d’Agrigento, si saccheggiarono senza vergogna queste rovine.
Torniamo tra i templi nel pomeriggio, e nel tempio più vasto, l’Olìmpieion, dedicato a Giove Olimpio. Come vastità, solo altri due nel mondo antico possono stargli a fronte, ché il basamento occupa quasi settemila metri quadrati e Diodoro siculo che pur visse ai tempi di Cesare, si meravigliava di quanto ardore gli uomini che costruirono l’Olimpieion amassero la grandezza.
Sul muro che cingeva il rettangolo del tempio erano inserite a distanze eguali mezze colonne e tra una colonna e l’altra giganti alti otto metri, ritti in piedi sopra una mensola, sostenevano sulle mani e gli avambracci il fregio e la cornice colossali. Uno ve n’è ricomposto alla meglio, giacente sull’erba, corroso dal sole, dall’acqua, dal vento, che con le braccia così raccolte dietro il capo, sembra non colpito e caduto, ma beato finalmente di riposare, la faccia volta al cielo nella frescura del tramonto. A pochi passi di distanza, rassomiglia a quei profili di rupi e di monti che nelle leggende popolari ricordano il profilo d’un eroe o d’un poeta, opere non dell’uomo ma della natura o del caso.
Intorno al tempio, al luogo cioè del culto, erano secondo l’uso ellenico i tanti santuari, altari, portici, denarii o tesori con le offerte dei fedeli. Su questo campo smisurato di conci riquadrati, di rocchi di colonne, di cornici e di métopi schiantale, di capitelli grandi come cupole, di triglifi dai solchi fondi come vomeri, gli archeologi hanno creduto di risolvere qualche parte del gigantesco rompicapo dove ogni pezzo da ritrovare e da riconnettere pesa quintali, e hanno fatto miracoli d’ipotesi e di fatica. Veramente tra questo pietrame nudo e angoloso si sente ancora viva e tangibile la legge della virile arte dorica, tutta astrazione, forza, peso e geometria.
Ecco, sono giunto davanti a due grandi circoli concentrici di pietre ben tagliate e arrotondate come la sponda d’un pozzo, ma i due circoli stanno a raso terra. Dal più interno si parte come una raggera d’altre pietre triangolari, e nel centro è una buca poco profonda. Questo è un altare alle divinità sotterranee; prime Demetra e Perséfone. Ricordate la storia di Demetra sposa di Giove e madre di Perséfone ? E la storia di Perséfone che un giorno nel bosco, chinatasi a cogliere un narciso, vede spalancarsi la terra e uscirne Ade il quale se la porta nell’inferno e se la sposa? Cento poeti, da Omero in giù, l’hanno cantata.
Per nove giorni e nove notti Demetra disperata corre terre e mari in cerca della figlia urlandone il nome. La terra isterilita non dà più né foglie né frutti. Giove deve scendere a patti. Perséfone, ormai regina dei morti e degl’inferi, potrà tornare ogni anno sopra la terra a vivere con la dolce madre, dal primo giorno della primavera all’ultimo dell’autunno. E Demetra si placa, e resta per tutta l’antichità la dea delle messi e dell’agricoltura, prima col volto pensoso e un velo sul capo, poi coronata di spighe e florida e clemente. La bella Perséfone è dai romani chiamata Prosérpina.
Questi altari bassi e rotondi, sacri a Demetra e a Perséfone, si trovano ancora in molti santuari della Grecia e delle colonie greche.
E la buca nel centro rammentava il precipizio che s’apri sotto i rosei piedi di Perséfone quando Ade sorse a rapirla, ed era la via per cui noi vivi si poteva pregando comunicare cogl’inferi e coi nostri morti.
E’ caduta, mentre guardo e tocco, la luce del sole, sono scomparse le ombre, quasi che i nostri corpi non abbiano più peso, e la luna gialla domina il cielo diafano.
I miei compagni sono andati innanzi, verso le vetture. S’è levato un fiato di vento, ma leggero come un sospiro, e le fronde degli ulivi restano immobili. Accanto alla luna s’accende una stella candidissima e pare che brilli più e meno, come un faro. Appena giungo alla strada maestra, mi passa davanti sopra un asinello una vecchia ammantata di nero e mi saluta alzando la mano, senza guardarmi. La luce della luna è tanto forte che scorgo sulla strada bianca l’ombra pallida dell’asinello, e mi volto a cercare l’ombra mia
Tantalo
Pseudonimo usato da Ugo Ojetti per la sua rubrica sul Corriere della sera Cose Viste Cose viste, poi raccolte in sette tomi, 1923-39, e quindi, col suo nome, in un’ed. postuma in 2 voll., 1951
Questo articolo è apparso sul Corriere della sera il 16 dicembre 1939