Con i Peregrini nella valle dei Templi di Agrigento
Ancora una gita ad Agrigento, in questo maggio odoroso, Rivedere un angolo di paradiso, qual’è Agrigento, riesce sempre gradito, e parecchio bisogna pure aggiornare.
E per prima cosa dico che non scenderemo dal treno alla stazione bassa, per salire con le auto a la collina, su la quale si adagia la città moderna. Ci lasceremo dietro la vallata di tramontana, che ha un suo fascino di desolazione, per l’arsiccio delle zolfare e il bianco de le argille e delle cave di gesso, ma senza attrattiva per chi si reca, pellegrino d’amore, a un convegno di bellezza. Andremo oltre con il treno, gireremo a mezzogiorno, salendo piano la collina di trecento metri fino alle mura e alle torri abbattute della vecchia cerchia chiaramontana della città, che si affaccia sulla pittoresca valle dei templi, sorrisa dall’incanto di un cielo azzurro e digradante verso il mare, immensa fascia lontana dai toni soavissimi.
Chi arriva alla nuova stazione, guardando dal finestrino, si riempie gli occhi e l’anima di una visione inobliabile, creata come di proposito per la gioia dello spirito.
Dorico il paesaggio, dorica l’aria stessa che si respira: il mondo greco, nel suo fascino irresistibile, ha un linguaggio arcano.
Scendiamo ne la valle per lo stradale che segue la base della rupe Atenea, tra campi rosseggianti di erba sulla e verdi di grano. Una parentesi per una mia piccola vanità: l’immagine della Madonna col Bambino, dinanzi alla quale arde sempre una lampada, in questo tabernacolo di contrada Colleverde, di fronte al Grande Albergo dei Templi, è stata dipinta da mio padre. Da questo punto ha principio la passeggiata archeologica, la visita ai resti della città che fu l’Akragas dei Greci, l’Agrigentum dei Romani, fondata, secondo il mito, da Dedalo e, secondo una leggenda, non priva di valore storico, da coloni di Gela, condotti da Aristoneo e Pistillo.
Sulla cima più alta della collina, a forma d’un clipeo, una piccola costruzione, scoperta da Salvatore Bonfiglio: le basi di un tempietto o di una tomba con un sotterraneo, che io ho visitato. Ma sulla punta estrema di essa, ad oriente, son le rovine del tempio di Demetra, con due are arcaiche accanto, e un giovane boschetto di cipressi; sul suo stilobate sorge la chiesa medievale di S. Biagio, che fu un sepolcreto durante il colera del 1867. Di lì, per una stradicciola intagliata nel tufo, si riesce nel versante opposto, dove sono in corso scavi importanti.
Una forte costruzione addossata alla roccia, alcune vasche di grandezza naturale, due grotte, da una delle quali sgorga un’acqua deliziosa, quella stessa che, per altra diramazione, piglia il nome arabo di Bonamorone e gorgoglia tra alberi verdissimi. S’è dinanzi a un santuario di Demetra molto antico.
Città di Persefone era Agrigento; per tale Pindaro la esalta nell’ode a Mida, vincitore col flauto. E Demetra e Persefone dovettero avervi un culto assai esteso ed esser le divinità anche de le sorgenti, oltre che delle biade.
Che folate di poesia !
Avvocato Cusenza, sagace organizzatore delle gite dei Peregrini, vuol gustare quest’acqua ?
E’ mite.
lo l’ho cantata in un mio libro: Nica, e l’amico mio Longo nelle sue Elegie agrigentine. Ma quante altre cose di Agrigento non ha egli celebrate ! Il tempio di Demetra, per esempio, in alto, con una rossa visione lontana di giardini di granati in fiore. E non ha visto la triplice muraglia che dalla
base della collina corre fino a saldarsi col rialzo, dove si stende il cimitero, la piazzola per i soldati di guardia e la conduttura che digrada a la vallata pietrosa, coperta di giummarre. Da quel punto dovette salire l’assalto Cartaginese, quando la città fiammeggiò, nella tragica notte della distruzione, come un immenso rogo.
Su una targa di marmo sono scolpiti i versi di Virgilio:
Arduus inde Akragas ostentat maxima longe moenia
Non queste mura, però, dovette vedere Enea, veleggiando il Mediterraneo, sibbene quelle di mezzogiorno che guardano il mare, quelle che segnano la linea dell’altopiano agrigentino, sul cui orlo si stagliano, superbi, i templi che inghirlandavano la città e che ammireremo, riprendendo la strada per cui vi si accede e che fu una via consolare.
Ecco ai margini, visibilissima, la pavimentazione di mattonelle accostate di taglio, le basi di costruzioni a conci bene squadrati, gli avanzi di quella che il popolo chiama la Casa greca, col pavimento a mosaico.
All’ombra dei mandorli, tra i fiori e le coltivazioni di frumento dorme la città romanizzata. Qui, sotto la casa Giambertoni, è sepolto forse il teatro, se non greco, almeno romano: lo fa sospettare la cornice di marmo bianco che si intravede tra i pini ombrelliferi del giardino, accanto alla chiesa ducentesca di S. Nicola, costruita con materiali di edifici pagani e poco lontana dal così detto Oratorio di Falaride, in verità sepolcro di matrona romana.
Ma sente che aria balsamica ? E com’è liquida !
Lo stradale ora si affretta, impaziente di portarci nella zona greca.
Va fra mura rustiche e sbreccate. Erbe ai crepacci, cardi spinosi, capperi pendenti, cancelli di ferro arrugginiti aperti alla primavera, basamenti di costruzioni non bene identificate.
A questi rottami, assunti a vivere una vita diversa, la vita che sorge da la distruzione la quale disgrega, ma aggruppa anche in forme nuove, inattese e poetiche, non si può, in questo rigoglio della terra parata a festa, non restituire la loro vita antica, riportandoli con la fantasia a la sintesi di bellezza, della quale eran parte e da cui furono strappati con la violenza.
Agrigento è la gran signora a cui spese si sono arricchiti paesetti e ville vicine.
di Gerlando Lentini, in Italia Giardino del mediterraneo, palermo 1936