Santa Elisabetta
Allorché, andandovi da Aragona, dopo di aver traversato il fresco avvallamento che ha il curioso nome di Cinti Vacali sì arriva a S. Elisabetta, quello che si nota subito è una lunga strada a declivio, in fondo alla quale domina l’orizzonte una bella ed aspra montagna. La strada non è veramente la sola dell’abitato, perché altre se ne trovano lateralmente ad essa, che è come a dire il corso ; ma ciò nonostante il paese non è che un villaggetto perduto tra le campagne, e di fondazione piuttosto recente. Esso infatti ebbe origine nel 1670, per opera di Nicolò Giuseppe Monteaperto, che volle popolare il suo fondo di Cometa, e che vuoisi gli abbia dato il nome della moglie» e non era in origine che una semplice baronia, solo più tardi, nel 1748, eretta in ducato, che peraltro dava al suo signore il diritto di occupare il 24° posto nel Parlamento Siciliano.
La montagna, però, che chiude l’orizzonte della strada è storicamente più importante del paese, perché essa è Guastanella (Guastanedda) quella che il Malaterra ricorda durante la conquista normanna col nome di Gastaiel.
Sulla sua cima infatti sorse, forse nell’epoca bizantina, un fortilizio che diventò un fortissimo castello al tempo dei Saraceni. E quando il conte Ruggero, nel 1087, secondo la data corretta dall’Amari, ebbe presa Girgenti, per rendersi anche padrone dei dintorni, si recò ad assediare questo castello. Di ciò il popolo ha anche oggi un vago ricordo, tanto che indica nelle sue vicinanze un Poggio del Seggio (Poiu seggiu) dove afferma che il famoso conte avesse posto i suoi accampamenti; certo si è, però, che la paura della bandiera bianca con la croce rossa doveva esser tanta in quegli anni, che Guastanella, non ostante la sua fortissima posizione, fu ben presto presa e assoggettata. E pare anzi che sin d’allora fosse data in feudo ai Monteaperto, “uno del quali faceva parte delle schiere del conquistatore, e s’era dovuto segnalare nella soggiogazione di quei luoghi, ogni altura dei quali era una posizione saracena”.
Il castello di Guastanella così fu riattato e mantenuto, e nel 1221, quando i Saraceni si ribellarono all’imperatore Federico II, e si impadronirono del vescovo Orso di Girgenti, fu in esso che lo rinchiusero e lo tennero per 14 mesi, sinché il prelato poté riscattarsi per denaro. Più tardi però, nell’epoca aragonese, quel feudo fu dato ai Chiaramonte, che dove solo non poterono arrivare non posero le mani; ma da essi passò, non si sa come, ai Montecateno, e poi, ai tempi di re Martino, a Filippo Marino, dopo del quale non si trova altro ricordo, e il castello decade a poco a poco in rovina, e non lascia che i pochissimi ruderi che anche oggi il curioso riesce a trovare, in una posizione fortissima, che forma come un breve altipiano sulla montagna, dove l’accesso è sempre difficilissimo.
Oltre questa storica montagna però, che s’alza sino a 670 metri, e che da S. Elisabetta è lontana, ad ovest, da tre a quattro chilometri, un’altra se ne nota al nord-ovest del paese detta la Montagna del Comune, alta 630 metri, ed una tersa più vicina ancora, quasi a ridosso dell’abitato, sempre dalla parte nord, e che ha soltanto 448 metri di elevazione.
Quest’ultima è detta la Montagna Benedetto, ed è tutto un gran masso di solfato di calce, non molto puro all’apparenza, ma dai cristalli assai grandi, che danno gesso in quantità, senza quasi alcuna fatica per estrarlo. A sud essa scende a declivio ed è coperta di terrìccio coltivabile, ma a nord cade quasi a picco, mettendo in mostra tutto il suo gesso, e sovrastando una discreta pianura, che è detta Margiu di Santu, per la quale si va verso S. Angelo Muxaro, il paese che ha dato di recente una enorme quantità di vasi così antichi da non sapersi bene come classificarli, e di cui, con la nostra musulmana indifferenza, si stan lasciando sciupare e sfruttare le vetuste necropoli.
La montagna Benedetto intanto, nel suo lato nord presenta anch’essa delle antichissime tracce dei popoli che vissero in queste contrade quando ancora la civiltà era in uno. stadio assai primitivo. La sua roccia intatti è tutta traforata da una trentina di grotte a forno, con la bocca più piccola dell’interno, col fondo piano a base presso che circolare, e con la volta a cupola, o di dimensioni piuttosto grandi, tanto che in qualcuna ci si può stare appena appena curvati. E sono evidentemente delle tombe sicule, ognuna delle quali era destinata ad accogliere una famiglia intera, che, come è noto, venivan chiuse dal di fuori mediante una lastra che faceva da sportello.
Ma oltre la strana impressione che facevano queste tombe scavate nella pietra di gesso, perche non possono avere lisce le pareti interne, come quelle che rinveggonsi specialmente nel calcare tenero e gialliccio, una circostanza speciosa presentano, che per un momento fa restare perplesso l’osservatore: sul pavimento di alcune di esse, e sulle pareti di alcuno altre (non di tutte) sono scavati dei fossi rettangolari, allungati, i quali non possono essere che loculi, nei quali si seppellirono delle persone in posizione distesa. Lo grotta, tra tutte più grande, anzi, o che è detta di Santa Rosalia, pare che consti di due tombe sicule appaiate nel cui interno sono quattro o cinque loculi, relativamente grandi, così da far pensare che ognuno di essi abbia potuto accogliere più di un cadavere.
Collo scorrere del secoli, è vero, sia per la fragilità della roccia, che per l’opera incessante dei devastatori, così lo grotte come i loculi sono in gran parte rovinati ; ma non tanto che non si possa leggere in essi una pagine di storia, che gli annali non hanno registrato che il popolo ha dimenticato.
Un villaggetto siculo dovette sorgere sulla montagna al cominciare dl primo millennio a. C, di cui non si riesce più a scoprire più la minima traccia. E quel popolo di scavatori, che abitava l’altura, nei fianchi del monte scavò le sue tombe a forno, o chiuse i suoi morti, che soleva deporre quasi seduti attorno al centro dello scavo, con le spala al muro, all’ incirca nella stessa posizione nella quale si stava entro le capanne, anch’esse circolari ed a volta (per necessità di costruzione lasciata conica), quando si sedevano attorno atta pietra del focolare, dove la vampa alzavasi a scaldare le membra degli astanti, o i cibi cucinati si offrivano a ristorarli, giacché le tombe non erano che la riproduzione delle case.
Ma gli anni ed i secoli passarono, e la gente che aveva lasciato in quel luogo i suoi morti operi, forse allontanate dalie circostanze, forse fusa con le razze invaditrici e colonizzatrici. Mano mano, per l’influenza fenicia e punica, ed anche per quella greca, essa cambiò il suo rito funebre, ed al seppellimento accoccolato sostituì quello disteso; dimenticò anzi totalmente il primo, cosi che non seppe più riconoscere le vecchie tombe, e sia per curiosità, che per incoscienza, qualche volta anche per spogliarle, le violò e le vuotò.
Ma un momento, pare allo inizio del cristianesimo, una piccola comunità si torna a costituire in quel luogo. Forse sulla montagna Benedetto, dov’erano stati i siculi, forse là dove è l’attuale paesello – giacché non vi sono indizi per precisarlo e le nuove genti non cercavano più, come le antiche, le cime delle montagne – un gruppo di cristiani si raccoglie. E quando ha da seppellire i suoi morti non trova di meglio che invadere le tombe sicule, scavare nei fianchi di esse i suoi loculi e mettervi i cadaveri distesi, ricoperti da adatte lastre. La grotta di Santa Rosalia dovette anzi, come la più grande, servire probabilmente di cappella, sicché si aveva così quello che per tanto tempo poi durò: il seppellimento nel luogo stesso sacro al culto e nelle immediate vicinanze.
Nessun altra spiegazione alo infuori di questa ci sembra possibile di fronte a quanto ci mostra la montagna Benedetto, che sovrasta al margine di Santa Elisabetta, e noi quindi vediamo in questo luogo una piccolo necropoli cristiana dei bassi tempi sovrapposta ad un’antica necropoli sicula.
Salvatore Raccuglia, La Siciliana, rivista mensile illustrata di storia, archeologia e folklore, Catania, giugno-luglio 1912 (numeri 6-7