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Chiesa San Nicola dei Cistercensi ad Agrigento

3 Gennaio 2020 //  by Elio Di Bella

È diffusa l’opinione che questo caratteristico monumento, ritenuto per i precisi riferimenti storici che ne accompagnano la fondazione una delle più sincere espressioni dell’arte cistercense di Sicilia, sia stato talmente rimaneggiato da perdere molti dei suoi attributi (1) (fig. 190). Una parola definitiva potrà scaturire da un’attenta esplorazione delle sue strutture.

Si sa dalle notizie raccolte dal Pirro che il vescovo Ursone nel 1219 cedette a fra Peregrino, priore di S. Maria di Adriano, un appezzamento di terreno per erigervi la chiesa. In cambio i benedettini del monastero di S. Maria assegnarono alla chiesa agrigentina e al suo vescovo alcune terre con canneto, una volta appartenenti ad un certo Nicolò Mosca, all’uscita della cava dei Giganti (2).

Poco sappiamo delle vicende della chiesa, le quali dovettero probabilmente coincidere colle vicende stesse dell’ordine cistercense. È altresì certo che l’abbazia agrigentina di S. Nicolò fu alle dipendenze di quella famosa di Casamari.

Nel sec. XV l’abbandono della chiesa e dell’annessa abbazia doveva essere pressoché completo; nel 1426 tanto l’una che l’altra vennero concesse al frate minore agrigentino Matteo Gallo, il quale vi fondò il secondo convento siciliano dei francescani riformati (3).

L’abbandono aveva evidentemente provocato non pochi danni alle fabbriche, alla cui riparazione si attese negli anni successivi con i contributi apprestati, in parte, dal re Alfonso. Secondo la testimonianza di uno storico del Seicento i lavori di riadattamento vennero ultimati alla distanza di quattro anni, nel 1430 (4)

La pretesa ricostruzione effettuata nel sec. XVI non trova conferma, né presso lo storico secentista, che appare ben informato, né presso gli scrittori posteriori di cose agrigentine. Non sappiamo se, da parte del nuovo ordine, i lavori furono iniziati nello stesso anno della concessione. Ma, anche in caso affermativo, lo spazio di quattro anni apparirebbe affatto insufficiente per poter portare a termine un lavoro di ricostruzione esteso al complesso organismo della chiesa e del monastero. Probabilmente il falso giudizio sulla pretesa ricostruzione deve essere stato determinato dalla presenza di alcune date che sono state riscontrate nella chiesa, le quali peraltro si riferiscono tutte ad opere di natura decorativa (5).

Un organismo architettonico di così rilevante struttura — il muro occidentale misura due metri di spessore — non poteva andare distrutto nello spazio di oltre un secolo e mezzo. Questo organismo, sulla fine del Quattrocento, doveva permanere essenzialmente integro. La ripresa consistette, con ogni probabilità, in un’opera di riadattamento e di consolidamento, diretta a rendere i due edifizi abitabili e rispondenti alle esigenze della nuova comunità religiosa. Sarebbe, d’altra parte, assolutamente inspiegabile come l’edifizio cinquecentesco abbia potuto mantenere la sua efficienza sin quasi ai nostri giorni dopo un abbandono assai più triste e lungo di quello che colpì l’edifizio duecentesco.

Il ripristino fu ben lontano, insomma, dal costituire una ricostruzione integrale, con l’oscuramento delle note che furono proprie della costruzione cistercense.   E’ da escludere che siano state annullate le linee d’impianto e, insieme, le caratteristiche architettoniche della chiesa duecentesca.

La tradizione vuole che la chiesa sia stata edificata nel luogo stesso ove un tempo sorgeva il palazzo del tiranno Falaride (6). Nell’alto medioevo non fu infrequente la consuetudine di elevare chiese sui ruderi di antichi templi o, addirittura, di riadattare questi ai bisogni del nuovo culto. Gli esempi più caratteristici, ad Agrigento, sono offerti dal cosiddetto tempio della Concordia, trasformato, nel sec. VI, in chiesa cristiana, e dal santuarietto di S. Biagio, costruito in epoca normanna sulle rovine del tempio di Demetra e Persefone.

In realtà, non lontano dalla chiesa, sorge il cosiddetto oratorio di Falaride che poi, in fondo, non è altro che un heroon o tomba di una matrona romana del primo secolo a.C. (7).

Molti elementi di spoglio di monumenti classici si osservano nel giardino Panitteri, a breve distanza dall’abside della chiesa. È fuori dubbio che questa venne elevata in un sito ricco di ruderi di monumenti classici, e di questi subì il fascino, come può rilevarsi dalle linee d’impianto e dalle vigorose forme strutturali che contrastano colla modestia delle sue proporzioni e del suo organismo. Il suo goticismo, pregno di reminiscenze romaniche, non sfuggì, d’altra parte, ad un acuto studioso come l’Enlart, che è stato uno dei suoi migliori divulgatori (8).

L’ampia aula rettangolare, che costituisce la navata maggiore della chiesa, acquista un proprio inconfondibile carattere dalla decorazione che impronta le diverse membrature architettoniche, dove sembra che sia stata messa a profitto, con leggero sforzo di adattamento, l’inesauribile ricchezza apprestata dalle rovine dei monumenti classici. L’aula trae vita dal giuoco delle cornici, dalla impostazione gagliarda della volta e dagli arconi che l’attraversano. È fiancheggiata, ad oriente, da cappelle, le cui arcate di intercomunicazione spingono l’ogiva sin quasi alla grande cornice di imposta su cui sono piantati i muri d’alzato (fig. 191).

Le cappelle sono quattro e ad esse, numericamente, avrebbero dovuto corrispondere altrettante cappelle nel muro opposto, che invece non esistono. Non furono finite di costruire ? È l’ipotesi più probabile; in caso diverso tracce della loro distruzione sarebbero rimaste visibili. Il muro esterno del lato occidentale è formato da un serrato paramento di conci di arenaria, disposti rigorosamente in assise, le quali, in tutto il vasto spiegamento, non presentano discontinuità costruttive o tracce di tamponamenti e di attacchi di vecchie strutture (fig. 192). Non sarebbe del resto questo di S. Nicolò, nella storia dei monumenti medievali, il solo esempio di monumento non finito (9).

Le cappelle del lato orientale, oggi tamponate e quindi praticamente avulse dall’organismo della navata, sopravvivono, sebbene gravemente mutilate.

L’aula è coperta da massiccia volta ogivale, rinforzata da tre arconi ad angoli smussati, ricadenti su una poderosa cornice d’imposta, di forte aggetto, che si svolge, senza discontinuità, con funzione di ballatoio, lungo tutto il perimetro dell’aula. La cornice, decorata con semplice ma severa modanatura, comprende due assise di conci: l’inferiore, formante un quarto di cerchio, la superiore una ben profilata gola.

Al di sopra della cornice sono tagliate, lungo i muri, due porticine: una, in corrispondenza della grande porta d’ingresso, stabilisce la comunicazione con l’esterno, dove ricorre la stessa cornice; l’altra, di sagoma ogivale, poco discosta dall’arco di trionfo, dà il passaggio al tetto della navatina, coperto da piano terrazzato. Questo, essendo stato costruito all’altezza dell’imposta della volta, non ha consentito che venissero aperte delle finestre perimetrali. Il problema della luce è risolto col taglio delle due porticine avanti ricordate.

In corrispondenza degli arconi della volta sono piantati, su ciascun lato, tre robusti pilastri, su cui gravano archi ogivali, sorreggenti la massiccia trabeazione. I pilastri, dall’alto plinto, hanno una grave cornice d’imposta e, quasi a metà, in corrispondenza dell’imposta del secondo ordine di arcate ogivali, destinate a segnare il passaggio alle cappelle retrostanti, una nuova aggettante cornice di più complessa modanatura. Questo secondo ordine manca, naturalmente, nel lato occidentale, non essendo stata qui realizzata la costruzione delle cappelle. È soprattutto nell’impostazione strutturale delle arcate che appare manifesto il lavoro di riadattamento, condotto con criteri sommari e privi di ogni accorgimento tecnico.

La prima arcata del lato orientale, in corrispondenza della tribuna, ha un’ogiva slanciata che si spinge quasi sino al ballatoio, con elegante profilo cordonato, segnato in basso da profonda gola. Le tre successive, invece, non conservano lo stesso slancio; una di esse, anzi, presenta una così forte depressione da risolvere quasi l’ogiva in un arco ribassato; mancano poi della modanatura marginale che è propria della prima.

Questa difformità rilevasi anche nelle arcate del lato occidentale, tutte ad angolo smussato, ma di diversa altezza. Due di esse raggiungono quasi il ballatoio, mentre le altre ne restano discoste per un’altezza di circa cm. 50.

Le quattro cappelle del lato orientale, avulse per tamponamento postumo, in origine erano destinate a formare una vera e propria navatina perché, oltre a comunicare con l’aula, erano fra di loro collegate mediante porte archiacute (fig. 193). Ciascuna cappella comprende due ambienti divisi in campate: il primo costituiva la nave propriamente detta; il secondo, coincidente col muro perimetrale, fungeva da cappella. La mancata uniformità è propria anche dei diversi ambienti; nel primo, infatti, la divisione delle campate è data da un arco depresso, a sezione semicircolare, i cui piedritti si flettono su abachi profilati in cavetti e unghie, sorretti da semicolonne dalle alte basi. Nel secondo, al contrario, l’arcone divisionale delle campate è di struttura ogivale, con angoli smussati ed è raccolto, non da semicolonne, ma da pilastri a sezione quadrata con abachi aggettanti e ricchi di modanature (10). Gli ambienti ricevono luce da finestre a feritoia, con voltine a tutto sesto, tagliate nei muri perimetrali.

Il particolare architettonico più rilevante, che distingue la chiesa di S. Nicolò dalle congeneri dell’ordine cistercense, è costituito, come ha messo in evidenza l’Enlart, da questa

inconsueta larghezza della navata laterale destinata a due diversi uffici.

A settentrione l’aula era integrata dal coro e quindi dal santuario. Tra l’aula e il coro c’è l’interposizione di un massiccio muro mediano o transenna, che si spinge fino alla volta. La comunicazione era stabilita da un grande portale ad arco ribassato, chiuso nel tempo in cui, andati in rovina coro e santuario, il culto si restrinse nell’ambito dell’aula; al portale venne allora addossato un altare (fig. 194).

La transenna è divisa in tre settori: nell’inferiore domina, al centro, il portale occluso, poggiante su corte e grosse colonne; ai lati, in corrispondenza di due più piccole arcatelle, sono stati eretti degli altarini. Il settore mediano, che appare il più articolato, presenta lo schieramento di cinque archetti a pieno centro, allineati sulla stessa cornice divisionale; il più elevato è il centrale. Gli archetti ad angolo smussato si flettono su pilastrini a sbalzo, portanti dei capitelli modanati. Il terzo settore, compreso tra la cornice-ballatoio, è dominato da un grande arco a sesto acuto —  anch’esso chiuso e trasformato in altare — sorretto da pilastri con  interposizione di cornici d’iposta profilate  a cavetto.

La massiccia transenna non costituisce una novità, essendo essa comune  nell’architettura delle chiese cistercensi del sec. XIII. La novità, se mai potrebbe essere rappresentata dalla soluzione poco comune che ha portato il suo sviluppo  fino all’altezza della volta. Un esempio analogo l’Enlart lo trova nella cattedrale norvegese di Throndjem quantunque in questa il giuoco delle perforazione sia più accentuato e  quindi, può rispondente alla funzione liturgica della transenna stessa. Il tipo della transenna pressoché chiuso come quello di Agrigento, è offerto dalla chiesa di Coire nel Valais : una semplice porta segna in essa il passaggio dall’aula al coro.

Non resta neppure senza confronti la caratteristica cappella con altare, in corrispondenza del grande arco ogivale : essa trova infatti il suo riscontro nella chiesa di Montréal presso Avallon egualmente dotata di altare. Il coro e il santuario, parti essenziali nello sviluppo della chiesa, sono quelli che

oggi si presentano nello stato dì più avanzata rovina; ma quel che resta basta a farcene rivivere le linee architettoniche.

Il coro è formato da un ambiente quadrato, mancando completamente di volta.

I muri perimetrali esistono fino a notevole altezza e da tre lati — ad eccezione di quello in cui si apre il santuario — sono accompagnati da una maestosa cornice di imposta. formante, come quella dell’ aula, una comoda galleria. Al di sopra si profila un cordone smussato il quale segnava, approssimativamente    l’inizio del piede della volta, anchessa ogivale, ed attingente la medesima altezza della chiave della volta dell’aula  (fig.195)

In ciascuna campata della volta al di sopra del cordone, sì apriva un alta finestra strambata che risolveva egregiamente il problema della luce. Ai quattro angoli  si vedono ancora i resti dei costoloni appaiono semplicemente abbozzati; appaiono semplicemente sbozzati e ricadono su pilastri che sono impostati sulla cornice fungente da galleria. Questa cornice veramente grandiosa, di oltre due metri di altezza, decorata da una pittoresca successione di baccellature e di dentelli, di gusto ed ispirazione classica, doveva generare un curioso contrasto col resto della volta ad arco acuto, pregna di reminiscenze medievali.

La volta del coro, soverchiando, per evidenti ragioni, la copertura dei fianchi della nave, formava una specie di lanterna, al di sopra della quale l’Enlart pensa, analogamente a quanto si trova nell’abbazia di Baumont presso Ginevra, che possa essere stato eretto il campanile. Che questo sia stato portato a compimento non si hanno prove per dimostrarlo, ma che abbia fatto parte del piano architettonico è provato dalla esistenza di una scaletta, che si apre nello spessore di un muro del santuario, la quale non poteva avere altro ufficio che quello di segnare l’accesso alla torre campanaria.

Al di sopra della cornice di camminamento del coro è tagliata una porta comunicante col piano terrazzato, dove sono ricavati i due ambienti che possono essere stati adibiti a tesoro. Dallo stesso piano si può accedere a quello che fu il dormitorio dei frati. Sul lato della volta del santuario è ricavato un piccolo ridotto, attraversato da due ristrette aperture che consentivano di poter vedere l’altare.

Il santuario, occupante l’estremità settentrionale del tempio, è anch’esso di pianta approssimativamente quadrata ed è coperto da volta ogivale di struttura analoga a quella dell’aula. Questa volta resta molto al di sotto di quella del coro. Rimane ancora strutturalmente integro il grande arco di trionfo a sesto acuto che lega il santuario al coro; è formato da una bella ghiera di conci aureolati, chiusa da robusto archivolto. L’arco poggia su pilastri sormontati da abachi (fig. 196). In corrispondenza della sommità dell’arco era tagliata una finestra quadrata, collegantesi col condotto praticato nello spessore del muro, in cui era la scala di accesso alla torre campanaria. Poiché il santuario era conglobato nello sviluppo dell’abbazia, i suoi muri interni non hanno finestre. Al di sopra esiste anche qui un piano terrazzato, formante, ai suoi lati, i recessi di cui s’è fatto cenno in precedenza.

Il chiostro, con disposizione alquanto difforme da quella che si riscontra nelle altre abbazie dell’ordine, si svolgeva dietro il santuario; ma esso è andato quasi completamente distrutto o obliterato sotto la stretta di fabbriche moderne che ne celano l’aspetto. In mezzo al groviglio di mura fatiscenti si vedono ancora le sagome di tre arcate ogivali poggianti su colonne sormontate da capitelli a grappa. Il lavoro di liberazione potrà rivelarci, qui come altrove, aspetti imprevisti della bella costruzione medievale.

* * *

In ben altre condizioni appare il prospetto della chiesa, il quale, pur presentando chiare le note del rimaneggiamento, è ancora di una trasparenza e di una solidità costruttiva che lo pongono, senza accenti anacronistici, nel quadro solenne dei monumenti classici circostanti. Il prospetto, che si arresta al primo ordine, è serrato, agli angoli, da due poderosi contrafforti, coronati da robusta cornice dorica, che corre poi, ampia come ballatoio, lungo tutto il fronte, segnando così la separazione dei piani. Essa si richiama nel taglio delle modanature e nella funzionalità dell’impiego a quella dell’interno, che aveva il compito, come si è visto, di cornice d imposta, e funge anche da passaggio di circolazione. Attraverso le menzionate porticine le due cornici finivano coll’essere intercomunicanti. I contrafforti sono impostati su solida base formata da un gruppo di gradini rientranti, ad angolo smussato, gradini che riprendono quelli del grande semplicità decorativa, comprendendo appena un toro ed un cavetto. Il massiccio archivolto cordonato, che recinge la lunetta priva di timpano, manca di colonnine. Le sue rastremazioni cadono su capitellini cubici non finiti di lavorare.

Questa semplificazione di mezzi formali e di voluta rinuncia agli espedienti decorativi, cui il prospetto appare improntato, si accordano perfettamente col carattere solenne e, nello stesso tempo, severo dell’interno della chiesa. Che i contrafforti corrispondano ad una ripresa tardiva, non coincidente affatto coll’architettura del portale, si rileva, tra l’altro, dal mancato allineamento dei gradini della scarpata, che formano la base dei contrafforti e dei piedritti del portale in cui sono incise le colonnine.

La porta in legno, rozzamente intagliata, reca il nome di Angelo Blundo e la data del 1531. Si può far coincidere con questa il rimaneggiamento del prospetto e della chiesa ? Che la vecchia abbazia cistercense fosse caduta in abbandono e che fosse stata richiamata a nuova vita coll’assegnazione ai francescani sulla fine del Quattrocento, è circostanza storicamente certa cui si è in precedenza accennato. Le date che si ricavano dagli affreschi e dalle pitture parietali, tutte del sec. XVI, si riferiscono piuttosto ad opere di natura decorativa. La ripresa architettonica — che è assolutamente improprio chiamare ricostruzione — deve farsi quindi risalire al secolo precedente.

Questa ripresa non può esser messa in dubbio.

Di quella del prospetto si è accennato; si è pure fatto cenno della ripresa dell’interno, dove colpisce la diversa impostazione degli archi nei due lati dell’aula, la difforme soluzione adottata nelle cappelle formanti la navatina destra, la posizione asimmetrica del santuario quadrato rispetto all’arco di trionfo e il mancato raccordo tra le modanature della cornice dentellata e quella dell’arco stesso. La stessa chiusura dell’arco che stabiliva la comunicazione tra la nave e il coro è un indice del rifacimento che non poco dovette togliere al carattere originario della costruzione.

Ma è spiegabile — osserva a questo punto il Calandra — un’imitazione cinquecentesca fra tanto evidente predominio di forme gotiche ? (11). Egli ritiene di si, perché fa propria la tesi del Samonà (12), tesi che sostiene il perdurare, sino alle soglie del Seicento, di un gusto locale, fors’anco popolaresco, per il medioevo, specie per il periodo romanico. La tesi, comunque, è posta dal Calandra non senza una prudente riserva, non solo per il fatto che l’indagine compiuta dal Samonà non è uscita dai confini della provincia di Messina, ma principalmente perché si basa su di una semplice intesi, la quale potrebbe essere convalidata o meno da un accertamento esplorativo.

Per S. Agati le aggiunte, i ringrossi murari, gli spessi intonaci avrebbero addirittura oscurata la vecchia fabbrica, mentre il maggior danno sarebbe stato sofferto dalla facciata « la quale fu rifatta di sana pianta, forse arretrandola » (13).

Non si comprenderebbe, in tal caso, come possa essere stato effettuato tale rifacimento, seguitando a rivivere lo spirito e restando sempre immutato il carattere della vecchia chiesa : spirito e carattere che l’Enlart riscontra, tanto nelle caratteristiche dello stile, giustificate, per le loro specifiche peculiarità, come contrassegni di arcaicismo costruttivo, quanto per le caratteristiche icnografiche che gli richiamano la somiglianza di « une facade d’églises cisterciennes du mème type » (14).

I     riferimenti ai monumenti congeneri dell’ordine benedettino potrebbero farsi numerosi, ma non è fuor di luogo il ricordo della chiesa sorgente sulla punta del Gargano presso Peschici, alla quale si richiama l’Enlart, ravvisando nell’una e nell’altra analogie di pianta colle chiese di Chatillon-sur-Seine e di Fontaney presso Montbard analogie che vengono accolte e confermate dal Venturi (15).

L’errore di valutazione della moderna critica d’arte che afferma di non più vedere nella moderna chiesa di S. Nicolò il vecchio edifizio cistercense, deriva, in gran parte, dal mancato approfondimento dell’ambiente che, in qualsiasi tempo, ha sempre esercitato, con maggiore o minore intensità, un immancabile influsso sull’evoluzione dell’arte locale.

II    monumento di S. Nicolò, infatti, sorge in uno dei centri più fulgidi del dorismo siculo. I monumenti greci e romani, sia pure in istato di abbandono, dovevano ancora continuare a riflettere la loro bellezza nella grigia notte medievale. Essi non solo apprestavano alle maestranze il loro prezioso materiale per la costruzione di nuove chiese, ma ne permeavano lo spirito, ne piegavano il gusto e le tendenze con quel processo dì assimilazione intima cui non ci si può in alcun modo sottrarre.

Il fenomeno è stato messo in rilievo nello studio di uno dei più grandi monumenti svevi : Castel del Monte, dove, in mezzo al trionfò delle forme gotiche, si sprigionano accenti di un classicismo pieno e suadente, che si riflette, con note inconfondibili, nel grande frontone del portale d‘ingresso, nelle opere scultoree decoranti le serraglio delle crociere, che Nicola di Puglia dovette ricavare dallo studio di quegli antichi monumenti e di quelle sculture di cui era ricco il suolo della sua regione.

In più di un caso sembra addirittura clic il materiale sia stato fiuti lizzato nella chiesa e nel monastero con semplice adattamento che non ne svisò il carattere. Nel cornicione a dentelli del coro e nella cornice rotonda clic troviamo in una parte della cisterna del convento, Pirro Marconi ravvisa, non senza qualche riserva, delle membrature di architettura classica (16), come classico è quel resto di architrave con bucranii e ghirlande che affiora da un muro del monastero, dietro il giardino.

Ma più che nella pura e semplice riutilizzazione di questo materiale sporadico e nel tentativo di riadattamento esteso, forse con molta più larghezza di quanto non sia dato immaginare, a molta parte di esso (17), il classicismo emana dalla severità della composizione, dal taglio delle cordonature e, in genere, da tutto il complesso decorativo, che è più vicino allo spirito dei monumenti dorici della città che al goticismo dei monumenti benedettini del tempo.

Sotto un tale aspetto la chiesa di S. Nicolò s’inserisce, con un suo inconfondibile carattere, nell’architettura gotico-sveva della prima metà del Duecento. Le eventuali indagini, dirette ad assodare i tentativi di rimaneggiamento effettuati in tempo successivo, potranno essere confermate da risultati più o meno positivi, ma non potranno, in nessun caso, cancellare il monumento dal novero di quelle costruzioni con cui si espresse, nella nuova età, il fecondo spirito di iniziativa dei monaci cistercensi e, insieme, il genio assimilatoli del grande Federico.

Giuseppe Agnello, L’architettura civile e religiosa in Sicilia nell’età Sveva, Roma 1961, pp.319-330

Note

  1. L’opinione fu la prima volta avanzata da E. CALANDRA, Breve storia dell’architettura in Sicilia, Bari 1938, p. 50, il quale, peraltro, più che su proprio convincimento personale, si fonda su altrui giudizio : “Dopo i recenti lavori fatti in S. Nicolò di Girgenti per conto della Soprintendenza di Siracusa, i competenti di questo ufficio si sono convinti che nel monumento attuale siamo dinanzi ad una imitazione cinquecentesca sostituita in gran parte al monumento primitivo, specie nell’interno”. L’opinione è fatta propria da S. BOTTARI, I Monumenti svevi della Sicilia, Palermo 1951, p. 21 : « La chiesa come oggi si vede è il risultato non già di un rimaneggiamento, ma di una vera e propria ricostruzione operata nel corso del ‘500». Altrove : Storia, Arte, Letteratura, Palermo 1951, p. 53, lo stesso scrive : « La chiesa attuale è il risultato di un rimaneggi amento che utilizzò soltanto la parte anteriore della navata centrale e mascherò le strutture originarie, tuttavia individuabili ».
  2. R. PIRRO, Sicilia Sacra, op. cit., p. 285. A. GIULIANA ALAIMO, La chiesa di S. Nicola dei Cistercensi in Agrigento, in “Illustrazione Siciliana”, Palermo 1951, n. 7-10, p. 47 tenta di dimostrare che la chiesa fu eretta intorno al 1245 e non nel 1219.
  3. R. PIRRO, op. cit., p. 305.
  4.  R. TIGNOLETXO, Paradiso serafico del fertilissimo Regno di Sicilia, Palermo 1667, parte I, p. 36.
  5.  Porta la data del 1531 e il nome dell’intagliatore Angelo Biondo il portone d’ingresso ; sono del 1521 gli affreschi del coro; del 1574-1575 gli affreschi della transenna.
  6.  Si rileva da un documento del 1219, che fa parte dei «Privilegi » della cattedrale di Agrigento (tom. I, fol. 73»). È detto in esso che il vescovo Ursone di Agrigento concede a Peregrino, abate di S. Maria di Rifesi, una zona di terreno esistente « extra moenia », dove una volta era il palazzo di Falaride.
  7.  P. Marconi, Agrigento, Firenze s.d., p. 1Ì2.
  8.  Enlart, Origines francaises de l’architecture gothique en Italie, Paris 1894, pp. 74-79.
  9. Per le dimensioni delle varie parti dell’edifizio — navata, navatina, coro, santuario — ci riferiamo u a quelle date dallo Enlart  p. 74, nota 4; altezza massima sotto la volta m. 14,70 ; larghezza della nave m. 7,50; larghezza della lanterna m. 8,60 ; profondità del coro m. 4,75 e altezza metri 10;   profondità delle cappelle (arcate comprese) m. 6,70 e altezza m. 6,50. Dimensioni totali: lunghezza m. 41,20; altezza m.16
  10. Nel periodo in cui concludemmo lo studio della Chiesa non ci fu possibiloe studiare le due ultime cappelle, perchè chiuse
  11. Calandra, op. cit 50
  12. Samonà. Elementi medievali dell’architettura del secolo XVI in provincia di Messina, Napoli 1935
  13. Citato in G. Di Stefano in  L’architettura religiosa in Sicilia nel secolo XIII,  Palermo 1938, p. 14. Nota 1  Giuliana Alaimo. Studi cit. a proposito del giudizio dell’Agati scrive : “Se si osserva la volta, con quasi certezza ricostruita nel ‘400, si vede che ì tre archi a sesto acuto a spigoli smussati, la dividono —  longitudinalmente — in quattro settori dei quali i due centrali uguali ed i due estremi (quello verso    la transenna e quello verso il prospetto  ) anch’essi uguali fra loro. Ne viene di conseguenza che se si volesse – anche  per un solo momento — ammettere  l’assurda ipotesi, non documentata, di un arretramento del prospetto,  si dovrebbe concludere che tale arretramento dovette essere fatto per la distanza esatta onde lasciare la volte simmetricamente divisa in senso longitudinale !”.
  14. Enlart op. cit
  15.  Venturi Storia dell’arte italiana, vol.3, pag. 324
  16. Marconi,  Agrigentum, op. cit pag. 131: “La Chiesa medievale di S. Nicola ha nella parte più vicina all’abside una cornice di tufo calcareo con gola e dentello, che deve provenire, da un  edificio classico romano o greco-romano romano; ma allo Stato attuale non è possibile pronunciare nessuna ipotesi a suo riguardo »,
  17. G. Abata, L’architettura arabo-normanna, op. di,, p. 13; Anche le altre parti  sono costruite con questi enormi blocchi dell’antica Akragas; e tutte le masse che compongono questa caratteristica costruzione sono proporzionate alle dimensioni piccole di un vicino tempio

Categoria: Storia AgrigentoTag: chiesa di agrigento, girgenti, valle dei templi

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