
Il fascino e la grande popolarità che i “briganti” hanno sempre avuto tra la gente comune e, in parallelo, l’odio feroce che l’ “ordine costituito” ha loro manifestato, sono state ampiamente documentate con tutti i mezzi espressivi possibili. Dai tempi di Ghino di Tacco (celebrato persino da Dante e Boccaccio) a quelli di Mayno della Spinetta, moltissimi briganti sono tuttora personaggi popolari amatissimi e metafore in qualche modo della lotta contro il potere, del riscatto o del riottenimento di una giustizia più vera. Difensori dei deboli contro i forti, una volta tanto vincenti. Perfino i mai esistiti Robin Hood, Zorro e Lupin godono di una fama planetaria a testimoniare anche la non esclusiva italianità del fenomeno.
Ulteriore prova ne è la popolarità autentica e l’immagine positiva che perdurò fino all’ultimo conflitto mondiale, in particolare nell’Italia centro-meridionale di tanti capi-banda o singoli banditi, mentre per contro i nomi dei loro più feroci repressori (Cialdini, Manhes, ecc.) sono invece caduti in un oblio totale. Lasciamoli pure lì anche noi che non condividiamo per nulla il fascino che paiono avere oggi su molta parte dell’opinione pubblica, “sbirri” vari, giudici e giustizialisti forsennati di varia estrazione. Forse però ciò significa solamente che crediamo di più nella giustizia, che siamo quindi migliorati. Forse.
Dall’800 ad oggi l’alone di romanticismo e quasi un senso eroico aleggia, localmente in particolare, sui nomi di briganti famosi. Un’aura di leggenda e positività circonda in Romagna il Passatore, in Maremma Tiburzi e, più a sud, Gasbar-rone, Nicola Morra, Carmine Crocco, Ninco Nanco, Chiavone, Fra Diavolo, ecc. ecc. Musolino poi è ancora ricordato, in “quel” modo, in tutta Italia.
Il brigantaggio è stato sempre un fenomeno complesso, politico e sociale insieme, prima ancora che d’ordine pubblico. Non esiste una differenziazione netta e precisa tra i due termini ed anzi l’uno inevitabilmente influenza l’altro e viceversa. La miseria, la giustizia quasi mai giusta, i soprusi dei signorotti locali e, con il Regno d’Italia, la coscrizione obbligatoria, lo favorirono indubbiamente come fenomeno, anche, di massa.
Senza scomodare Gramsci e la sua ben nota analisi, esclusivamente sociale ed assolutoria, è certo comunque che quel periodo nel nostro sud è oggi oggetto di una revisione critica profonda. Si sta forse esagerando nel “beatificare” in chiave di orgoglio localistico troppi assassini, ma sono storicamente accertati ed indubbi anche i comportamenti criminali delle istituzioni. Non vorremmo allargarci troppo, ma qualcosa di simile, più a nord, localmente ed episodicamente, è accaduto cento anni dopo.
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