di Gaspare Giudice
Ridiamo scuri
del nostro carcere
e bestemmiamo la sera.
Dentro il carcere delle belle giornate
e dell’assenza di cose che valga la pena ricordare
andiamo a lungo per una via Atenea
con un frullo silenzioso
che ci sommuove una nebbia opaca
nella scatola del cervello.
Tardi ci avviamo, con un rumore di scarpe,
alla Passeggiata, ch’è vuota dopo il film,
se non degli agenti di questura
a coppia col moschetto sulle spalle.
E cerchiamo invano l’Orsa Maggiore.
L’Orsa Minore è chiara invece
come il nome di Joan Bennet
e quello di Fritz Lang
e le inquadrature geometriche in bianco e nero.
È una storia triste senza morale
e non va presa sul serio
da nessuno forse fuorché da noi:
Dante Bernini ha scritto un poema
che comincia:
“Ora il giorno si tace attonito
sui battelli rovesciati alla riva.
“Marzia, non la fede
che ti lega alla verginità delusa…”
Ino Cigna è il nostro Oblomov:
ha abbandonato perfino il socialismo
e legge libri marinari:
ci parla la sera del “Narciso”
e della tisi di Benito Cereno.
A me cascano i capelli
in modo ineluttabile
e ne sono disperato
come di tutto il resto.
È una storia senza morale
e non va presa sul serio:
tutti ci prepariamo
a un concorso delle Ferrovie.
Io però vorrei fare il giornalista
Ino Cigna trovare una ragazza
capace di apprezzare il suo umorismo
Dario Sutera tappezzare una sala grandissima
di libri di Sofocle di Hoffmann di Rilke,
Dante stare dietro il banco di un bar
per agitare frappé
e manovrare la macchina del caffè espresso.
E se la sera qualcuno ci ha sentiti per caso
parlare per la strada
del papa megalomane
che si circonda di trenta cardinali
di Kafka
dei morti di Cadice
del colera d’Egitto
è perché questi sono i nostri discorsi.
Mentre vorremmo magari
un dio una bandiera una legge diversa
che ci trascini via
da una strada di pochi sogni già morti
che di mezz’ora in mezz’ora
ci conduce alla Porta dei Ponti
come alla porta di fondo del carcere
dove si bestemmia la sera. (1950)
via garibaldi ad agrigento
Questa poesia fu pubblicata su <<Il Siciliano nuovo>> il 19 Dicembre 1950. <<Il Siciliano nuovo>> era un foglio settimanale del Partito Comunista diretto da Girolamo Li Causi e mi rimanda a quarant’otto anni fa, a mezzo secolo fa, quando ero molto giovane.
Nel ricordo la gioventù e la città in qualche modo dovrebbero stare insieme, farsi una Agrigento giovanile e una gioventù agrigentina. Invece è avvenuto che la mia gioventù rimanesse quasi del tutto separata dalla città, la città separata dalla mia gioventù. Non nel senso che la mia gioventù non sia stata vissuta ad Agrigento, ma in quello che essa non vi respirasse vita sufficiente, la sentisse estranea, se ne tenesse volontariamente distaccata. Questa volontà di separazione è rimasta nel mio tempo, anche in quello presente. La nostalgia, quando sopravviene, riguarda la mia gioventù e non la città non mia. La città è ancora per me quella di questa poesia, un luogo di instabilità, propizio all’evasione. Tutti i personaggi di questa poesia volevano discostarsene, lasciarsela alle spalle e tutti hanno varcato quella porta dopo avere tanto passeggiato <<sulle balate della nostra giovinezza>>, come dice un verso della poesia di uno di loro, e per l’ultima volta hanno rivolto gli occhi a guardare quell’altro opposto enigmatico verso scritto sulla sua porta di fondo.
L’evasione mi ha portato in un altro luogo del mondo non meno instabile e provvisorio, questa volta provvisorio per sempre. Perciò non c’è gerarchia per me fra Agrigento e questo altrove. Agrigento piuttosto può vantare un diritto impossibile di prelazione. Mi ha preso per prima e forse, non so, avrebbe voluto ancora coinvolgere il desiderio nostalgico, accompagnarmi almeno nella memoria. C’è riuscita solo un poco. Tempo quindi perduto e non ritrovato?
Il vento soffiava con troppa foga di polvere contro quelle ringhiere. Infatti non avverto irriconoscenza nelle mie parole e il mio discorso probabilmente è incompleto, non del tutto sincero, va integrato, lascia spazio, lo sento, a una contraddizione.