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Antichità di Agrigento. Il tempio di Giove

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telamone del tempio di giove
telamone del tempio di giove

2 Giugno 2019 //  by Elio Di Bella

telamone del tempio di giove
telamone del tempio di giove

Eccoci, secondo la testimonianza di Diodoro Siculo, al più colossale tempio della  , ad uno dei più grandiosi che siensi mai innalzati.

Così egli, che certamente dovette esaminarlo coi proprii occhi, ce ne dà un’idea generale nel Lib. XIII C. 82 della sua Biblioteca storica : « La struttura dei tempii, e specialmente di quello di Giove Olimpico, rende testimonianza dell’amore per la magnificenza degli uomini di quel tempo, era quasi finito, e mancava solamente il tetto quando scoppiò la guerra. Furono allora interrotti i lavori né più si ripresero. Il tempio è lungo 340 piedi e 160 largo, alto 120 senza i gradini.

É il tempio più grande della Sicilia, e certamente per grandezza si può paragonare ad ogni altro anche fuori dell’isola, che se non fu mai compiuto, nondimeno il suo piano è evidente. Ora gli altri tempii hanno solamente muri, o hanno la cella circondata da colonne : questo invece ha le due qualità, poiché le colonne sono costruite insieme ai muri, di fuori rotonde, nell’interno quadrangolari ; all’esterno misurano in giro 20 piedi, e nella scanalatura può trovar posto comodamente il corpo d’un uomo. I portici hanno una maravigliosa lunghezza ed altezza. Nella parte orientale nel campo del frontone è scolpita la battaglia dei giganti di notevole bellezza e grandezza, in quella occidentale la presa di Troia, in cui si può vedere ogni eroe scolpito con le sue esterne speciali qualità. »

Così Diodoro, che ci sarà di duca, signore e maestro in questa illustrazione di quel famoso tempio, che ci ricorda il Colosseo di Roma per le sue immense proporzioni, e che, secondo Polibio, il quale forse lo dovette anche lui vedere, non sembrava secondo a nessun altro tempio greco.

Terone, quinto Re di Akragante, verso l’anno 480 av. G. C., alleatosi con Gelone, sconfisse a 13 ottobre di quell’anno gli eserciti di Anassila, che, alla sua volta, si era alleato coi Cartaginesi; e quando, dopo la famosa battaglia e strepitosa vittoria d’Imera, si fece la distribuzione del bottino, toccò agli Agrigentini un immenso numero di schiavi cartaginesi, che furono addetti alla costruzione delle muraglie, dei tempii, degli acquidotti, della piscina e di altre pubbliche opere. È a quest’epoca che probabilmente bisogna fissare la edificazione del tempio di Giove Olimpico, che non poté interamente coprirsi a causa delle guerre. Furono allora, assicura Diodoro, interrotti i lavori, né più si ripresero.

Nella costruzione di questo edificio, come di solito, venne usata la pietra arenaria, la quale è leggiera, friabile, e, per giunta, le colonne furono composte di piccoli pezzi tagliati a raggi o a cuneo, e fu questa, senza dubbio, la ragione per cui, non potendo sostenere l’enorme peso dei colossali capitelli e della intavolatura, cedettero anzi tratto, ed il tempio andò in rovina, restando in piedi solo tre giganti o cariatidi, che, alla loro volta, caddero a 9 dicembre del 1401, per negligenza dei cittadini, come ci racconta il Fazello: Tandem. Agrigentinorum incuria, anno salutis 1401, 5 id, decani. 10 ind. in estremas ruinas abiit. ( De Reb. Sic. Dec. Pr. Lib. 6, Cap. I). Il sorprendente avvenimento ci fu tramandato da un poeta contemporaueo coi seguenti versi latini, che si conservano negli Archivi municipali, e che vanno così tradotti:

Quelle rovine venerande belle

Che dell’opere famose e degli alteri

Edifìci e superbi, e delle immense

Ricchezze tue, o glorioso e chiaro

Agrigento, facean memoria e fede,

E delle tue virtudi erano illustri

Testimonii, son or, oimè’, per terra !

E sotto il pondo delle gravi e grosse

Mura, piegando i tre Giganti il collo

E le ginocchia e le robuste spalle,

Che eran di quella mole alto sostegno,

Mìsere andar nella rovina estrema

….e il dì funesto

Ch’elle andaron per terra, il dì fu nono

Del mese di dicembre, e della nostra

Salute l’anno si girava intorno

Mille quattrocent’un, nel quale il tempo,

Nemico al tuo splendor, andò superbo

Trionfator delle miserie tue.

 

I nostri padri, a serbare memoria di questo fatto, aggiunsero allo stemma della città, ch’era rappresentato da un castello con tre torri, la figura delle tre cariatidi, due maschi. Enceladus e Goeus, ed una femmina nel mezzo. Fama, che sostengono il castello col motto: Signat Agrigentum mirabilis aula Gigantum.

Di questo immane edificio, che, secondo i calcoli di Schubring, era lungo mentri 110,76; largo 55,68; alto senza contare i gradini, 35,10, pochissimo ci è rimasto, giacché quell’immenso mucchio di rovine fu, per lungo tempo, nel secolo scorso, come una cava di pietre da fabbrica, e con vero vandalismo grande quantità ne fu portata al mare e gettata nelle acque per costruire, coi suoi blocchi, un braccio del Molo o porto di Girgenti !… Il resto giaceva ammonticchiato, interrato, abbandonato col superbo nome di Palazzo dei Giganti ! Nihil aliud hodie eo cernitur loco, quarti insanorum molium cumulusus, Palatium Gigantum vulgo adhuc appellatus >(Fazel. De Reb. Sic. Dec. I Lib. 6 cap. 1).

Svegliatosi il culto per l’archeologia, destatosi un vivo interesse pei resti delle nostre gloriose antichità, dal 1779 al 1830, fu una nobile gara, tra dotti ed artisti, per la restaurazione e la ricostruzione del tempio di Giove Olimpico; e disparate e contraddicentesi opinioni manifestarono Riedesel, Winckelman, Quatremère de Quincy, Pancrazi, Winckelman, Haus, Serradifalco, Politi, Cockerell, Klenze, Lo Presti, Maggiore. Ma specialmente sulla collocazione delle cariatidi ed il sito della porta principale forte e disgustosa arse una polemica tra Has, Politi e Lo Presti.

Il marchese Haus manifestò a Mons. Airoldi, sopraintendente alle antichità, il desiderio di fare sgombrare il tempio di Giove Olimpico, ed ottenutosi il favore del Re, furono cominciati i lavori sotto la direzione del nostro concittadino, Sig. Giuseppe Lo Presti, ottimo giureconsulto, esimio poeta ed amorosissimo di belle arti; e per quanto fu possibile, dopo assiduo lavoro, si presentò l’aera dell’immenso edifìcio, e tosto cominciarono i disparati giudizi! Già l’inglese Roberto Cockerell, giovane ed eccellente architetto, sin dal 1812, fatto profondo studio sulle rovine di quel tempio, ne aveva accennato, in uno schizzo, il prospetto occidentale e la sezione verticale. Nel primo aperse due porte negli ultimi due intercolonii, nella seconda collocò una fila di giganti sull’attico della cella, sostenenti l’ultima cornice. Il siracusano Raffaello Politi, che già si era stabilito in Girgenti ed era tutto intento ad illustrare le nostre antichità, oppugnò questa opinione; ma poi, studii più accurati, gliela fecero accettare, comechè altri archeologi, allora e in appresso, si mostrassero non soddisfatti e manifestassero altri giudizii.

Se mi fosse lecito azzardare un parere, ripeterei qui la domanda, che, più tardi, fece l’illustre Avv. Giuseppe Picone nella sua Novella Guida per Girgenti: “Non sarebbe più verosimile che questi giganti o cariatidi fossero collocati nel primo piano da servire da pilastri a rinforzare il muro della cella, anziché debilitarlo col loro immenso peso e a quella enorme altezza ? Fra le rovine furono trovati assai pezzi di queste colossali figure, giganti, cariatidi o telamoni che dir sì vogliano, da poterne metter su fino ad undici e tutti dello stesso stile e della forma medesima. I corpi sono nudi, le teste con pochi capelli fermati da una specie di nastro, e le braccia hanno spiegate in atto di sostenere, parte dell’edificio. Una di queste colossali figure fu pazientemente composta da Raffaele Politi e tuttora giace, nell’immensa sua lunghezza di metri 7,68 nel mezzo del rovinato tempio. La semplicità ed una certa grazia lo dimostra opera del bel secolo dell’arte greca. Or tutto questo fa supporre che all’interno dell’edificio ci doveva essere un ornato più spiccante, consistente, in un numero di figure gigantesche in atteggiamento di esser caricate da peso enorme, che sostenevano con la testa e le braccia piegate indietro accanto alla testa. E poiché si son trovate le vestigia di undici di questi telamoni, non potevano esser collocati, in conferma anche dell’opinione sopra espressa, tre in sostegno della statua, che maestosa doveva torreggiare in fondo al tempio, ed otto, quattro per ogni lato, ad ornamento e sostegno della navata di centro? Tanto più che si è trovata una sola testa di donna, la gigantessa, che doveva esser situata in mezzo agli altri due giganti, che sostenevano la statua del nume.

Disparità di pareri ci sono anche sull’ingresso principale, che, al contrario degli altri tempii, aveva alla parte occidentale. Come si disse, secondo Cockerell, il tempio aveva due  porte negli intercolonii angolari. Politi invece, tolse la colonna di mezzo e vi aprì una grande , porta, e per sostegno dell’architrave vi pose un gruppo di tre cariatidi, che dal Cav. Klenze, dottissimo architetto del Re di Baviera, fu sostituito con una colonna intera. Alii alia dicunt.

La facciata orientale posava sopra sette colonne, e nel timpano era scolpita ad alto rilievo la lotta dei Giganti contro Giove; la facciata occidentale posava sopra sei colonne e portava scolpita nel timpano una scena della guerra di Troia; opera stupenda per magnificenza e per arte, in modo che sembrava, dice Diodoro, che le figure parlassero.

Girgenti, giugno 1913.

Can. G. Russo, La Siciliana, n.9-10, sett-ott 1913

 

 

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Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento, girgenti, tempio di giove, valle dei templi

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