Descrizione di Agrigento in un’opera stampata nel 1842
AGRIGENTO
La cittadella di Agrigento (Sicilia) era situata sul monte Agragas; la città giù nella valle presentava da lontano un maestoso spettacolo. Secondo Polibio fu innalzata da uno di Rodi; secondo Strabene, da una colonia di Jonii, circa cent’ ottant’ anni dopo la fondazione di Siracusa. Ma Tucidide asserisce che ebbe origine da una colonia venuta di Gela; prima si governò a monarchia, quindi a democrazia.
Falaride, così rinomalo per altezza d’ingegno e per immanità d’animo, pose mano nella signoria che venne quindi per alcun tempo in potere dei Cartaginesi. Agrigento nella sua maggior floridezza, dicesi non abbia contenuto meno di duecentomila persone, le quali, senza resistenza si diedero vinte all’autorità superiore di Siracusa.
Possiamo formarci qualche idea delle ricchezze di questa città da quanto ci racconta Diodoro Siculo, uno de’ suoi concittadini. Quando Exenete fu dichiarato vincitore dei giochi Olimpici (1), fece ingresso trionfale nelle mura seduto sopra un carro magnifico, corteggiato da più di trecento altri , tirali tutti da bianchi cavalli. Le vestimenta dei giovani erano fregiale d’oro e di argento, e nulla vi fu mai di più splendido. Gelila, il più ricco cittadino della contrada, innalzò alcuni appartamenti per accoglier gli ospiti e banchettare, in quella che i suoi molti domestici stavano alle porte della città per invitare tutti i forestieri alla magione del loro signore e condurveli.
Una violenta tempesta avendo costretto un centinaio di cavalieri a soffermarsi, Gelila li accolse tutti e gli fornì subito di vesti, di cui tenea in serbo gran quantità nella sua guardaroba.
Se questo racconto vale a porgerci qualche nozione delle ricchezze di lui, altro ve n’ha che può meglio farci conoscere le virtù del suo cuore. Rallegrava il popolo di spettacoli e feste; durante una carestia, salvò i cittadini dal morire di fame ; dotava le donzelle povere e sollevava dai bisogni e dalla disperazione qualunque genere di sventurati. Aveva fabbricate alcuno case nella città e nel contado per comodo dei viaggiatori che usualmente non accomiatava senza averli presentati di ricchi doni. Cinquecento naufraghi della città di Gela ricorsero a lui, e furono subito provvisti ciascuno d’un mantello e d’un abito.
Agrigento dapprima fu presa dai Cartaginesi. Era cinta di valide fortifìcazioni, e, come Imera e Selinunto, sedeva sulle coste della Sicilia rimpetto all’Africa. Perciò avvisandosi Annibale non poterla espugnare che da un lato solo, rivolse a quella parte tutte le sue forze; alzò poggi e terrazzi al livello delle mura, e fece uso delle macerie e dei frammenti delle tombe disposte intorno alla città, che a questo fine prese subito a demolire; ma una rabbiosa pestilenza invase l’esercito e menò strage d’un grandissimo numero di soldati. I Cartaginesi interpetrarono questa sventura come un castigo mandato dagli Dei per vendicare le ingiurie fatte ài morti, le cui ombre fantastiche parca vedessero passarsi innanzi nel silenzio della notte. Si rimasero dal demolir le altre tombe; si ordinarono espiazioni all’usanza cartaginese; per compiere al rito più barbaro e superstizioso, un fanciullo fu sacrificato a Saturno, e molle vittime furono gettate in mare ad onor di Nettuno.Gli assediati, che sulle prime avevano riportato qualche vantaggio, stretti in ultimo dalia fame, caduti da ogni speranza di soccorso, vennero nella risoluzione di abbandonar la città. La notte seguente fu destinata ad eseguire questo disegno. I lettori potranno di leggieri immaginarsi quanto dolore doveva opprimere quella miserabile popolazione nel momento di lasciar per sempre le sue case, le sue possessioni, la patria. Non si vide mai spettacolo più commovente.
Per tacere del resto, una turba di piangenti donne si traevano a mano i fanciulli inermi per difenderli dalla furia brutale del vincitore. Ma la circostanza più amara si fu certo la necessità urgente di abbandonare i vecchi e gli infermi incapaci di reggere ai disagi del cammino e di opporre la menoma resistenza. Gli esuli sventurati arrivarono a Gela, la città più vicina nel loro viaggio, dove furono confortati di lutti quei mezzi che si poteano aspettare in condizione cosi deplorabile.
Intanto Imelcone entrava dentro le mura e metteva a morte quanti gli capitavano alle mani. Il bottino fu immensamente ricco quale potean promettersi da una delle città più opulenti della Sicilia, che conteneva duecentomila abitanti, che non avca mai sofferto assedio e, per conseguenza, saccheggio. Si trovò una moltitudine infìnita di pitture, di vasi, di statue d’ ogni genere, perchè gli abitanti avevano avuto mai sempre un gusto squisito per le arti belle. Fra le altre curiosità si trovò il famoso toro di Falaride, e fu mandato a Cartagine.
In tempi posteriori i Romani assalirono Agrigento, allora occupata dall’armi cartaginesi, e impadronitisene, le persone principali, per comando del console, furono battute colle verghe, quindi decapitate, e il popolo condotto in ischiavitù, fu venduto al migliore offerente. Dopo ciò, ben di rado nella storia si fa menzione di Agrigento, e non è facile l’assegnare il tempo prefìsso in che l’antica città fu distrutta e fabbricata la nuova (Gergenti); questa cadde poi nella rovina, e gli infelici abitanti, cacciati dai Saraceni, si rifugiarono tra le nere ed inaccessibili rupi di Girgenti.
Nei tempi antichi Agrigento era venuta in gran fama per i modi ospitali, per il lusso di vivere dei suoi abitanti. Da una parte della città si allargava un ampio lago fatto ad arte, circa un quarto di miglio la circonferenza, scavato nel vivo sasso e provvisto di acque abbondanti che gli scendevano dalle colline.
Profondo trenta piedi conservava una gran quantità di pesci per le pubbliche feste, nutriva cigni ed altri uccelli a sollazzo degli abitanti, mentre la profondezza dell’acque li metteva al sicuro da un assalto repentino.
Questo lago, oramai secco, fu cambiato in giardino. Non meno strano a credersi, sebbene tutto lo spazio dentro le mura dell’antica città abbondi di vestigia di grandi edifizii, non si trovano rovine che si possa congetturare appartenessero a luoghi di pubblico trattenimento. Pure gli Agrigentini amavano passionatamente le pompe, le drammatiche rappresentazioni, e l’essere uniti ai Romani, forse v’introdusse i feroci giuochi del circo. Sembra che i teatri e gli anfiteatri siano eretti particolarmente per resistere agli oltraggi del tempo; ma nel luogo d’Agrigento non se ne trova vestigio; pare tuttavia che gli abitanti molto si dilettassero della scoltura e della pittura.
Il tempio di Giunone andava superbo d’uno dei più famosi dipinti dell’antichità, celebrato da molti storici. Zeusi avea fermo nell’animo di superare quanto era stato fatto prima di lui, e porgere al mondo il tipo della perfezione umana. A questo fine si giovò di tutte le più belle donne di Agrigento, le quali ambivano mostrarsi alla sua presenza, ne scelse cinque a modelli, e raccogliendo in una tutte le perfezioni di queste bellezze, compose l’imagine della Dea. Questa fu riguardata come il suo capolavoro, ma sgraziatamente abbruciò quando i Cartaginesi s’impadronirono di Agrigento. In quella circostanza, molti cittadini si rifugiarono nel tempio, come in luogo di salvezza; ma non si tosto videro assalite le porte dall’ inimico, risolvettero appiccarvi fuoco, e vollero anzi morire tra le fiamme che sottomettersi al potere del vincitore. Nel tempio di Ercole si conservava un’altra pittura di Zeusi; Ercole era rappresentalo in culla in atto di strozzare i due serpenti, mentre Alcmena ed Anfitrione, dipinti con tutti i segni della maraviglia e dello spavento, mettevano piede sul limitare. Plinio dice, che il pittore stimando impagabile questo lavoro, non volle metterlo a prezzo, ma ne fece presente agli Agrigentini, perchè lo collocassero nel tempio d’Ercole.
I templi erano molto magnifìci. Quello d’Esculapio, due colonne e due pilastri del quale sorreggono presentemente un rustico casolare, non fu meno celebre per la statua di Apollo. 1 Cartaginesi ne lo tolsero in quella che il tempio di Giunone abbruciava, lo trasportarono nella loro patria, dove por molti anni continuò ad essere il più grande ornamento di Cartagine, finché fu restituito da Scipione nell’eccidio di quella città. Alcuni Siciliani asseriscono, ma è supposizione di poco fondamento, che questa statua fosse di lì trasportata a Roma, dove rimane ancora, maraviglia dei secoli, conosciuta da tutto il mondo sotto il nome di AfKjllo di Belvedere.
Un edifizio d’ordine dorico, dello il tempio della Concordia, conserva tutte le sue mura, le colonne, l’architrave o il frontone. Uscendo dal tempio della Concordia si passeggia tra fila di sepulcri tagliati in marmo, opera della mano dell’ uomo o di quella della natura. Alcuni massi stanno a forma di feretri; altri trapunti di piccoli spiragli quadri dovettero servire a diversi modi di sepultura, e come ricettacoli delle urne. Un macigno di gran peso giace in una strana posizione ; per mancanza di sostegno e per crollo di terremoto staccatosi dalla roccia principale, rovinò giù dal pendio, dove ancora rimane supino colle cavità volte all’ insù. Qui v’era pure il tempio dedicato a Cerere ed a Proserpina, colle rovine del quale si fabbricò una chiesa che esiste ancora a’ dì nostri.
Quanto al tempio di Castore e Polluce, la vegetazione ha coperte le parli più basse dell’ edifizio, e solamente alcuni frammenti di colonne biancheggiano in mezzo alle viti. Del tempio di Venere resta quasi una metà; ma la gloria del luogo era quello di Giove Olimpico, lungo trecento quaranta piedi, largo sessanta ed alto cento e venti. Le sue colonne, i suoi portici erano del più bello stile di architettura, e i dipinti e i bassirilievi eseguiti con un gusto ammirabile. Sul muro orientale si vedeva scolpita la battaglia dei Giganti, mentre l’occidentale rappresentava la guerra trojana, precisamente in armonia colla descrizione che ci trasmise Virgilio delle pitture del tempio di Giunone a Cartagine.
Diodoro Siculo leva a cielo la bellezza delle colonne che sostengono quest’ edifizio , l’ammirabile costruzione dei portici e lo squisito gusto dei bassi rilievi e dipinti ; ma, soggiunge, questo tempio magnifico non fu mai condotto a termine. Cicerone contro Verre, parla di statue che quegli ne portò via; Swinburne asserisce, che non rimane pietra sopra pietra, e che certamente è impossibile, senza abbandonarsi alle congetture, scoprir le traccio del suo piano e delle sue dimensioni. Aggiunge però che quello di S. Pietro a Roma è due volte più grande di questo famoso tempio, perchè più alto di duecento e quattordici piedi, più lungo di trecento e trentaquattro, e più ampio di quattrocento e trentatrò.
Oltre ciò, si vede ancora oggigiorno un monumento di Terone re di Agrigento, uno dei primi tiranni della Sicilia. La grande antichità di questa mole si può argomentare da che Terone non è solamente menzionato da Diodoro, da Polonio, e da storici più moderni, ma sì ancora da Erodoto e da Pindaro, il quale gli intitolò due delle sue odi olimpiche, cosicché questo monumento deve superare duemila anni. È fatto a somiglianza di una piramide, formapiù durevole di tutte, e circondato d’alberi annosi che gettano un’ ombra cupa e disuguale sulle rovine.
A questi grandi avanzi di Agrigento ed a tutta la montagna su cui posano, dice il signor Brydone, sta appiccicata una immensa concrezione di conchiglie, le une cacciate sulle altre e cementate da una sorta di arena o di ghiaia che divenne più forte e fors’anche più durevole del marmo stesso. Questa pietra, bianca prima di essere esposta al contatto dell’aria, nei templi e nelle rovine si tinse d’un lai bruno che muore in nero. Questo conchiglie si trovano propriamente sulla sommità della montagna, alta per lo meno quattordici o quindici centinaia di piedi sul livello del mare.
Il famoso Empedocle, uno dei più belli spiriti che abbiano ornata la terra sortì i natali in questa città. È ben nota la sentenza di lui a riguardo de’ suoi concittadini : che scialacquavano ogni giorno il loro danaro, come se credessero non potesse esaurirsi mai ; e fabbricavano con una magnificenza e solidezza, quasi avessero per certo di vivere eternamente (1).
(1) Livio, Cicerone, Diodoro Siculo, Rolliti, Brydonè.
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