Di Dante Bernini
La gastronomia agrigentina restò famosa nell’antichità per la sua ricchezza e raffinatezza, lo stesso Empedocle, o chissà forse Platone, le fonti al riguardo sono imprecise, aveva potuto affermare degli agrigentini che banchettavano come se dovessero morire all’indomani e costruivano come se non dovessero morire mai.
Il pitaggiu
Non so bene di che fossero fatti quei banchetti, che tuttavia ancora due secoli fa, come vedremo, nella Girgenti visitata da Patrick Brydone erano oggetto di compiaciuta e divertita ammirazione. Non pare tuttavia che sia sopravvissuta una tradizione gastronomica raffinata un ricca di Agrigento, il piatto più tipico essendo il cosiddetto pitaggiu, evidentemente dal francese potage, che secondo competenti pareri era forse all’origine una minestra di soli vegetali. Nella versione sopravvissuta a invece come base delle polpette di carne a cui si accompagnano carciofi, piselli e fave. Con Andrea Camilleri più di una volta abbiamo discusso se il pitaggiu vada preparato con o senza una salsa di pomodoro, ma pare che questa variante dipende unicamente dalle tradizioni di ciascuna famiglia.
Comunque la vera difficoltà di questo piatto sta proprio nella scelta degli ingredienti vegetali, che non doveva essere agevole mettere insieme quando ancora non esisteva l’industria del surgelato, infatti, quando arriva la stagione dei piselli, il raccolto dei carciofi sta generalmente per esaurirsi e l’epoca delle fave e ormai molto avanzata, con frutti che cominciano già ad indurire, ed è su questo risicato margine che si deve giocare per tentare di ottenere una mescolanza gradevole.
Se il pitaggiu nacque veramente come minestra esclusivamente vegetale, esso non doveva essere molto diverso dalla cosiddetta frittella palermitana, fatta di carciofi, fave e piselli, cotti con le cipolle e poi fatte riposare in una salsa agrodolce, fatta semplicemente, a crudo, di aceto e zucchero semolato; se ne colmano le zuppiere perché può essere consumata anche a distanza di qualche giorno. I palermitani che per caso conoscono il pitaggiu, e sono pochi, perché palermitani che hanno imparato dai monsu delle famiglie nobili cucina più importante non amano mettersi a confronto con altri siciliani, non vi riconoscono alcun nesso con la loro frittella, ma non vedo come lo si possa negare, anche se per l’aggiunta ai vegetali delle polpette di carne, il piatto ha finito per acquistare ad Agrigento una funzione del tutto diversa rispetto alla tavola palermitana, cioè di vera e propria pietanza e non più di contorno di piatto di mezzo.
U Cudduruni

Nei libri odierni di gastronomia siciliana, essendo venuta di moda la cucina povera, la cucina mediterranea, la cucina chissà se si può dire etnica ed ecologica insieme, un posto di primo piano tiene comunque lo “sfinciuni” che più propriamente si chiama ad Agrigento “cudduruni”, ed è una pizza due strati alti e soffici imbottita di pomodori, cipolle caciocavallo grattugiato.
i ricordi di Goethe
Mi pare opportuno tuttavia ricordare che la povera famiglia presso cui trovò ospitalità Girgenti Goethe col suo compagno di viaggio, il pittore Kniep, viveva preparando maccheroni “e maccheroni della pasta più fine, più bianche più minuta. Questa pasta si paga il più caro prezzo, quando, dopo aver preso la forma di tubetti, viene attorta su se stessa dalle affusolate dita delle ragazze, in modo da assumere la forma di chiocciole… La pasta che abbiamo gustato mi è sembrata, per candore delicatezza di gusto, senza rivali”.
Adesso le grosse industrie pasta arie hanno preso il posto delle tenere ragazza di Girgenti, che arricciavano probabilmente “cavateddi” con le loro “affusolate dita” (Goethe all’epoca del suo viaggio in Sicilia aveva meno di trent’anni e non era tetragono alle tentazioni femminili), così come hanno fatto scomparire dal mercato il pastificio di Piedigrotta, forse il più antico impianto industriale di Agrigento, nella stessa zona della “centrale” elettrica e del gas o metrò.
I ricordi di Patrick Brydone: le cento portate
Ancora non si era spenta al tempo del viaggio di Goethe, ed anzi vigoreggiava, quella tradizione dei banchetti agrigentini su cui c’informa forse con qualche approssimazione il gentiluomo scozzese Patrick Brydone in una delle lettere raccolte nelle viaggio in Sicilia e a Malta – 1770, pubblicate a cura di Vittorio Frosini da Longanesi nel 1968.
In data 16 giugno 1770 egli scrive al suo corrispondente William Beckford di Londra, o meglio riferisce al lettore del suo libro che è uno dei tanti pubblicati nelle ‘700 dei viaggiatori impegnati nel Grand Tour, complemento d’obbligo dell’educazione di un giovane nobiluomo (quello che Brydone accompagnava nel suo viaggio spinto fino in Sicilia era il figlio di Lord Fullarton ): “pranzammo insieme al vescovo, come si era deciso, e ci alzammo da tavola convinti che gli agrigentini non potevano conoscere la vera arte del banchetto meglio dei loro discendenti, ai quali hanno trasmesso una buona dose delle loro virtù e dei loro vizi di società. Chiedo scusa di chiamarli così, e vorrei tanto avere a disposizione un nome più tenero: mi pare di ricambiare con nera ingratitudine l’ospitalità offertaci, di cui resteremo sempre debitori. A tavola eravamo esattamente in trenta, ma sulla mia parola non credo che piatti siano stati meno di un centinaio.
Erano tutti guarniti con le false più succulente delicate, che non ci lasciarono alcun dubbio sulla verità del vecchio proverbio romano Siculus coquus et sicula mensa: esso non è nemmeno valido ora che a quei tempi. Non mancava nulla di ciò che può stimolare stuzzicare il palato, nulla di quello che si può inventare per creare l’appetito dove non c’è, nonché per soddisfarlo. Durante il convito furono serviti alcuni dei piatti preferiti dagli epicurei romani, proprio gli stessi: in particolare le murene, così spesso menzionate dagli antichi autori. Si tratta di una specie di anguille che si trovano soltanto in questa parte del Mediterraneo, e che da qui vengono inviate a molte corti d’Europa. Non sono altrettanto grasse succulente dalle anguille comuni, sicché se ne può mangiare in maggiore quantità: la carne bianca come la neve, ed è proprio una vera ghiottoneria.
Ma una ghiottoneria ancor migliore è stata escogitata dal lusso e dalla raffinatezza moderna: si tratta del fegato dei polli, che si è riusciti a fare ingrossare a dismisura, in modo da fargli acquistare un sapore squisito. E’ davvero una pietanza incomparabile, ma i mezzi per procurarsela sono così crudeli che non li considero neppure a te… I siciliani mangiarono di tutto, e tentarono di farci fare altrettanto. La compagnia era particolarmente allegra e non smentì in nessun modo le antiche caratteristiche: parecchi di loro erano più che brilli assai prima che ci si alzasse da tavola, ed io paventava già una seconda edizione della scena delle triremi, visto che cominciavo a barcollare indegnamente”.
Forse non è male che si chiarisca qui riferimento alla “scena delle triremi”, che si trova descritta nel Fazello, storico del Cinquecento originario di Sciacca, monaco dell’ordine dei predicatori, dal cui originale latino così tradotto: “di tal nome il secondo libro recita la storia: alcuni giovani dell’ordine Patrizio, convenuti una volta in città, gareggiando un po’ tra loro nel numero dei bicchieri, si scaldarono col vino tanto che furono colti da capogiro e tutta la casa gli sembrava agitarsi, girare e rovesciarsi, sembrandogli di conseguenza di stare in una nave e di correre pericolo, mentre gli strumenti e tutti i vasi o qualunque cosa in cui gli capitasse di imbattersi in quel giramento di testa, come se scaricassero una nave velocissimamente gettarono nella via come in mare e scagliarono anche contro gli accorrenti di qua e di là, acclamando a voce alta quelli che afferravano le cose gettate, i preziosi e altro ancora. Eccitati da costoro, accorsero popolani cittadini, e il giorno seguente Senato si fece vivo per ammonirli a civile moderazione.
Ed essendo essi sprezzanti a ragione dell’ubriachezza, uno di loro disse: o uomini Tritoni, io colpito dalla paura del naufragio, mi gettai fra eletti, e già qui nel fondo”. Essendo ancora mezzo addormentato espresse altri deliri dello stesso genere. Ma di nuovo multato, con gli amici, rese grazie al Senato pur inceppandosi. Subito dopo tutti, quando salvati, dicono, dalla tempesta entriamo nel porto, a voli tra gli dei marini, come ad dei salvatori, in questa comune patria eleggeremo nel foro statue bronzee. Quando costoro furono tornati in sé dopo due giorni, avendo smaltito il vino, per memoria dell’evento e per questo turpe esempio di ubriachezza, agli edifici fu dato dagli agrigentini il nome di triremi”.
I ricordi del capitano William Henry Smyth
Il riferimento del Brydone non piacque, com’è ovvio, ai suoi ospitali commensali, in gran parte ecclesiastici, i quali protestarono contro i suoi commenti con gli altri ospiti britannici che capitavano ad Agrigento, e risentimento fu raccolto ad esempio, molti anni dopo, dal capitano William Henry Smyth, che ormeggiò la sua nave nel porto di Girgenti nel 1815. Brydone, infatti, nel seguito della sua lettera del 16 giugno non era stato tenero con i commensali del vescovo di Girgenti: “ad un dato punto ci pregarono di preparare una coppa di ponce, una bevanda di cui avevano spesso sentito parlare ma che non avevano mai gustata. In un momento ci portarono gli ingredienti, e riuscimmo a prepararlo così bene, che lo preferirono a tutti i vini che erano a tavola, nonostante ce ne fosse di ogni qualità.
Fummo costrette a riempire la coppa così spesso, che già mi aspettavo di vederli finire quasi tutti sotto la tavola. Per loro era ponzia, e ne facevano le più alte lodi, dichiarando che Ponzio (alludendo a Ponzio Pilato) era un gran brav’uomo, migliore anzi di quanto non avessero creduto finora. Dopo il pranzo però uno di loro, un reverendo canonico, fu preso da una violenta crisi di stomaco, e mentre vomitava si volse a me con una faccia tutta pentita e scuotendo il capo gemette: “Ah ! Signor capitano, sapevo che Ponzio era un grande traditore!”. Un altro che per caso lo aveva sentito, esclamò: “aspettate signor canonico: niente al pregiudizio del signor Ponzio, vi prego. Ricordatevi che Ponzio vi ha fatto canonico, e Ponzio affatto di Sua eccellenza un vescovo. Non scordatevi mai dei vostri amici”.
Il racconto divertito un po’ blasfemo del massone Brydone provocò, quando fu conosciuto, il risentimento degli agrigentini e lo Smyth non mancava di annotare: “e spiacevole il fatto che uno scrittore così vivace come Brydone sia così incline alle allusioni pungenti nei riguardi delle persone, e che lavori con un’abitudine tanto cattiva da sacrificare un amico per amore d’una buona storia. Mente, per palliativo, devo dire che, sebbene durante una cena per una celebrazione di una festività annuale (come quella già menzionata), l’esuberanza degli ospiti inglesi e la nuova bevanda (punch), il cui potere era loro sconosciuto, può avere condotto questi reverendi padri della Chiesa a casuali eccessi, la loro generale condotta ben lungi dall’essere intemperante”.
La magnanimità dello Smyth e davvero esemplare, e gli viaggi scrive per motivi scientifici non ha bisogno di colorire le sue descrizioni, né soprattutto ha bisogno di giudicare coloro che l’hanno ospitato con tanta grazia con tanto beneficio per lui; per quanto fosse un militare della Royal Navy, non permise che lo spirito imperiale britannico scalfisce l’obiettività della sua osservazione, anche degli uomini, e degli uomini la pietà.
Ma riprendiamo il racconto del Brydone: “tra i commensali (alla tavola del vescovo) abbiamo trovato parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo che eravamo loro confratelli. Insistettero perché si restasse ancora qualche giorno con loro, e offrirono di darci delle lettere per Palermo e per qualunque altra città volessimo visitare. Ma il caldo sta aumentando, e non osiamo prolungare la nostra spedizione. Temiamo di essere colti dallo scirocco un vento che si crede provenga dagli ardenti deserti africani, e che a volte e assai nocivo e pericoloso per chi viaggia in Sicilia.
Ma mi accorgo di avere commesso vari particolari del banchetto. Avrei dovuto dirti che si trattava del convito che la nobiltà di Agrigento offre ogni anno in onore del vescovo. Era imbandito in un immenso granaio sulla riva del mare pieno a metà di frumento: un sito scelto apposta per evitare il caldo. Il vasellame era tutto d’argento.
La frutta venne portata in tavola quasi tutta con la seconda portata, un sistema senz’altro migliore del nostro anche se ci parve strano. Il primo piatto che passò in giro era di fragole. I siciliani furono molto sorpresi nel vedere che noi le mangiavamo compagne di zucchero; tuttavia dopo un assaggio provarono che la combinazione non era affatto male. Il dessert consisteva di frutta di ogni tipo. I gelati ancora più svariati, erano in forma di pesche, fichi, arance, noci, eccetera, e la somiglianza col frutto era tale, che chi non fosse abituato i gelati poteva benissimo cadere in inganno…”.
Il vescovo alla cui mensa e il Brydone era stato invitato era monsignor Lanza succeduto da poco monsignor Lucchesi morto nel 1768. Trascritto dalle “Memorie storiche agrigentine” di Picone: “il 4 ottobre 1768 il magnanimo lucchesi moriva e gli succedevano Lanza e il cardinale Branciforti, i quali nel periodo del loro vescovado nulla fecero che ne ridesti la memoria”.
Forse monsignor Lanza, il quale rimase sulla cattedra agrigentina solo per pochi anni essendo morto nel 1775, non immaginava che sarebbe passato invece alla storia per l’impudenza di un piccolo cialtrone scozzese, fra l’altro massone per giunta figlio nipote di pastori presbiteriani.