
Dalle zolfare di Girgenti-di Alessio Di Giovanni
-Confessioni intime (da Il marchesino 5 febbraio 1899)
(trascrizione di R.Anzalone del 7 maggio 2006)
“…Seguendo l’esempio del Vasari, comincio col dirvi che io sono agrigentino puro sangue, giacchè son nato in Cianciana nell’autunno del ’72: erroneamente, quindi, s’è detto o s’è stampato sul mio conto che io sia nativo di Noto.Passai l’infanzia e la fanciullezza, là nella bella valle del Plàtani, quella valle benedetta sempre presente al mio cuore, anche nella lontananza, come la cosa la più cara, la più prediletta, la più amata. La mia famiglia, a quei beati tempi possedeva le più ricche zolfare del paese e campagne vaste e bellissime, e così i miei primi anni io passai in mezzo ai contadini e ai zolfatai, verso i quali io nutrivo, fin d’allora, un affetto speciale; in mezzo alle colline del mio paese così belle e tranquille, d’una tranquillità malinconica, patriarcale, solenne, che ti va dolcemente al cuore e ti lascia pensoso.
La posizione finanziaria di mio padre e la sua carica di sindaco, autorevole e stimato del paese, attiravano continuamente, in casa nostra, gente d’ogni risma e d’ogni condizione; e avevo, spesso, quindi, occasione di assistere, non solo al monotono e gramo svolgersi della vita paesana, ma anche a scene caratteristiche e ignote ai più, spesso pietose e rattristanti.- Di queste due si fissarono, con solco profondo, nel mio animo di bimbo e vi lasciarono un’impronta incancellabile:e, prima, la tortura che due guardie campestri inflissero, alla mia presenza, a un povero contadino, accasciato dagli anni e dagli stenti, che vivacchiava facendo panieri e corbe,intrecciate di canne e di vimini.
Esso nel più fitto inverno, costretto dalla fame, era andato a rubare canne e rampolli di ulivo, necessari al suo mestiere, nel campo di un ricco proprietario del paese; e le guardie campestri avean trascinato e chiuso il povero vecchio in una cella del soppresso convento dei Minori Riformati: gli avean stretti i due pollici tenacemente con una cordicella che via via com’egli s’incaponiva nel suo ostinato mutismo, stringevano, stringevano sempre più senza pietà, accompagnando la tortura lenta e dolorosa, con delle sommesse parole di scherno, con dei: parla,parla,carugnuni! Incalzanti, più sommessi ancora!…Alla mia intercessione pietosa le guardie risposero:-‘Ossa si zzitti c’avi a cantari sttu carugnuni! Manzinnò natri di facci la paamu!…
E il povero vecchio,stremato di forze, aveva finito col cantare(nel gergo:manifestare la verità), ma a me rimase profondamente scolpita nell’animo l’espressione dolorosa del suo viso magro e bruciato dal sole, e quei due pollici lividi dal freddo che diventavano d’un violetto raccapricciante sotto le mordaci…carezze della poco cristiana cordicella. Così mi rimasero scolpiti nell’animo la faccia scarna e terrosa, lo sguardo stanco e le parole amare d’un zolfataio che stava a mangiare avidamente, in un quieto pomeriggio di giugno, la minestra con le fave, dinanzi l’uscio della sua casuccia, e a me che giravo il paese, con i miei compagni, nella speranza di raccogliere denari per non so quale festicciola che noi ragazzi preparavamo a San Luigi, rispose:-Chistta sula àju pi fforza! Si la voli òssia si la pigghia!…
Sono sciocchezze, queste, se volete; ma son delle sciocchezze che io non ho potuto ancora dimenticare! E così, ogni volta che prendo la penna in mano per fermare sulla carta i fantasmi del mio pensiero, senza volerlo, mi tornano, netti e distinti, dinanzi gli occhi della mente, il povero vecchio torturato dalle guardie campestri e lo sguardo stanco di quell’altro; e mi sento stringere il cuore e non so più scrivere cose allegre, che facciano piacere alle belle signore.
Al mio paese compio le elementari: passata la mia famiglia, nell’84, a Palermo, essa aveva piacere di tirarmi su per prete, visto e considerato che io portavo lo stesso nome dell’unico mio caro ed impareggiabile zio paterno. Questo mio zio, dopo una gioventù fortunosa, aveva dato un sincero e spontaneo addio alla vita spensierata, ed aveva abbracciato(lui bello, ricco, giovane, seguace di Garibaldi e laureato in legge per giunta) il ministero ecclesiastico; ma quella di mio zio era stata una irresistibile vocazione, tanto ch’è riuscito un vero sacerdote, buono, pio, modesto, di bforte e soave carattere. Ma io non avevo la vocazione del mio caro parente, e di più, incoraggiato dall’esempio di mio padre, il venerando storico di Casteltermini che tutti gli studiosi di cose siciliane ben conoscono, nutrivo dei segreti sogni di gloria e volevo consacrarmi alla letteratura e alla poesia, senza pastoie e senza inciampi.
Passai così parecchi anni dolorosi nella Cappella Palatina dove mi avea chiamato monsignor Di Marzo, lo egregio studioso del Gagini e buono amico della mia famiglia. In quel sacro cimelio, mi innamorai pazzamente dell’arte bizantina, sorridente, con sì leggiadra formosità, per le volte e gli altari dell’adorabile cappella; e sempre più mi stancai di quella piccola tonaca che portavo addosso e che mi pesava terribilmente peggio della cappa di piombo ai dannati di Dante. Fattta che, un bel giorno, buttai via ogni cosa, e feci, poco dopo, le mie prime armi in giornalismo, combattendo, con lo slancio entusiastico e sincero proprio dell’età; un prete appunto della Cappella palatina, che non contento della sua qualità precisa di buon storico, volle improvvisarsi intempestivamente anche un critico d’arte, dicendo male (nientemeno!) del Lo Jacono, nel Supplemento che il Giornale di Sicilia pubblicava per l’Esposizione nazionale di Palermo.
Io, che non conosco ancora personalmente il Lo Jacono, ma che però lo ammiravo con vibrato entusiasmo, restai sorpreso ed indignato insieme al Pipitone e ad altri, di quella ingiustificata carica a fondo contro il valorosissimo artista palermitano; e mostrai il mio risentimento con un articolo che, pubblicato dalll’Amico del Popolo di Michele Serra;ebbi la fortuna di acquistarmi la preziosa amicizia del sovrano paesista del Dopo la pioggia e il plauso di molti artisti e persone competenti nell’arte.
Incoraggiato così, anche dal Serra, buttai giù altri articoli sul De Maria, sul Di Giovanni, sul Cortegiani, su Calcedonio Reina, ecc. Ebbi, a questo modo, la soddisfazione di attirarmi l’odio di alcuni pezzi grossi della letteratura palermitana, ma anche la stima del De Maria, del Di Giovanni, del Reina, del Civiletti, del Cannicci, ai quali sono legato ancora da affettuosa, cordiale amicizia: e gli incoraggianti entusiasmi di mio fratello Cepparelli, che da Firenze, seguiva, con tenerezza amichevole, rara a questi lumi di luna, quei miei primi passi e m’incoraggiava e mi spronava sempre più.
Precipitate le sorti della mia famiglia, proprio quando il Pedone Lauriel mi proponeva di raccogliere gli articoli pubblicati dall’Amico del popolo (articoli che parecchi giornali del continente mi avean rubato), consigliandomi di aggiungerne ad essi altri sulle rimanenti pitture esposte, in modo da formare un volume completo sull’arte dell’esposizione, che egli mi avrebbe pubblicato con le migliori offerte; e quando, nel frattempo, studiavo presso la biblioteca comunale di Palermo, gli autografi del Meli per uno studio critico che volevo scrivere (e ne avevo dato già saggi fortunati nel Fanfulla della Domenica, sul grande poeta del Polemuni: proprio allora dovetti ritornare alle mie colline.
E vi tornai con l’animo rinnovellato dalle forti pitture di Niccolò Cannicci, il valorosissimo maestro senese che aveva espresso a Palermo varie tele tra le quali:La Siesta: un paesaggio malinconico e solitario, nel quale si svolgeva una delle scene più comuni della vita campagnola toscana: ma una scena resa con tale forza magistrale da dare l’immediata suggestione e quasi la dolorosa nostalgia del vero .
Quella verità greggia ritratta con gentile calma serena, con intuito geniale ed amoroso, con rara parsimonia di colore; quella maniera semplice e meravigliosamente vera di rendere senza lenocinii, senz’arcadismi, senza importature fittizie la vita delle campagne, quel sentimento alto malinconico , accorato, diffuso in ogni pennellata della mirabile tela, come un linguaggio arcano che parlasse degl’ignorati dolori della povera gente, dell’arcana armonia della natura delle meste vallate valdesane, erano la mia dannazione. Contemplando la sagoma serena dei miei poggi, certe vallate malinconiche e piene di mistero, certi uliveti raccolti nell’ineffabile quiete dei suggestivi tramonti d’autunno:assistendo alle mie scene della vita campagnola, ero tentato fortemente di provare il procedimento artistico del Cannicci, di seguirne l’esempio. Ma come?…
Prima lo feci con alcuni bozzetti di vita agrigentina che pubblicai nei giornali politici di Palermo, e poi con i versi di Maju sicilianu, che videro la luce anni dopo, in Girgenti, presso Francesco Montes, il bravo tipografo, alla cui cordiale amicizia io devo tanto. Non avevo mai scritto versi in vernacolo; solo raccogliendo i canti popolari della mia Valle mi venne fata la prima ottava, e dopo la prima la seconda e così via…
Le scrivevo in campagna, la notte, al buio, sul primo libro capitato, col lapis, senza dar loro importanza, tanto per quietare la smania che mi struggeva e che solo un pennello e una tavolozza che avessero ubbidito, con franchezza paziente, il mio pensiero avrebbero potuto quietare.Ma invece d’un pennello avevo solo un piccolo cannello d’un soldo con una penna irruginita, e invece della tavolozza una boccetta d’inchistro da due: e, facendo di necessità virtù, me ne servii come meglio seppi e potei.
Ma prima, però, studiavo la vita contadinesca dal vero, con coscienza, con troppa coscienza, tanto che finii magari con lo zappare per provare…quello che provano i contadini (ogni giorno, poveretti, non per una semplice mezz’ora o per un esperimento), e di vestire la cappa del superiore.”