La città fu fondata nel 581 A.C. da alcuni abitanti di Gela, originari delle isole di Rodi e di Creta, col nome di Akragas, dall’omonimo fiume che bagna il territorio. La dominazione greca durò circa 370 anni, durante i quali Akragas acquistò grande potenza e splendore, tanto da essere soprannominata da Pindaro “la più bella città dei mortali”, come testimonia la meravigliosa Valle dei Templi.
Inizialmente si instaurò la tirannide di Falaride (570-554 A.C.) che fu caratterizzata da una politica di espansione verso l’interno, dalla fortificazione delle mura e dall’abbellimento della città. Tuttavia Falaride fu meglio conosciuto per la sua crudeltà e spietatezza e per l’uso del toro di bronzo come strumento di tortura per le vittime sacrificali. Il condannato veniva posto al suo interno e del fuoco riscaldava continuamente il toro finché egli non moriva ustionato. Durante l’agonia la vittima emetteva dei lamenti che, come dei muggiti, fuoriuscivano dalla bocca del toro. Il suo ideatore, Perillo, fu il primo a provarne gli effetti. Odiato dal popolo, Falaride morì lapidato e, poiché egli amava vestirsi di azzurro, vennero proibite le vesti di quel colore.
Il massimo sviluppo si raggiunse con Terone (488-471 A.C.). Durante la sua tirannide la città contava circa 300.000 abitanti e il suo territorio si espandeva fino alle coste settentrionali della Sicilia. Divenuta grande potenza militare, Akragas riuscì a sconfiggere più di una volta Cartagine nella guerra per il controllo del Canale di Sicilia. Dopo la morte di Terone iniziò un regime democratico (471-406 A.C.) instaurato dal filosofo Empedocle, il quale rifiutò il potere offertogli dal popolo stesso. È in questo periodo che si assiste alla costruzione di numerosi templi e ad una grande prosperità economica ma, nel 406 A.C, i cartaginesi invasero la città distruggendola quasi completamente.
Nel 339 A.C., grazie al corinzio Timoleon la città, soggetta all’influenza di Siracusa, venne ricostruita e ripopolata. Nel 210 A.C., con la seconda guerra punica Akragas passò sotto il controllo dell’impero romano col nome latinizzato di Agrigentum.
La città si dispone sulla sommità (circa m 300-350 sul livello del mare) di due colline strette e lunghe, disposte in senso grossolanamente est-ovest, il colle di Girgenti ad ovest e la Rupe Atenea, ad est, collegate fra loro da uno stretto istmo, e sull’altopiano a quota inferiore (circa m 120-170 sul livello del mare) a sud delle prime. Con le sue coste precipiti a sud (la Collina dei Templi) e l’ampia valle centrale quasi pianeggiante (la Valle dei Templi), essa offre ampio spazio allo sviluppo urbano regolare. Tutto il ripido vallone a nord delle due colline più alte e buona parte dei tre piani dell’altopiano sono attraversati da due fiumi, l’Akragas (odierno S. Biagio) a nord e ad est, e l’Hypsas (odierno S. Anna) ad ovest, che a poca distanza dalla città verso mezzogiorno confluiscono per poi andare a sboccare in mare in un unico corso d’acqua (odierno S. Leone), alla cui foce si colloca il porto antico d’Agrigento. La superficie complessiva è di circa 450 ettari, un’estensione veramente enorme, dettata dalla necessità d’abbracciare tutto il sistema d’alture – colle di Girgenti, Rupe Atenea, Collina dei Templi – in un unico complesso di facile difesa.
Di fatto l’abitato si sviluppa al centro delle tre colline nella cosiddetta Valle dei Templi, dove prima la fotografia area e poi gli scavi ne hanno rivelato con sufficiente chiarezza l’impianto, datato a metà circa del VI secolo a. C. La struttura ippodamea è organizzata almeno su sei plateiai (vie principali) est-ovest, di cui la primaria (la quinta da nord) ha una larghezza di ben dodici metri, e su di una fitta trama di strade ortogonali nord-sud, col risultato di un alto numero d’isolati di larghezza costante, ma di lunghezza variabile, a causa del diverso distanziarsi reciproco delle plateiai. Si notano tuttavia due griglie d’isolati con orientamento e strutture lievemente diversi: un blocco all’estremità nord-ovest della Valle, orientato in maniera più pronunciata in senso nord-ovest/sud-est e compreso fra le mura e la seconda plateia (ma prolungantesi a sud anche oltre questa), ed un blocco centro-meridionale, tra la seconda e la terza plateia, comprendente la maggior parte dell’abitato. Fra questi due blocchi esistono anche lievi diversità nella larghezza delle strade nord-sud e degl’isolati, essendo le strade larghe m 4 o 5,50 e gl’isolati larghi m 33 o 40; le lunghezze restano sempre variabili, superando talora anche i 300 metri. Non siamo in grado di valutare il significato dei due diversi sistemi e di stabilire se siano frutto di sviluppi cronologicamente diversi (ma l’impianto appare comunque tutto databile al VI secolo a. C.) o di differenti condizioni del terreno, anche in rapporto agli sbocchi delle strade nelle porte urbiche. Tuttavia la chiave interpretativa va forse ricercata nel fatto che il punto di cerniera tra i due orientamenti, immediatamente ad ovest della chiesa di San Nicola (oggi Museo Nazionale), va con buona probabilità identificato col sito dell’agorà e dei complessi pubblici, come dimostra la presenza nell’area dell’ekklesiasterion.
La struttura urbanistica della città è esplicitamente lodata da Polibio, il quale ne fornisce (IX 29) questo sintetico quadro descrittivo: “La città di Akragas (odierna Agrigento) differisce dalla maggior parte delle città non solo per le cose già dette, ma anche per la sua fortezza e soprattutto per la sua struttura. Sorge, infatti, a 18 stadi (circa 3,2 km) dal mare, così che nessuno viene privato dei vantaggi che questo offre. La cinta muraria è saldissima sia per natura che per arte, giacché le mura poggiano su roccia naturalmente o artificialmente alta e scoscesa e dei fiumi la circondano: a sud infatti corre il fiume dallo stesso nome della città, mentre ad ovest e sud-ovest il fiume detto Hypsas. La parte alta della città sovrasta quella bassa verso sud-est e ha la parte esterna delimitata da un burrone inaccessibile, mentre la parte interna ha un unico accesso dalla città bassa. Sulla vetta sono i templi di Atena e di Zeus Atabyrios, come a Rodi: poiché Akragas è una fondazione rodia, è logico che il dio abbia lo stesso epiteto che ha a Rodi. La città è abbellita in maniera superba da templi e da portici. Il tempio di Zeus Olimpio, pur non essendo compiuto, non è secondo a nessun altro tempio greco per concezione e per grandezza”.
Le difese della città, magnificate da Polibio, sono note per la maggior parte del circuito, che abbraccia la Rupe Atenea e il perimetro della Collina dei Templi (con uno sviluppatissimo “dente” fra queste due alture). Non sono conosciuti archeologicamente tratti della cinta sul colle di Girgenti, ma non c’è dubbio che questa sia la “parte alta”, l’acropoli della città, ricordata dalle fonti, dove si conoscono un tempio dorico d’età classica e resti di un grande edificio visto dal Serradifalco sule pendici sud-est. La cortina nella sua fase attuale, con almeno nove porte e priva di torri se non in prossimità di alcune di queste porte, è genericamente datata al VI secolo a. C., con ovvi restauri attribuibili alla lunga storia d’Agrigento greca e romana. Mancano, invece, esplorazioni moderne volte a stabilire una più precisa cronologia delle cortine superstiti e ad individuare tratti o percorsi d’eventuali murature più antiche.
Anche se manca uno studio complessivo si conoscono necropoli a nord del vallone sottostante la Rupe Atenea, ad est, nella valle tra Rupe Ateneae Collina dei Templi, e ad est, ai piedi del colle di Girgenti. Altre necropoli extraurbane (particolarmente ricche) sono presso il mare (in località Montelusa) e in contrada Mosè, lungo la strada fra Agrigento e Gela.
La fase più arcaica della città è appena conosciuta, e soprattutto da tombe: i materiali degli strati profondi dell’abitato sembrano confermare lo stesso orizzonte archeologico tra primo e secondo quarto del VI secolo a. C. Le grandi attività edilizie attribuite a Falaride dalle fonti non trovano immediato riscontro nella nostra documentazione archeologica: l’attribuzione ad epoca tirannica della primitiva cerchia di mura, anche se probabile sul piano storico, non è al momento sicuramente confermabile su base archeologica. Ad epoca arcaica si possono invece datare talune strutture del santuario delle divinità ctonie, sacelli minori sotto il cosiddetto tempio di Vulcano, presso lOlympeion e presso lekklesiasterion, e inoltre frequentazioni della fonte extraurbana di S. Biagio, tutte strutture che ricordano, nella loro semplicità, molti degli edifici sacri arcaici della madrepatria Gela.
Il primo dei grandi templi canonici noti è quello cosiddetto di Ercole, normalmente datato agli ultimi anni del VI secolo a. C., ma forse già a quello della tirannide teroniana, epoca alla quale è stato anche attribuito il primitivo progetto del non lontano Olympeion, ma non disponiamo di sufficienti dati archeologici per suffragare tale ipotesi. La vittoria di Himera, col suo afflusso di danaro e di manodopera servile, attestato esplicitamente dalle fonti, consentì al tiranno Terone e poi alla restaurata democrazia d’affrontare un ambizioso programma di lavori pubblici, incentrati soprattutto sui templi e sulla colimbetra, una gigantesca peschiera extraurbana con un perimetro di 7 stadi ed un profondità di 20 cubiti (Diodoro, XI 25, 4; XIII 82, 5), popolata da pesci e uccelli acquatici ed alimentata da fonti e dalle acque dell’acquedotto di Feace.
Di quest’attività, proseguita per tutto il secolo fino alla conquista cartaginese del 406 a. C., le testimonianze più vivide sono i grandi templi facenti quasi corona alla città, dal tempio sotto S. Maria dei Greci sul colle di Girgenti al tempio di S. Biagio e al tempio L (480-60 a. C.), dal tempio di Giunone Lacinia al tempio dei Dioscuri (450 a. C.), dal tempio della Concordia e di Vulcano (440-30 a. C.) al tempio d’Esculapio (420-10 a. C.), per non parlare dellopus infinitum dellOlympeion, di certo iniziato nel 480 a. C. e proseguito fino al 406 a. C. Questa fase di straordinario splendore d’Agrigento, che, oltre ad ospitare poeti come Pindaro e Simonide, produce piccoli capolavori di scultura in marmo come l’“efebo d’Agrigento”, è certo segnata dai grandi interventi nell’edilizia pubblica, sacra o d’uso, ma dovette annoverare anche opere importanti per il consumo privato, almeno a giudicare dalla ricchezza eccezionale d’alcuni cittadini della polis e dalle descrizioni dei bottini del 406 a. C.: purtroppo nulla conosciamo dell’edilizia privata agrigentina d’età classica.
L’età ellenistica più antica, fra Timoleonte e la conquista romana, è invece conosciuta soprattutto dall’edilizia privata, rappresentata dalla grande maggioranza degli edifici del quartiere ellenistico-romano e dalla Tomba di Terone, epoca alla quale (se pure non a età arcaica o classica, a giudicare dagli esempi di Metaponto e di Paestum) si può forse attribuire la creazione dell’ekklesiasterion, che potrebbe mettersi in rapporto con la rifondazione d’Agrigento e le riforme costituzionali di Timoleonte. Pur in assenza d’edizioni complessive del monumento, appare suggestivo far risalire a quest’epoca anche il grande portico ionico quadrangolare scoperto tra Agrigento e Porto Empedocle , in località Villa Seta, verosimilmente un santuario extraurbano.
La documentazione si fa più ricca e significativa per l’età romano-repubblicana. In primo luogo abbiamo numerosi rifacimenti ed abbellimenti, con pitture di primo stile, delle case del primo ellenismo, segno della prosperità dell’economia agrigentina in relazione all’intenso sfruttamento schiavistico delle terre, dal quale trarranno esca sia la prima (139-132 a. C.) che la seconda (104-99 a. C.) grande rivolta siciliana degli schiavi. Agrigento – non dimentichiamolo – costituisce di fatto in tale periodo l’unico grande centro di tutta quella porzione meridionale della Sicilia, da Lilibeo a Eloro, nella quale erano vissute, in età arcaica e classica, città grandissime e prospere come Selinunte, Gela e Camarina. È facile immaginare come nell’unico centro superstite affluissero surplus ingenti, certo non inferiori a quelli che avevano in passato sostentato le altre tre città, e che ora andavano ad alimentare, con le loro granaglie, l’economia della penisola italiana, ormai sempre più specializzata in culture pregiate. In questo senso la prosperità d’Agrigento è da confrontare con quella d’alcuni centri dell’interno, da Centuripe a Iatai, e soprattutto con quella di città costiere, come Panormo (Palermo), Solunto e Tindari a nord, o Messana (Messina), Tauromenion (Taormina) e Siracusa, città nelle quali appunto si concentrava il surplus agricolo e la sua intermediazione. Ma la prosperità di questi centri urbani, e in particolare d’Agrigento, si può leggere anche in alcuni edifici pubblici costruiti o ricostruiti tra la prima metà del II e la metà del I secolo a. C., come il ginnasio, identificabile col “portico ellenistico” a nord-est dellOlympeion, o l’“oratorio di Falaride”, tempietto di tipo romano dell’iniziale II secolo a. C. sovrapposto allekklesiasterion.
La fase imperiale, con l’accentuarsi dello spopolamento dell’isola, fa crescere lo squilibrio tra città e campagna, e le case d’Agrigento vengono continuamente restaurate, spesso con bellissimi pavimenti musivi, sino al pieno IV secolo d. C., segno della persistenza del ceto dei possessores attivi in epoca tardo-repubblicana, anche se quantitativamente e qualitativamente impoveriti rispetto al passato. Di questi possessores si hanno anche altre testimonianze, in particolare alcuni sarcofagi marmorei, come quello di fabbrica attica col mito di Fedra (II secolo d. C.) e quello di produzione romana detto delle coronarie (III secolo d. C.), o quello pure urbano con scene della vita di un fanciullo (II secolo d. C.). Non sono positivamente attestati segni d’attività edilizia, se non di restauro ad alcuni templi, mentre mancano i caratteristici edifici pubblici, termali e da spettacolo, propri dell’urbanitas d’età imperiale. La concentrazione dei latifondi nelle mani di grandi proprietari senatorii assenteisti celebra i propri fasti nelle colossali ville di campagna, come quelle di Piazza Armerina (Villa del Casale) o di Eloro, e nelle città ne troviamo solo pallidi riflessi con i mosaici delle case, e in alcune tombe monumentali del III secolo, come la cosiddetta basilicula romana del vallone S. Biagio. La presenza in età medio e tardo-imperiale di ceti più modesti è comunque attestata dalla notevole quantità di sepolture, arcosoli e fosse, nota nella cosiddetta necropoli Gimberroni e nelle catacombe di Villa Aurea, una presenza questa che in qualche modo si riscontra ancora in età alto-medievale con le numerose tombe terragne dislocate lungo tutto il lato meridionale della Collina dei Templi, e con la trasformazione in basilica del tempio della Concordia, nel cuore di questa vasta area funeraria.