Se a vedere la cuffia di Costanza del tesoro della Cattedrale di Palermo tutta tramata in filigrana d’oro, divisa in sereni scomparti da filari di piccole perle con rubini, ametisti e turchesi l’ammirazione è pronta, oltre ogni interesse storico, oltre ogni indagine stilistica, a vedere invece il piccolo altare portatile proveniente dalla Cattedrale di Agrigento, oggi esposto pure alla Mostra del Minerale a Roma si ha un attimo di perplessità ed è necessaria la particolare conoscenza storica, l’indagine più scientifica per intendere la rarità dell’oggetto, la sua grande importanza sia negli sviluppi dell’oreficeria locale sia in quelli dell’oreficeria mondiale.
Non è che una tavoletta di legno ricoperta alla parte centrale da una lastra di agata e sui lati lunghi e corti da smalti rettangolari o quadrati con la rappresentazione dei simboli degli Evangelisti della Vergine, di tre apostoli, di due Vescovi e di Cristo Pantocrator tra angioletti.
Pare un oggetto misterioso e solo quando si guardano attentamente gli smalti eseguiti nella tecnica bizantina dell’alveolo concluso con un filo d’oro e se ne vede la magnifica trasparenza cromatica e la delicatezza inarrivabile delle tinte cerulee azzurre o rosse e gialle, si comincia ad intendere che esso ha pregio di antichità e di arte.
L’oggetto misterioso non è altro che un piccolo altare portatile usato dai vescovi quando si recavano in peregrinazione in terra santa oppure in peregrinazioni guerresche o in partite da caccia. I più semplici e i più antichi erano in avorio oppure in rame o smalto, poi furono a forma di cassettine anch’esse in avorio, oppure in rame e smalto, ma, tanto i primi che i secondi, avevano al centro una pietra rettangolare di porfido o di agata o di diaspro o di vetro fenicio, sotto la quale venivano conservate le sacre reliquie. Poggiava su questa pietra il calice nell’atto della celebrazione della messa.
Le fonti scritte ne testimoniano l’uso a cominciare dal secolo ottavo fino a tutto il secolo XV. Si sa, ad esempio, che Carlo Magno nel giorno della sua incoronazione ne avrebbe offerto uno per gli altari di S. Pietro e S. Paolo, un altro ne avrebbe regalato Carlo il Calvo al monastero di S. Denis ed alla fine del X secolo, Gotefredo, arcivescovo di Milano, ne avrebbe mandato uno in onice decorato in lamina d’oro a S. Benigno di Dijon. Solo verso il XII secolo si comincia ad avere più frequenti notizie di questi oggetti chiamati «altaria portatilia, gestatoria, viatico», e sono proprio di questo secolo di poco antecedenti i pochissimi e rarissimi esempi che se ne conservano in tutto il mondo. Più rari sono quelli del primo tipo cioè formati da una semplice tavoletta così come si vede nell’altarino agrigentino.
E se ne può ricordare uno del X secolo nel tesoro di Conques fatto da una placca di porfido rosso incorniciata da nielli e l’altro, detto l’altare di Begon, in alabastro orientale con smalti, castoni e filigrane; un solo esempio se ne conosceva in Italia prima che le nostre lunghe e penose ricerche fossero coronate da successo col ritrovamento di questo capolavoro agrigentino; rarissimi sono in Francia: uno a Cluny, quattro nella Collezione Spitzer, più frequenti in Germania e di grandissimo interesse.
Ma l’altarino agrigentino oltre ad essere una rarità come oggetto è anche una interessante documentazione degli sviluppi artistici dell’oreficeria siciliana nel secolo XII, secolo al quale l’altarino appartiene per incontrovertibili caratteri iconografici.
Una stretta parentela riunisce fra di loro gli altarini francesi da una parte e gli altarini tedeschi dall’altra parte e si può pensare che la bottega di produzione sia stata una bottega limosina data le affinità che quelli francesi presentano con la produzione vetraria del dodicesimo secolo in Francia oppure una officina renana dalla quale uscirono altri capolavori simili agli altarini tedeschi.
Gli uni e gli altri, siano essi limosini o siano renani, partendo sempre da modelli bizantini ne conservano la tecnica elaborando l’iconografia secondo norme schiettamente occidentali.
Nel piccolo altare della Cattedrale di Agrigento, invece, non soltanto l’iconografia, ma anche la tecnica è raffinatamente bizantina e trova riscontro in un gruppo splendido di opere smaltate recentemente esposte alla triennale di Milano, di cui esemplare fiabesco è l’evangelario di Capua.
Ma venne importato dall’oriente con cui il commercio era attivissimo o venne eseguito nell’Italia Meridionale, o venne proprio eseguito in Sicilia?
Se a tale conclusione ero perplessa dieci anni or sono, ogni perplessità è ora scomparsa tenendo in massimo conto che nell’Italia meridionale un solo centro vi fu di magnifica produzione artistica nel campo delle arti minori e questo fu Palermo da dove uscì quell’inarrivabile splendore decorativo, quel magnifico esemplare di tutte le esperienze tecniche mondiali che è il manto reale di Ruggero, Palermo dove alla corte dei re normanni, artisti bizantini, artisti indigeni, artisti arabi, lavorarono insieme con esperienze unite, con tecniche perfezionate nel contatto, con repertori ampliati per scambi eseguendo oreficerie sacre ed oreficerie profane che traevano agli stranieri venuti a Palermo gridi di entusiastica ammirazione.
Ma non soltanto la tecnica, ma anche la pietra centrale, di agata, parla di Sicilia, di antiche industrie che all’arte offrivano materiale prezioso e raro ed anche il suo nome, derivato da «Hecate» o Proserpina, parla di miti stanziati in Sicilia, eternamente cari alla poesia, alla fantasia, all’arte siciliana. Per questo, dopo otto secoli, l’altarino agrigentino è passato a Roma, alla mostra del minerale, per essere, ancora una volta utile ad un’opera di fede.
Maria Accascina, in Giornale di Sicilia, 1 gennaio 1939
L’Altarolo dei Crociati, che è una piccola mensa mobile utilizzata per celebrare la messa al di fuori dei luoghi di culto, è stato esposto in mostra nella sezione Outremer, ovvero Stati Latini d’Oriente nati con la prima Crociata. Nonostante uno stato di guerra quasi permanente, la produzione artistica in questi nuovi territori latini ha lasciato significative testimonianze. L’incontro con i curatori ha messo in risalto la pregevole fattura dell’altarolo agrigentino, che costituisce uno dei pochi esemplari presenti in Europa.
Il prestito dell’opera e il legame con l’origine migratoria dei normanni ha permesso di mettere in prospettiva culturale il fenomeno dell’immigrazione e porre così l’attenzione sull’integrazione delle popolazioni migranti, che non solo cercano una terra e una solidità sociale ma sono anche apportatori di valori culturali come i migranti del passato del passato.