Il suo sangue scendeva dalla scala. La poveretta era stata scannata.
La gola recisa insieme alla parte posteriore del collo e sanguinava abbondantemente. Tagliarono la carotide, i nervi, i muscoli e la trachea. L’avevano anche pestata prima di ucciderla. Aveva il labbro tumefatto e altre parti del corpo livide. Le legarono le mani al passamano della scala e pendeva lungo di essa a testa in giù adagiata sopra una coperta e le gambe più sopra erano scoperte. La legarono all’ultima rampa della scala di marmo che portava al mezzanino dove la donna abitava.
Per terra su un gradino vi era il coltellaccio, una lama di coltello da caccia e su un altro gradino più sotto anche un bocchino di cartapesta. Poiché la donna non fumava doveva essere dell’omicida. Suo invece era il portamonete vuoto, trovato su un altro gradino. Un rivolo di sangue scendeva per tutta la scala e si deposita ai piedi formando una piccola pozza. Altre cose costatò il medico legale, il dottore Di Giovanna, che era stato chiamato dal commissario Schembri.
La scena del delitto è un negozio di oreficeria, nel salotto buono della città, in via Atenea, alta, al numero 230. La morta era la signora Rosalia Lauricella, la proprietaria. Una vecchietta mite di 76 anni. Accanirsi così, su un essere così indifeso e innocuo, è da belve. I passanti videro i carabinieri entrare e uscire per il negozio e si spintonavano davanti la porta per sapere e vedere. Il delitto era stato commesso intorno alle sedici di domenica otto ottobre nell’anno 1950. La donna viveva sola perché col marito si era lasciata diciotto anni prima. Anche il marito, Eugenio, era stato un orologiaio. Da lui Rosalia aveva imparato il mestiere, ma non aveva imparato a difendersi dalle belve, perché credeva che non le avrebbe mai incontrate.
Arrivarono invece quella domenica pomeriggio intorno alle 14. La Lauricella abitava – o meglio dire si “arrangiava”- in un mezzanino sopra il negozio a cui arrivava dalla scala interna. In via Atenea, strada di negozi, a quell’ora, di festa o no, non c’era nessuno. La porta del negozietto era aperta. Fu la stessa vecchietta a farli entrare quando si presentarono davanti l’uscio. E si presentarono come dei clienti e domandarono di un orologio. La donna girò loro le spalle per aprire un armadio. Tutto era stato ben pensato: uno l’afferrò alle spalle e l’altro aveva pronto il fazzoletto per imbavagliarla. Un terzo fuori faceva da palo.
L’impresa di afferrare la donna e metterla a tacere fu più difficile del previsto. Non pensavano avrebbe manifestato tanta energia e urlò, ma l’urlo venne coperto da una motocicletta che passava. Venne legata al passamano della scala ma quella strillava. Il terzo che faceva il palo sentì la fuori le urla ed entrò in negozio protestando: “Ancora in vita la tieni ?” e gli diede un coltellaccio. La lama squarciò la gola alla poveretta e il sangue colò per le scale. Presero poi dalla cameretta una coperta di lana e la stesero sotto la testa insanguinata di Rosalia. Perché ? se lo chiese anche il commissario Schembri. Voleva forse frenare l’emorragia ? Fu lui che lasciò le sue impronte, quelle chiare delle dita sporche del sangue innocente sulla parete bianca della scala ?
Si dedicarono poi completamente i due delinquenti assassini a fare man bassa di tutto quello che ritennero fosse prezioso e cercarono e trovarono anche il denaro dell’orefice.
La via era deserta quando fuggirono.
Non passò un mese e i tre ladri e assassini vennero scoperti a Catania mentre tentavano di vendere la refurtiva. Conosciamo la loro identità: Giuseppe Giacomo Paranunzio da Ribera aveva 28 anni all’epoca dei fatti, Gaetano Marino di 35 anni da Calamonaci, Giuseppe Maurici di 36 anni da Burgio. Il processo venne celebrato ad Agrigento nell’ottobre del 1952. I tre accusati sono stati condannati all’ergastolo.