Cambiano i dominatori nell’antica città di Akragas e cambiano persino le scarpe degli abitanti.
Usi e costumi di modificarono parecchio da Akragas ad Agrigentum.
Arrivati i Romani nella Valle dei templi, con loro arrivarono le nuove mode. A cominciare dalla scarpe.
Così anche nell’antico quartiere ellenistico romano di Agrigento si esigeva il «calceo» al pari della toga. La parola, derivata da «calx» (calcagno), ed era una calzatura chiusa, coprente il piede per intero. Uscire senza questo calzare, comune ai due sessi, era considerato sconveniente per la gente di rango.
I patrizi però preferivano in genere il «mulleo» in pelle rossa legato con lacci neri, guarnito da un gancio di avorio, con valore di amuleto, a forma di mezzaluna.
Ma non tutti avevano diritto al calceo patrizio. Non l’avevano i magistrati di famiglia meno antica, che quindi portavano il calceo senatoriale di colore rosso o nero, ma privo di lunula. E successivamente saranno gli imperatori a stabilire chi potrà indossare il calceo concedendolo solo a chi vorranno privilegiare.
I «calceoli» delle matrone agrigentine, fatti di cuoio più fine e «aiuta» (pelle ammorbidita con allume), fasciavano il piede come un guanto; normalmente erano neri o bianchi, spesso colorati o arricchiti da ricami e pietre fini, secondo il consiglio del «diabatrario», fabbricante di calzature eleganti.
Apparivano poi in alcuni periodi, secondo le necessità della moda numerose varietà di sandali («solea») che, al contrario dei «calcei», lasciavano il piede quasi nudo; alcuni erano forniti di allacciatura, altri no.
Nel teatro ellenistico-romano dell’antica Agrigentum, forse da poco riscoperto nella Valle dei Templi, si aggiravano il «socco» basso degli attori comici e gli alti «coturni» degli attori tragici.
Le stravaganti «crepide», sandali di una sola forma per i due piedi, venivano ornati con lacci imperlati, tra lo scandalo dei moralisti.
E quando il sole picchiava come ancora oggi nella Valle dei Templi tra i calzari più leggeri, estivi, ve n’erano in reticella dorata, ma anche in materiale vegetale: la modesta «baxa», semplice suola di sparto con due strisce di papiro per tomaia, e la scarpetta chiusa a disegni geometrici, con laccetti dorati. Con lo sparto si facevano anche le «soleae» per buoi feriti e mule da viaggio.
Tra le calzature rustiche, il «pero» era uno stivaletto adatto alla campagna e al maltempo, mentre i calzari invernali delle donne venivano foderati con sughero protettivo. Le «impilia» di feltro (scarponcelli), e le «sole lanate» dei pecorai, per nulla disdegnate dai cittadini freddolosi, si accompagnavano alle fasce per gambe e piedi, in uso tra contadini, cacciatori, pastori e gladiatori.
Agli schiavi agricoli era destinata la «sculpona», con suola di legno, e «carbatina» era detto un robusto sandalo con lingua di cuoio fermata da cinghie, in uso tra agricoltori e militari. Questi calzavano comunemente la pesante «caliga», una suola chiodata fornita di una serie di lacci dal tallone alle dita. Quella degli esploratori era più leggera e la «caliga» equestre, destinata all’ordine dei cavalieri, somigliava al «calceo».
In casa ognuno sta a piedi nudi.
Calzolai e conciatori formavano un’antichissima corporazione anche nella potente Agrigentum. Molte delle loro piccole botteghe («sutrine») si dovevano trovare certamente nel quartiere elleniostico-romano. Ogni sandalario aveva la propria specialità: «calceolario», «soleario», «gallicario», eccetera, fino al «veteramentario», il più modesto ciabattino. Ed era facile vederli mentre cucivano le pelli sopra forme di piedi, diligentemente esposte a richiamare l’attenzione dei passanti.
di Elio Di Bella