Nel pieno della guerra 1939-1945, si cominciò a costruire ad Agrigento un nuovo quartiere, senza nome,
là dove si individuarono, non lontano dal centro cittadino aree edificabili: là non c’era una chiesa né antica né nuova. Il quartiere, lo si poteva chiamare forse Ferrovia, visto che sorgeva a valle della stazione ferroviaria di Agrigento Centrale, oppure Piedigrotta, per dire, dal nome cioè del pastificio attivo lì presso, ma alla fine prevalse il gazometro che malandato e inattivo s’ergeva com’è tuttora sul bordo della costa rocciosa che qui chiude l’anfiteatro affacciato sulla valle dei Templi e sul mare lontano.
La cultura popolare, con la concretezza sua propria che è nemica del bel garbo creò il toponimo Sottogas, che poi si estese a un vasto e disordinato agglomerato urbano dove si è a mano a mano spostata la popolazione agrigentina, che andava abbandonando le vecchie case cadenti di S.Michele o S. Croce o S.Girolamo, in gran parte per giunta poco dopo demolite in un cumulo di macerie dai bombardamenti dal cielo e dal mare al momento dell’occupazione militare nel luglio del 1943, in quei due giorni veramente tremendi, quanto durarono in effetti le operazioni di sbarco e di avvicinamento dell’esercito alleato.
Le prime palazzine di quel nuovo quartiere, sul finire del 1942 erano appena state costruite, e qualcuna non era ancora finita, ma si trovarono come un avamposto militare in fronte all’esercito occupante, su una linea stretta fra l’orlo del banco tufaceo, in cui era stata inserita anche una postazione con mitragliatrice, proprio accanto all’ingresso di una sorta di galleria ricavata nell’arenaria, che doveva servire da ricovero per i civili, giusto a valle della linea ferroviaria, destinata sicuramente a diventare bersaglio dei bombardamenti, come di fatto avvenne già il primo giorno delle operazioni di sbarco.
Il ricovero destinato dunque ai civili, ma sprovvisto di ogni attrezzatura atta alla difesa, compresa una via di fuga, a cui semplicemente non s’era pensato. Dopo i primi giorni, quando i poveri rifugiati si erano, più che adattati, rassegnati a soffrire, e i militari avevano preso confidenza con la gente, quei militari compresi ufficiali e sottufficiali, si riversarono nel fosso, che tale era in realtà il cosiddetto ricovero, per stare riparati dalle bombe. Solo qualche soldato generoso e audace si offrì di accompagnare la corvée di civili che ogni mattina con l’elenco dei rifugiati doveva andare in Prefettura a far autenticare quella lista e passare quindi al forno detto di San Calogero, gestito dai Bersaglieri, per ritirare le razioni di pane destinate ai civili coinvolti nelle operazioni belliche.
Partecipai anch’io a quelle corvées in sostituzione di mio padre invalido, e m’arrampicai sotto il sole ardente di luglio su per la costa scoscesa, per raggiungere la piazza della Stazione. In cielo ronzava un piccolo aereo ricognitore, diventato presto l’ossessione dei poveri cittadini, che capivano come in fondo anche da quel piccolo motore dipendesse la vita di tutti. Da quell’aereo, per esempio, cercava di non farsi scorgere il soldato con cui andavo e che saltellava da un alberello all’altro col suo inutile lungo fucile a braccio.
La confusione nel ricovero era enorme: un’idea si può averne dal quadro di Henry Moore del 1941, in cui è rappresentato un tratto dell’Underground di Londra affollato di ombre distese al suolo, in una sorta di inferno disegnato da G.Dorè. In quella confusione, anche noi ombre tra le ombre dovevamo cominciare col prepararci un qualsiasi giaciglio per la notte, e crearci uno spazio per le lunghe attese diurne. Spesso si risaliva la lunga scala dirupata per vedere lassù in alto cosa accadeva.
I più anziani non si muovevano, restavano a sonnecchiare, qualcuno a pregare, a recitar rosari tutto il tempo, con le orecchie tese ad ascoltare i rumori d’inferno che giungevano dall’alto, il ronzio del ricognitore, le cannonate della flotta che si era schierata grigia e minacciosa al largo di Porto Empedocle, e vomitava le sue salve mortali contro la città inerme. Qualcuno che in guerra aveva già fatto esperienza di spari e di cannoni, provava a calcolare dai sibili e dai tempi il bersaglio dei tiri provenienti dal mare: questo va a S.Spirito, quest’altro a S.Girolamo, e coloro che lassù avevano le vecchie case coi genitori, le sorelle, dentro di sé temevano e speravano, ed era la condizione più tremenda per i poveri inermi caduti nella rete del destino.
Quando un grappolo di bombe portate da un aereo che attraversò il cielo con la velocità e il rombo di un fulmine, vennero a esplodere nei pressi del ricovero, destinate forse a distruggere la strada ferrata, il vecchio signor Vincenzo Di Fede, che era capitato nella zona probabilmente per sorvegliare le case dei figli Totò e Franco che abitavano in una palazzina della prima (o terza) fila, si mise a gridare la sua invocazione:”San Giurlannu, senza dannu”, e gli rispondeva un coro di pianti e di lamenti, le donne con le mani alla bocca e gli occhi lucidi di pianto.
Dell’ingresso in città dalla via dei Templi delle truppe alleate, ci rendemmo conto a un tratto, verso sera, quasi per divinazione, e allora tutti a correre, come le anime liberate dal Limbo, verso la piazza Stazione, per assistere da lì alle ultime fiamme dell’incendio che aveva distrutto la vecchia caserma del 76° reggimento di fanteria: “Sotto l’impeto di Aosta / Sparve il nemico”, come si leggeva ancora, quasi ironicamente, sul vecchio muro rosato annerito dalle recenti fiamme. Degli occupatori, che non erano inglesi come tutti s’aspettavano, bensì americani, molti di origine siciliana, sapemmo al nono giorno, che erano arrivati lanciando dai camion scoperti cioccolato, caramelle, sigarette.
All’indomani i forni funzionanti a tutto regime distribuirono pane bianco in abbondanza a una popolazione affamata, che accettava tutto: scatole di carne e fagioli, o con dadini di patate, polvere d’uova e polvere di piselli. Ma il pane dei generosi occupatori venne a finire abbastanza presto, e allora cominciò per tutti la vera fame. Qualche volta si prendeva il treno per Favara, dove qualcosa forse ancora si riusciva a trovare al mercato nero, ovviamente a prezzi di mercato nero. Non c’era però treno per il ritorno e allora si prendeva una scorciatoia tra i campi, nota solo a qualcuno che faceva da guida nella notte illune, riportandoci verso casa stanchi e imbrattati di terra o di fango, con quella piccola razione di cibo che certamente non sarebbe bastata nemmeno a reintegrare la energie spese nell’impresa, più da ragazzi spensierati che da persone responsabili: l’ironia della tragedia, c’est la guerre.
Quella prima cellula di quartiere si stabilizzò un po’ per volta tra la città che pur lentamente si riattivava e l’immobilità campestre rappresentata ad esempio dalla cosiddetta mannara che si conservava modestamente attiva proprio sul primo gomito che vi faceva la strada, la quale scendeva a precipizio, appena tracciata nell’arenaria, più dalla natura e dal caso che dall’ intelligenza umana. Su quel gomito di strada per così dire urbana sporgeva uno sperone di roccia, segnato da un’edicola, la “figuredda”, davanti alla quale si sentivano intonare nel tempo di Natale le voci lamentose della cornamusa e del piffero che accompagnavano le nenie delle donne e dei ragazzi lì richiamati dalla musica. Quell’edicola faceva da quinta alla vita di contadini e pastori che, stando negli abituri lì presso, provvedevano alle stalle, e al primo mattino, lavorando il latte, chiamavano a raccolta il vicinato perché venissero con le ciotole a comprare il siero per la colazione: “A ricuttedda calla è, viniti prestu ca picca ci ‘ nn’è”.
Da quella parte c’era anche, in qualche modo riparata alla vista, una cantina che i frequentatori conoscevano bene e sapevano come raggiungere anche senza il richiamo del banditore, il quartiere detto “Sottogas”, sovrastato com’era dal gazometro, crebbe lentamente, ma inesorabilmente, con le caratteristiche dell’edilizia, un po’ speculativa, un po’ “casereccia”, impostasi anche nel vecchio circuito urbano sul Colle di Girgenti, come sul pendant della Rupe Atenea: su tutto il fronte in petto al mare e alla Valle dei Templi (chi se ne ricordò?), si elevò quindi una cintura di ridicoli “grattacieli”, assolutamente fuori scala e fuori regola rispetto alla tradizione cittadina, patrimonio del tutto negletto nell’ansia del nuovo e del remunerativo, dalla cui febbre fu catturata la nuova come l’antica borghesia un po’ campagnola, che costituiva lo scheletro di tutta la società girgentina.
Secondo questi criteri tristemente innovatori, il quartiere dilagò verso il basso, scendendo il primo gradino in cui si biforcava la strada in discesa fra Oriente, nella via Manzoni e Occidente nella via Dante. Oggi le due vie scorrono fra casacce a molti piani (impossibile chiamarli palazzi) in un affollamento insensato e in molte ore della giornata, totalmente impraticabile per la ressa dei veicoli vecchi e nuovi, auto e moto e ciclomotori che s’incastrano fra i carretti dei venditori di frutta e verdura, rifornitisi all’alba allo “scaro”, il mercato di Piano Ravanusella, fra le ultime tracce dell’antica società di Girgenti.
Nel suo inesorabile movimento verso il Sud, cioè verso il mare, e i suoi pericoli, da cui si era ritratta sul finire dell’età classica la fastosa Akràgas, la nuova città riguadagnava la Collina dei Templi, per fortuna messa al sicuro dalla barbarie dell’abusivismo edile, deviata sempre dalla speculazione, per chissà quale ravvedimento del destino, verso oriente espandendosi capricciosamente nel cosiddetto Villaggio Mose, che è l’esatto ritratto della nuova cultura, né antica né nuova, ma certamente spiacevole per l’assenza di ogni regola, come si dimostra d’altra parte in quello che fu il povero e insignificante borgo marinaro di S.Leone, alla foce del fiume da cui prese nome la città greca, e ora è l’appendice disordinata dell’ultima forma acquisita dalla città fondata dai Geloi e cantata da Pindaro”fra le più belle abitate dai mortali”.
di Dante Bernini
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il sacco di agrigento