Luigi Vittorio Bertarelli, cofondatore del Touring Club Ciclistico Italiano nel 1898 giunse in bicicletta ad Agrigento percorrendo le incerte strade dell’Italia da Nord a Sud. Non era certo un turista ingenuo, ma un ”viaggiatore colto”. Grazie a quanto ha riportato sul suo diario di viaggio (pubblicato col titolo “Insoliti viaggi”), possiamo cogliere aspetti e momenti della vita di Agrigento e di alcuni paesi della provincia davvero sorprendenti.
Arrivò ad Agrigento, che allora si chiamava Girgenti, direttamente da San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, che aveva visitato con attenzione.
Il primo incontro non fu dei più piacevoli: “Incontro dapprima una carovana sinistra: un uomo, certo un picconiere, stracciato come Giobbe; accompagna una dozzina di ragazzi, carichi come muli, i carusi assoldati in qualche paese e che esso conduce al lavoro. Quei ragazzi sono i suoi schiavi, perché esso ha pagato alla famiglia il soccorso morto”.
Prima di giungere a Girgenti eccolo passare per Favara:
“Passo, poco dopo, in Favara, forse il paese più malfamato della Sicilia. Un maggiore dell’esercito mi diceva che, per tutto il tempo che esso fu di guarnigione a Girgenti, alla festa patronale di Favara si usò distaccare una compagnia di soldati, in aiuto ai carabinieri. Mezza compagnia stava di riserva, l’altra occupava gli sbocchi del paese, perquisendo tutti per togliere ogni arma. Eppure ad ogni festa qualcuno restava sul terreno, con una coltellata nel petto. Si dice che un Borbone di Napoli, verso la metà del secolo scorso, aveva sul serio proposto (molto paternamente) ai propri ministri di circondare Favara di uno steccato e dare il fuoco al paese e ai suoi abitanti per distruggerne la razza!
È possibile che il clima torrido e la razza indomita contribuiscano a mantener usi e costumi feroci, ma non può essere altrimenti, né può l’educazione penetrare laggiù, dove pure così nobilmente si prova dal popolo il sentimento dell’onore e della lealtà, quando in terreni fertili, con popolazione laboriosa e sobria, la distribuzione della ricchezza è tale, che invisibili latifondisti, che ignorano le loro proprietà, piccoli usurai nascosti, e Amministrazioni comunali in mano ai partiti, secondate dalla debolezza o dalla connivenza del governo, fanno sì che tranne per i privilegiati, la vita sia di uno squallore che conduce necessariamente all’abiezione”.
A Girgenti il suo Cicerone fu il direttore del Museo archeologico, Alfonso Celi, padre di Empedocle Celi, console del Touring.
In un passo dei suoi scritti ci descrive la città:
“Girgenti è sulla cresta di una collina, di cui il punto più alto è il Duomo, a 330 metri e scende sul fianco di essa, calando ripida sull’altipiano ove un tempo si stendeva, come sul fondo di un’arena, l’antica Agrigento. L’altipiano triangolare, di alcuni chilometri di superficie, è conterminato da un salto di rocce, ai piedi delle quali scorrono i due storici fiumi Akragas e Hypsas; due chilometri più oltre si stende la spiaggia del mare. Appena giunti sull’altipiano di Agrigento, la vista si allarga”.
Alfonso Celi lo accompagna raccontandogli la storia dell’antica Akragas e descrivendo i luoghi: “- Amico mio, mi diceva il Celi, Girgenti ha 22.000 abitanti, ma cosa sono mai in confronto degli 800.000, e più, che contava Agrigento? Vedete la nostra cara cittadina d’oggi: essa è tutta lassù dove un tempo c’era appena posto per la necropoli; Agrigento antica riempiva tutto questo altipiano. Là in alto, a destra, quell’alta cresta che tocca i 351 metri era la Rupe Atenea; lassù passavano le mura che, scendendo presso il tempio di Cerere e Proserpina e tutto lungo la scarpa che domina l’Akragas e l’Hypsas, formavano un circuito di più di dieci chilometri”.
Agrigento appare straordinariamente bella a Luigi Vittorio Bertarelli, tanto da esclamare:
“Che meravigliosa città doveva essere questa! Nessun’altra ebbe la sua magnificenza, e la sua fama di ricchezza e di splendore”.
Nella Valle dei templi la prima tappa fu il tempio di Giunone: “ Gli avanzi maestosi appaiono a un tratto in mezzo a grandi ulivi, sull’orlo dell’altipiano. Avvicinandosi ad essi si resta sbalorditi, oppressi, come all’alzarsi di uno scenario, che lasci vedere un meraviglioso quadro di ideale grandiosità. Una selva di colonne si drizza sopra una platea di 41 metri di lunghezza per 20 di largo. Tutto un lato del tempio – sedici colonne – è ritto intieramente e porta intatto l’architrave; il rimanente fu molto danneggiato dai terremoti più che dagli uomini, che invano si affaticarono per abbattere quest’opera”.
Lungo la strada che conduce verso il tempio della Concordia, Adolfo Celi invita Bertarelli a guardare in giù per ammirare la natura e i resti degli antichi templi e il turista vede: “… ulivi, cactus, carrubieri, e agavi sporgono il più bizzarro intreccio di rami che si possa immaginare “Guardate questi muricciuoli, dice il Celi. Essi sono fatti di venerabili avanzi. I geologi negli strati leggono la storia della natura, come nelle pagine di un libro. Noi archeologi abbiamo qui tutta un’opera di storia. Osservate: vi sono dei cippi, in questi muri, dei capitelli, delle lapidi spezzate o capovolte. Vedete quel pezzo tondeggiante: di sicuro è una modanatura, un toro. Eccovi un rostro della base di una colonna, dei gocciolatoi che pendevano sotto i triglifi da qualche cornicione; quella pietra è un pezzo di imoscapo! Qui vi è un cancelletto; i due pilastrelli sono finiti, come vedete, in alto, da due coni di pietra scura in forma di pane Io ero come trasognato”.
Poi finalmente arrivano dinanzi ala maestoso tempio della Concordia: “Ma in quell’istante la vettura si arrestò di colpo e il vetturino saltò a terra. Eravamo giunti.
Dove? In una radura calva, leggermente rialzata, sulla cui cima si eleva il meraviglioso tempio della Concordia, il più bello d’Italia e di Grecia.
Impallidisce ogni espressione d’entusiasmo dinanzi a quella ancor vivente e forte evocazione della più perfetta arte dorica! Essa sorge nel mezzo di uria cornice degna della sua bellezza: l’eterna natura, l’eterna arte, sono unite in un monumento imperituro.
Il colosso è là, eretto, quasi intatto. Le fughe interminabili delle sue massicce colonne circondano le ciclopiche mura della cella, gli architravi e i frontoni decorati di nobili metope hanno resistito alle ingiurie inutili di 25 secoli di tempo. L’immane costruzione par di bronzo, nel sole che l’arde di calde luci: la tinta aurata di quegli invitti marmi, risplende sul fulvo terreno che circonda le gradinate.
La piccola eminenza, proprio sull’orlo dell’altipiano, guarda tutt’intorno fino al mare, fino a Girgenti e alla Rupe Atenea; di là si segue coll’occhio tutta la scogliera che come un bastione fortificato formava la difesa principale di Agrigento, e, sulla pianura ondulata che sta appiedi del tempio, il luogo ove, nella prima e nella seconda guerra punica, Romani e Cartaginesi combatterono epiche battaglie.
Italiani che non andate alla Sicilia, pensate che colpa!”
Stupende emozioni anche nella serata trascorsa in un hotel della città.
“Passai la serata sulla terrazza dell’albergo Belvedere, che domina tutto l’altipiano. Ero solo coi miei pensieri. Vidi il tramonto di fuoco, poi il crepuscolo violetto, poi si fece notte.
Si accesero i lumi della città, laggiù cominciò a brillare il faro di Porto Empedocle, e, sul mio capo, le stelle. I rumori si spensero a poco a poco intorno a me, tutto divenne buio nelle case dormenti.
Allora la luna si alzò dal mare, rossa, grande e rapida, rallentò la sua ascesa e si fece piccola, bianca e fredda. Ai suoi raggi rividi, nella penombra, tutta Agrigento. La terra nera si andò disegnando di borri e di campi; emersero dalle basse boscaglie d’ulivi i colonnati scuri.
Quella notte rimasi lungamente così, là, nell’estasi della muta contemplazione…”
Poi prosegue per Sciacca, passando per Porto Empedocle e passa la notte a Siculiana, in una orrenda osteria.
“Girgenti dietro di me, sempre più in alto mano mano che io me ne allontanavo; Porto Empedocle sotto di me, appiedi di una scogliera quasi a picco, protendente i suoi moli gialli di immensi depositi di zolfo nel mare azzurro. E, per un curiosissimo effetto di complementazione ottica, il giallo e il turchino sommandosi, orlavano quei moli di un contorno verdastro”.
A Siculiana alloggia in quella che gli viene indicata come l’unica locanda del paese.

“Entrando in Siculiana, mi dissi con un segreto spavento: qui passerò la notte. Questo antro cieco è profondo quindici metri.
I due terzi, verso il fondo, servono di stalla a una dozzina di muli; il terzo anteriore è un pandemonio di legna, fieno, paglia, cesti, otri, giarre, due capre e un fornello da un lato. In mezzo a questo diavolo passano i muli per entrare in stalla… e lasciano abbondanti tracce. Vedo anche un’orrenda megera sgangherata, spettinata, stracciata, più sporca dell’immondezzaio in cui si agita. Povere scimmie! Chi mai vi calunniò tanto dicendo che l’uomo, e quindi la donna, deriva da voi?
Eppure quella era l’ostessa che doveva colle sue luride mani cucinarmi il pranzo! Ci volle una mezz’oretta a combinare il menu: pasta, ova e patate, uva… e basta.Intanto che si stava per disporre il pranzo, mi tardava vedere la camera. Mi condussero nell’antro, fin quasi in fondo. Io credeva di asfissiare nel fetore! Poi, su per una scaletta di legno, a una stanzetta sui tetti, che serviva, colla scala, di sfiatatoio alla stalla.
C’era, là dentro, un magazzino di canne, di otri, di lanterne; delle lunghe filze di caciocavallo, tre o quattro galline che fuggirono dalla finestrella sul tetto, una sella di mulo, dei basti e, in un canto, una branda con un saccone tutto cavo nel mezzo. Ma, soprattutto, c’era un puzzo ammorbante di stalla e di pollaio. – Sgombrate, lavate, scopate, pulite, o porci animali! Pagherò quello che volete, ma cambiate questa stalla di Augia! Fortunato Giobbe sul letamaio: lui, almeno, era all’aria aperta!
Non m’intesero neppure. Scesi scorato. Quasi mi parve che anche la bicicletta si volgesse indietro, verso di me, coll’aria di chiedermi: mi lasci in questo brago? davanti, perfino da tre ragazzi contemporaneamente. Alcuni trottano, e alla coda del mulo sono attaccati colla mano dei ragazzi che vengono così di lontano trottando pedestremente accanto al padre. Altri sono accompagnati da asinelli o cavallini poppanti, allegri e stupidelli. Chi porta giarre d’acqua, chi otri di vino, chi fasci d’erba secca o lunghe canne dei fiori d’aloe, chi cesti di fichi d’india.
Certi cantano, la mano sulla bocca, canzoni moresche lente e melanconiche come l’appello del muezzin. Passa qualche picciol gregge di capre saltellanti, che annusa i muri e lecca dove spera di trovare il salato; qualche raro carretto dalle imprese dipinte, qualche rarissimo pedone, il capo carico di pesi enormi. Corrono tra le gambe dei muli i ragazzi, a rischio di farsi calpestare, e dappertutto è un vociare continuo, confuso, sgarbato, incomprensibile, come di gente che ha d’uopo di gridare per farsi intendere, di dar di gomiti per farsi far largo, di urtare per attirare l’attenzione. È tutto un mondo diverso dal nostro, più vivo, più grossolano, più violento: una tribù selvaggia di arabi trasportata in Italia.
Odo uno scalpitare di cavalli: entrano in paese due campieri fieramente impostati su dei superbi animali, col fucile attraverso l’arcione. Dieci passi dopo di loro, solo e senz’armi, un signore. Che dico signore? Un signorotto fiero, bello, provocatore, sprezzante: nulla da invidiare a Don Rodrigo. Poi più addietro ancora quattro sue guardie, armate, in montura sgargiante, anch’esse splendidamente montate. La cavalcata mi passa accanto di trotto serrato, senza curarsi di me, senza scansarmi d’una linea. Io, che sono seduto, per un capello non vado le gambe all’aria”.
Elio Di Bella