L’antica Akragas ebbe confini naturali nei costoni rocciosi che ancora oggi in buona parte si possono ammirare. “Le mura – come dice Polibio – posano sulla roccia erta e tagliata aguzza che in parte è così per natura, in parte è stata adattata dalla mano dell’uomo; lungo il suo percorso si aprono nove porte, in corrispondenza di valloncelli e passaggi”.
A partire da queste indicazioni e da altre ricerche sul campo, lo studioso Schübring, sostiene che le mura della città antica “correvano lungo il suo margine e, dove la roccia non offriva una parete naturale, se ne faceva una artificiale”.
ricostruzione di akragas
Akragas venne pertanto racchiusa in una cinta muraria che aveva forma quadrangolare e che molto probabilmente aveva una lunghezza di 12 chilometri, racchiudente un’area di 450 ettari. Tale cinta muraria sembra sia stata completata intorno al 550 a.C. Le ricerche condotte in particolare nel nostro secolo hanno meglio evidenziato le opere di difesa e nove porte. Quando nell’ottavo secolo la minaccia musulmana giunse sino ad Agrigento, la popolazione, rendendosi conto che sarebbe stato impossibile difendere la città da quei nuovi nemici (anche perché la cinta muraria era troppo estesa e la popolazione allora residente troppo scarsa per presidiarla tutta), decise di abbandonare l’antica città e di trovare più sicuro rifugio sull’antica Acropoli (la parte più alta dell’odierno centro storico).
Gli Arabi conquistarono facilmente la città nell’828 e gli Agrigentini – che già avevano abbandonato definitivamente la Valle – durante la nuova dominazione, costruirono sulla collina le loro nuove abitazioni. Più tardi anche i Saraceni edificarono una cinta muraria attorno alla novella città. Infatti, ci risulta che la nuova Agrigento (Kerkent), sviluppatasi sulla collina, era divisa in Kisn (la parte murata, nel punto più alto della collina: gli attuali quartieri di San Gerlando e San Giacomo) e Rabad (fuori le mura).
LE MURA CHIARAMONTANE E PORTA DI PONTE
Da diversi secoli gli Agrigentini chiamano Porta di Ponte l’antico accesso alla città medievale. Anche se oggi le antiche mura chiaramontane che circondavano la vecchia Girgenti sono quasi del tutto scomparse e anche la Porta di Ponte, insieme agli altri ingressi, è solo un ricordo, nessuna località del centro storico è più nota ai locali quanto questo antico ingresso urbano e la via Atenea che con esso costituisce un’inseparabile unità.
Ma andiamo con ordine, ricordando che Agrigento medievale era circondata da solide mura. Infatti fra il 1295 e il 1299 la famiglia Chiaramonte, la più potente della Sicilia Occidentale dell’epoca, raccolse entro nuove mura i tre borghi di San Michele (che costituiva la cosiddetta Terra Nuova), San Francesco e San Pietro (che invece comprendevano la cosiddetta Terra Vecchia) e i conventi di San Francesco e di San Domenico, lasciando fuori solo il Rabato (quartiere collocato tra l’attuale via Dante e via Garibaldi).
La nuova fortificazione racchiudeva il borgo medievale al suo interno. Non bisogna però pensare che prima di allora Agrigento non avesse mura cittadine.
I Chiaramonte infatti non fecero che rinforzare ed ampliare notevolmente murature precedenti (la cui costruzione venne avviata molto probabilmente sotto il re normanno Ruggero), cingendo il borgo agrigentino in una forma quasi ellittica, quasi un dorso di pecora, seguendo le linee della collina di Atena.
La nuova cinta muraria fu munita di torri, di posterle, di saettarie per resistere meglio alle incursioni belliche.
“L’ingresso principale era certamente Porta di Ponte, che doveva il suo nome al Ponte levatoio di cui era munita, insieme ad una di una saracinesca.
Successivamente fu tolta l’imposta in legno restando solamente la fabbrica a sesto acuto coi canaletti laterali, che servivano di scorritoi per l’alzata e la discesa della sopraddetta porta, che veniva maneggiata con leve e catene”, come attesta lo storico Adolfo Celi (cfr. Adolfo Celi, Monografia storica su Camico in Agrigento, Girgenti,1900). Ma per gli Agrigentini, anche senza ponte levatoio, l’ingresso alla via Atenea continua a chiamarsi Porta di Ponte.
Da questa porta le mura chiramontane declinavano sino ad una vicina torre e quindi si volgevano a sud, interrotte da altre quattro possenti torri di difesa.
La Porta cosiddetta del Marchese era ubicata sotto la seconda torre, mentre sotto la quarta s’innalzava la Porta dei Panitteri (i cui resti si conservano ancora). Questo antico ingresso aveva avuto però nei secoli passati un altro nome, “Bellicaudi”. Non è certo però se si tratta della corruzione di una parola araba (Bab-el-Kadi), il cui significato era “Porta del Giudice”, o se sia un altro il significato del termine e cioè “parte popolata”, che meglio indicherebbe la funzione antica della Porta, che era quella di consentire l’accesso ad una delle zone più densamente popolate della città, il quartiere Ravanusella (corruzione dall’arabo Rab-nas, dimora di gente qualunque).
Dalla Porta del Marchese le mura si prolungavano lungo un declivio sino a raggiungere la torre di Notar Andrea, nei pressi dell’attuale Chiesa che sorge in piazza Ravanusella. Questa torre venne abbattuta durante i moti rivoluzionari del 1848-49 dai patrioti che ivi costruirono trincee e altre opere di ingegneria militare.
Il circuito delle mura si spostava lentamente poi verso occidente e incontrava la porta dei Pastai, poi detta dei Saccaioli – così nominata perché si trovava nei pressi di alcuni mulini – che andò distrutta a seguito della costruzione di una piccola chiesa dedicata a Santa Lucia. Sulla linea occidentale delle mura si trovava inoltre la Porta di Mare, che immetteva alla lunga trazzera che conduceva al Molo.
Troviamo poi la porta detta di Mazzara, il cui nome però non ha nulla a che vedere con l’omonima città della Sicilia occidentale e deriverebbe invece, secondo lo storico Picone, dall’arabo “El-Maha-ssar”, ossia “torchio o trappeto”. Esisteva, infatti, in questa zona una piccola attività industriale.
Alcuni studiosi, però, fanno derivare il nome da “Ma’sarah” ossia “palmento, luogo dove si pigia l’uva”. I primi interventi per l’abbattimento di questa porta della città risalgono al 1873.
Le mura avanzavano poi lungo la collina, proseguendo quindi in lato sino a raggiungere la strada su cui sorge l’ex istituto Gioeni e quindi da lì arrivavano allo Steri Chiaramontano, l’attuale Seminario Vescovile, presso il quale s’innalzava un’altra porta, quella dei Cavalieri. Poi le mura riprendevano da lì a distendersi verso nord, lungo la linea che dal Duomo conduceva al Castello e quindi alla Porta Bibbirria (secondo alcuni Porta dei venti). L’ultimo tratto murato andava sino all’angolo della Chiesa di Santa Maria degli Angeli e scendeva ancora la collina per ricongiungersi con la Porta di Ponte, che era assai diversa da quella che oggi ammiriamo” (cfr. Elio Di Bella, Una via una storia, Agrigento, 1996).
La Porta è stata ben descritta da diversi studiosi di storia locale. Così la ricorda il maggiore storico agrigentino, Giuseppe Picone: “La Porta di Ponte era una magnifica costruzione, gli archi con il consueto sesto acuto e meraviglioso era l’incavo della saracinesca”. Così invece la ricorda Michele Caruso Lanza: “La Porta della città era una torre merlata di fattura elegantissima, munita di saracinesca, denominata la Porta di Ponte; giaceva a 25,30 metri più a nord dell’attuale Porta Atenea, formava parte delle fortificazioni della città ed era attaccata all’ultima torre ancora esistente (n.d.r. oggi non più esistente perché demolita) mediante un bastione”.
Alessandro Giuliana Alaimo, esperto di grande rilievo d’arte agrigentina, osserva che: ” La Porta di Ponte era inclinata rispetto l’asse della Strada maestra (la via Atenea) con un angolo in direzione dell’attuale caserma dei Carabinieri. In essa si vedeva (come scrive il Picone) lo stemma di re Federico, che, non curato “fu barbaramente infranto… (La Porta) era di magnifica costruzione, con gli archi nel consueto sesto acuto; meraviglioso era l’incavo della saracinesca”, e le parole di Picone troverebbero forse conferma nel detto popolare che includeva la porta fra le cose più notabili della città: Tri su li cosi di Giurgenti: Fonti, Ponti e Porta di Ponti (cfr. Alessandro Giuliana Alaimo, Agrigento d’altri tempi, in “L’Amico del Popolo”, Agrigento, 1968).
La necessità di dotare la Porta di un ponte levatoio era dovuta al fatto che tra il piano dinanzi alla Porta e la opposta roccia di san Vito si estendeva un fossato (detto dagli Agrigentini la Nave). Dalla Porta pertanto da lì dipartiva uno stradone che girava largo verso Nord-est e voltava poi dipanando verso il santuario di San Calogero, ma sempre rasentando l’impervio fossato. La presenza di questo ampio dirupo rendeva necessario un ponte elevatoio.
Sulla via che da Porta di Ponte conduce al Convento di San Vito si disponevano gli stazzunara (fornaciai), i fondacai (apprestatori di stalle e rimesse per gli animali e di alloggiamenti per i trafficanti che operavano i trasporti delle derrate dal capoluogo ai vicini centri della provincia e viceversa) e i verdunara (che eseguivano i trasporti a dorso di teorie di muli).
Tale strada conduceva anche alla piccola ma graziosa chiesetta di Santa Maria delle Grazie, edificata tra il 1433 e il 1442 (abbattuta, insieme alla vicina Villa Garibaldi, circa mezzo secolo fa).
Il sacerdote Salvatore La Rocca ci ha lasciato un manoscritto in cui leggiamo che “Porta di Ponte fu demolita dall’appaltatore Giovanni Scaglia, il quale ebbe pure l’appalto della costruzione della nuova entrata e del lastricato di via Atenea. Dietro il fabbricato Mendolia e quello di San Pietro esisteva il trappeto di padre Curreri. Al cantone a sud del fabbricato Mendolia vi era la bottega “di lu ragatusu”.
Alessandro Giuliana Alaimo ci descrive invece le tristi condizioni in cui versava la suddetta strada e il piano antistante che:” Lungo le mura che congiungevano l’angolo della Chiesa di Santa Maria degli Angeli con la Porta di Ponte, per intenderci nel sito dove sorgono il Palazzo Caratozzolo, il Palazzo della Standa e qualche altro edificio moderno, esisteva una mediocrissima e caotica costruzione, la casa Argento, dove si trovava un nauseante e puzzolente fondaco d’animali, detto fondaco Argento, a cui facevano seguito i cosiddetti stazzoni, cioè delle officine di figuli con accanto i burgi, come vengono chiamati in dialetto i cumuli di paglia che servivano ai figuli per l’accensione dei forni necessari alla cottura delle quartare e delle altre stoviglie. Gli stazzuni erano siti in quel punto e nel vicino piano di San Filippo (cosiddetto per la vicina chiesa ivi esistente), perché la zona è ricca di argilla blu, ottima per le stoviglie di creta cotta e stagnata”.
Ricostruendo gli appunti del disegnatore Salvatore Lo Presti, datati 6 agosto 1884, rileviamo che “nella stradella esterna (quella, per intenderci, che passava dinanzi al Palazzo Mendolia) sorgeva un filare di celsi bianchi. Essa girava nel punto in cui oggi è l’angolo sud-ovest del terzo sgherro (giardino pubblico), per scendere nella Villa Piccola. A principio di detta stradella e precisamente tra l’angolo nord-ovest del terzo sgherro e l’angolo sud-ovest del primo sgherro, era la garetta del dazio consumo. Al di sotto di tale garetta (presso a poco) cominciava il fossato in fondo a cui era la Villa Piccola con alberi di robixie . Nel fondo a nord della Villa Piccola e precisamente sotto al crocevia formato dal viale che va alla Prefettura, era la vaschetta dell’acqua sorgente trovata dal Colonnello Fleres (lo stesso colonnello borbonico che aveva voluto realizzare la Villa Piccola) e dietro a tale vaschetta si trovava la casetta del custode ( il vecchio Battaglia).
Proprietario dell’area in cui sorse la villa Piccola ed anche della roccia in cui era sorta anche la Villa Maria Teresa (poi Villa Garibaldi, n.d.r.) era don Calogero Cannameli.
Sotto l’orto a sud della Villa Piccola esisteva un orto dello stesso don Calogero Cannameli e sotto di questo trovasi un altro orto di certo Angiova.
L’acqua che irrigava questi due orti era molto probabilmente quella stessa della fonte della Villa”.
Il funzionario di Prefettura Rambelli ci ha descritto invece i quattro giardinetti di Porta di Ponte, così come si presentavano alla fine del secolo scorso (cfr. Ricordi di Girgenti, dell’editore Montes, Girgenti 1899): “Dinanzi al palazzo di Prefettura trovansi quattro giardinetti che i popolani si ostinano a chiamare sgherri storpiatura della parola inglese squares. In questi giardinetti, chiusi da siepi sempre verdi, si ammirano delle palme, delle araucarie, dei pinus strobus, delle canne indiche, degli aloè succotrini, degli alberi del pepe, degli eucalipti, e molte altre piante esotiche e nostrali di stupenda vegetazione tropicale. Entro i giardinetti serpeggiano bei viali intorno ad aiuole coltivate ad erbe e fiori sceltissimi, né vi mancano vasche e fontane, le quali nelle sere delle feste dello statuto e di San Calogero diventano meravigliosamente graziose per giuochi d’acque, che il Municipio fa illuminare coi becchi del gas, le cui fiammelle raffigurano anche gli stemmi di Casa Savoja, e del comune. Nelle vasche hanno domicilio molte rane che i Girgentini chiamano pesci cantanti, e “pour cause”.
Numerosi sono stati gli interventi realizzati nell’ultimo secolo nel piano di Porta di Ponte, come viene ricordato in una recente ricerca degli studenti del Liceo Empedocle di Agrigento:” Nel 1865 venne costruita una vasca di sedici metri per l’approvvigionamento dell’acqua potabile; nel giugno del 1868 il Consiglio Comunale deliberò l’espropriazione di Casa Mendolia per allargare Porta di Ponte e permettere la conduzione dell’acqua potabile alla Passeggiata; nell’ottobre del 1868 ebbe inizio la demolizione della vecchia Porta di Ponte chiaramontana e il 16 dello stesso mese il Consiglio deliberò la ricostruzione di una nuova Porta di Ponte, dopo che era stato allargato lo spazio circostante comprensivo delle case Mendolia. Questo è dunque l’atto di nascita della odierna Porta. Essa fu ricostruita seguendo il gusto neoclassico. Due avancorpi simmetrici svettano come torri, formati, ciascuno, da due piani; formano angolo con la via Gioeni e la via Atenea.
Sulla facciata che dà all’esterno, nella parte inferiore, è una nicchia sovrastata a destra dallo stemma antico dell’aquila che ghermisce la preda, a sinistra dai Telamoni che reggono le tre torri; il piano superiore mostra una nicchia vuota, incorniciata da paraste, terminante con capitelli in stile ionico, sovrastata da bassorilievi raffiguranti armi ed elmi in diverso disegno.
La facciata sulla Via Atenea è più lunga e presenta nel piano terra a destra dei locali oggi vuoti, già sede del Banco di Sicilia, a sinistra negozi; sui vani porta, ad arco, medaglioni; riproducono personaggi mitici o illustri dell’ antichità; si nota tra il piano terra ed il primo una trabeazione con elementi decorativi in bassorilievo che rappresentano gli stemmi di Agrigento marina – il granchio -, dell’aquila imperiale, le tre torri; il piano superiore mostra motivi di balconate inframmezzate da colonne”.
(AA.VV, Via Atenea, una strada si racconta, Agrigento, 1997).