«Il forestiero non può fare a meno di rimarcare la fisionomia delle donne di Girgenti », ha scritto uno dei tanti viaggiatori che nel secolo scorso vennero ad ammirare la Valle dei Templi. Cosa rendeva così attento il nostro turista verso le nostre donne? Nulla di buono se leggiamo quanto scrive subito dopo. Sostiene infatti che: « gli uomini sono assai vivaci; ma le donne, specialmente nella classe della plebea hanno l’aspetto tristo; e pare che dicano agii strani che le guardano: noi siamo schiave, e voi siete liberi. Perché questa differenza?
In verun’altra parte della Sicilia la gelosia è spiegata come a Girgenti.
Il commercio di questa città, che avrebbe dovuto contrarre molte relazioni fra gli esteri, e gli abitanti, non ha per anche raggiunto la civiltà per questo lato; ma in certe società le donne attempate non sono più delle giovani esposte agli sguardi del forestiere.
Noi siam d’avviso che queto rigore provenga dagli usi antichi e dall’abitudine che aveasi una volta di vigilare la fedeltà delle donne ». (Mediterraneo illustrato, 1841). Questo viaggiatore era Marco Malagoli Decchi, che venne a Girgenti nella prima metà dell’Ottocento.
Non migliore impressione ricevette Felice Bourquelot, giunto in Sicilia per un mese e rimasto qualche giorno a Girgenti. Siamo già nella seconda metà dell’Ottocento, ma la condizione delle agrigentine non sembra molto cambiata. « Le donne che s’incontrano per via (bisogna dire che l’aristocràzia esce, quando esce soltanto in vettura) — scrive Bourquelot — sono malvestite; e non ne vidi pur una che mi paresse leggiadra.
Esse portano capelli corti, e li lasciano disciolti, e questa criniera folta ed icolta non presenta vaghezza veruna. Indossano mantelli simili a quelli delle altre donne siciliane, il più sovente corti e di color bianco » (Dall’opera « Un mese in Sicilia »).
Abbiamo cercato nei diari di altri viaggiatori dell’Ottocento qualche altra testimonianza che finalmente deponga a favore dell’altra metà del cielo, ma non ne abbiamo trovata.
Anche alla fine dell’Ottocento, un anonimo templare (cosi erano detti coloro che venivano a visitare i nostri Templi) così descrive le nostre donne e il nostro modo di vestire:
« le donne dei borghesi e dei contadini non hanno specialità nel vestire (…). Portano gonne lunghe senza rialzi nelle parti posteriori, e si coprono il capo con una mantellina di panno nero fine, foderata di tela di cotone colorata, o di flanella, che giunge ai fianchi. Non la lasciano mai neppure di grande estate. La tengono stretta con una mano sotto al mento, e con essa si cuoprono gli oggetti che devono portare compresi i bambini in fasce. Quella mantellina dona poco più alla fisionomia del volgo, la più parte delle quali non potrebbero essere annoverate tra le belle. Hanno bruna, olivastra la pelle, occhi e capelli neri, sono poco curanti della nettezza, e dall’insieme lasciano argomentare la loro discendenza africana. A buono conto potrebbe essere questa una mia finissima essendo sempre vero che le bean pour le craupaud c’est la craupaud. Non è così delle signore, delle borghesi e delle artigiane, tra le quali se ne vedono molte e belle con tutte le gradazioni del colore dei capelli dai biondo oro al nero corvino, ed esteticamente si possono giudicare vere discendenti della razza greco-sicula, donde è rimasto il detto tipico bellezza greca » (Dall’opera « Ricordi di Girgenti ).
A riscattare comunque l’onore delle nostre donne dell’Ottocento, — e se mai ce ne fosse bisogno — c’è per fortuna il medico di molte di loro, l’agrigentino Gaetano Nocito. “Le nostre donne distinguendosi pella rotondità delle membra e fermezza della carnagione — scrive Nocito — si sviluppano con una venustà veramente greca senza venir viziata da vaporose delicatezze; di buon ora possono addivenir madri, e portano felicemente alla luce la prole col loro ben conformato bacino ». (Topografia di Girgenti, 1844).
Elio Di Bella