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Agrigento, la storia della città nell’opera di Tommaso Fazello

6 Aprile 2018 //  by Elio Di Bella

Riportiamo il capitolo che lo storico Tommaso Fazello ha dedicato ad Agrigento nella sua celebre

DELLA PRIMA DECA DELL’HISTORIE DI SICILIA,

DEL REV. P. MAESTRO
TOMASO FAZELLO,

LIBRO SESTO.

Della città d’Agrigento.
Cap. I.

Dieci miglia dopo Punt’alba, segue la foce del fiume Agrego, secondo Polibio, detto hoggi volgarmente Drago; ma prima che si venga al traghetto della foce del fiume, da man sinistra si trova una Chiesetta, dedicata a San Leone.

Questo fiume nasce ne’ colli del castel Rafadalo, e nel passare, bagna le mura d’Agrigento vecchio, e quivi piglia il nome di Drago, e sotto la città in un luogo detto Rucello, riceve l’acque del fiume di San Biagio, ilqual fiume, partendosi da’ colli vicini, entra nella città verso Levante, e passando pel mezo, va con seco di compagnia a sboccare in mare.

Questo fiume soleva esser dipinto da gli Agrigentini in forma di fanciullo, si come scrive Eliano nel secondo libro, e fargli honori divini, e facendone una volta una statua d’avorio, la mandarono in Delfo. Strabone nel VI, e Tolomeo scrivono, che alla foce di questo fiume, si soleva far la fiera da coloro, che habitavano su per la riviera, e quel luogo, dove ella si faceva, si chiamava Agrigentino.

Questo luogo è rovinato, e si vedono solamente le rovine de’ portichi, e d’altri edifici su per il lito, abondante, come sogliono essere gli altri monti, di sassi, come questi. Fra terra poi un miglio e mezo, soprastà la città d’Acraga, ò vero Agraga secondo i Greci, et Arigento secondo i Latini, come Plinio nel III libro, [179] che fu già una gran città, laquale cent’anni dopo il principio della città di Gela, fu edificata da’ Geloi, havendo per capi di questa lor Colonia Aristone, e Pistillo, mettendole il nome del fiume vicino, come afferma Duri Samio, Stefano Bizantio, e Tucidide nel VI libro.

Ma Polibio dice, che la città e’l fiume fu chiamato Agraga dal paese di quivi, ch’era detto cosi, perche il terreno è fecondo in quel luogo, e per imitar il significato del nome greco, la chiamarono a quella foggia, perche Acros in greco, vuol dir sommo, e Gea vuol dir terra, quasi, terra sommamente fertile, ò abondante di campi. Il medesimo Tucidide afferma, ch’ella ricevè le leggi Doriche, onde Luciano dice, che gli Agrigentini furon Greci, e Dorici, anchor che Strabone nel sesto libro chiami Agrigento Ionico.

Questa città hebbe il principio piccolo, come Siracusa, ma in breve tempo crebbe tanto per la grassezza del terreno, e per la vicinanza di Cartagine, la quale l’è lontana cento e cinquanta miglia, ch’ella non cedeva in cosa alcuna ò vuoi di pace, ò di guerra, a qual si voglia città di Sicilia, ma ne anche a qual si sia d’Italia, anchor che bene ordinata, e governata, e di questo ne fa fede Diodoro.

Peroche il suo paese, era abondantissimo d’olio, di vino, e d’altre cose appartenenti al viver humano, delle quali cose, tutta l’Africa allora era estremamente povera, come afferma il medesimo Diodoro. Onde portando gli Agrigentini queste lor vettovaglie in Affrica, e massime in Cartagine, facevano cosi gran guadagni, ch’essi diedero alla lor città quel ornamento, quella riputatione, e quella gloria, ch’ella hebbe dapoi.

Perochè allettate le persone da quell’abondanza di vitto, e mutando paese, andando là, come ad un granaio publico, e s’accrebbe tanto cosi di popolo, come di circuito di paese (si come afferma Laertio) ch’ella girava dieci miglia, e ottocento mila persone l’habitavano. Fuor delle mura poi, perche la città non s’empiesse troppo, per amor del gran concorso de’ popoli, furon fatti i borghi, gli habitatori de’ quali, non erano differenti da quei della città, nè di legge, nè di conditione, nè di dignità. Laonde Empedocle dovendo salutar gli Agrigentini, meritamente gli salutò con nome, e titolo convenientissimo a loro, quando disse.

,, Amici, voi, ch’in quella gran cittade

„Habitate, ch’è posta in su le rive

„Del bel fiume Acraganto, et attendete

„A cose honeste, e belle, Iddio vi salvi.

Lequali parole, essendo interpretate da Laertio dice, ch’Empedocle intese di dire il largo Agrigento per habitarvi dentro ottocento milia persone.

Non fu minore la lussuria del vitto, e la magnificenza delle case, che si fusse la grandezza della città, ond’egli è volgatissimo quel detto d’Empedocle, contra i suoi cittadini, ilquale è attribuito da Eliano a Platone, cioè, che gli Agrigentini edificavano di sorte, come se non havessero a morir mai, e mangiavano di maniera, come s’havessero a morire il giorno seguente.

Onde Ateneo ne’ Dimnosofisti dice, che le case d’Agrigento, erano fabricate solamente per mangiarvi dentro, lequali per la frequenza e concorso de’ bevitori, eran chiamate Trireme. Del qual sopranome, [180] e dell’imbriachezza ridicolosa de’ giovani della città, egli nel secondo libro ne recita questa istoria. Essendosi una volta adunati insieme certi giovani nobili a mangiare, e bevere, et havendo gareggiato gran pezza a chi piu beveva, diventarono tutti imbriachi, laqual imbriachezza, fece venir loro le vertigini, e cominciò a far parer loro, che la casa andasse a torno, e girasse.

Onde cominciando a parer loro d’essere in nave, e di star in pericolo d’annegare, si risolverono di gittar fuor di casa, ciò che v’era dentro, come s’ei volessero scaricar la barca, e pigliando ciò che s’abbattevano a trovare, lo gittavano fuori delle finestre nella via, quasi gittandolo in mare, onde il popolo cominciò a ragunarvisi, e portar via tutto quel, che trovavano gittato nella strada. E non solamente fecero questo, ma chiamavano soccorso, e facevano molte altre cose, che soglion far coloro, che stanno per affogare.

Per queste voci, si destarono molti vicini, e correndo assai gente, vi venne anchora gran numero di cittadini, et il giorno seguente v’andarono anche i Senatori, iquali, cominciarono gravemente a riprendergli, e ricordar loro la modestia civile. Ma dispregiando eglino per l’imbriachezza le parole, uno di loro disse. O Tritoni, havend’io havuto una gran paura di non m’annegare, me ne sono andato alle camere di sotto, e mi sono stato a giacere a basso, a basso; et aggiunse a queste molte altre parole si fatte, mezo addormentato.

Et essendo minacciato dal Senato di gastigo, gli ringratiò inseme con gli altri compagni, che sempre balenavano. E soggiunsero poi loro. Quando noi saremo usciti di questa tempesta, e saremo entrati in porto, noi vi faremo, come a Dei conservatori, le statue di rame tra gli Dei marini nella publica piazza. Costoro, dopo due giorni, essendo loro svaporato, e sfumato il cervello, et havendo smaltito il vino, ritornarono con gran fatica nel senno, e per questa novità, e si brutto essempio d’imbriachezza, gli Agrigentini posero nome alle lor case, Triremi.

Della magnificenza loro, parlando Timeo, dice (secondo che narra Diodoro) che gli Agrigentini furon tanto splendidi, ch’ei facevano i boccali, et i Cemboli d’argento, e le lettighe d’avorio. Ma la loro inestimabil magnificenza, si vedeva nelli lor Tempi, ne’ Teatri, e ne gli Aquedotti, e nelle piscine ò vivai, peroche queste fabriche, eran tante in numero, e d’architettura si maravigliose, si come ne fan fede gli scrittori, e ne dimostrano anche le rovine, che si vedono per tutto, che meritamente si dice, che le rovine d’Agrigento, trapassano quelle di Roma;

ma essi hebbero molta gran commodità di far queste fabriche, perche havendo una grandissima moltitudine di schiavi Cartaginesi, i quali furon presi da Terone Tiranno d’Agrigento, e da Gelone Re de’ Siracusani nella presa d’Imera, si come si dirà nell’ultima Deca, accioche non marcissero nell’ocio, et accioche la città s’abbellisse d’edificij, gli misero a tagliar pietre, et a fabricar i Tempi publici de gli Dei, si come scrive Diodoro nel II libro.

Queste fabriche, erano di forma Dorica, e stavano sopra XIII colonne per banda, lequali erano scanalate, e le lor grandezze erano si smisurate, e terribili, ch’ei non pareva ch’elle fussero dirizzate da huomini di mezana statura, ma da’ Ciclopi, e da’ Giganti; e senza adoperarvi calcina [181] si ben fermate, ch’elle potevan reggere quelli edifici immensi, e pareva ch’elle gli dovessero conservar perpetuamente.

Ma a’ nostri tempi, non si trova alcuno di quelli edifici, che sia integro, ma si vede ogni cosa rovinata e per terra. Il che non tanto è avvenuto per cagion de’ tempi, e della vecchiezza, quanto per trascuraggine de’ nostri vecchi, iquali miseramente hanno lasciato rovinar quelle cose, che con poca spesa di piccoli puntelli, e pochi sostegni, potevano lungamente tenere in piedi. Ilche hanno fatto, ò per fuggir la spesa, ò la fatica, e non è stato senza grandissima iattura, e danno della posterità, e dell’arte del fabricare. Ma quelle cose, che pur anchora si possono discernere tra quelle rovine, son queste.

Vedesi qualche vestigio del Tempio d’Esculapio, ilquale era maravigliosissimo, ch’era posto verso Ponente da quella parte, che va verso Eraclea, come scrive Polibio nel primo libro. In questo Tempio era una statua bellissima d’Apolline, nel fianco della quale era scolpito con minutissime lettere d’argento il nome di Mirone, ch’era stato lo scultore di quella statua, si come ne fa fede Cicerone nel VI libro delle Verrine.

Questa statua, essendo stata tolta da’ Cartaginesi nell’espugnatione d’Agrigento, poi che fu distrutta Cartagine da Scipione minore Affricano, nipote del primo maggiore Affricano, fu da lui restituita a gli Agrigentini. Di questo Tempio si vedono hoggi in piedi solamente due Colonne, et alcune altre se ne vedono a giacere nella vigna di Luigi Portuleva, presso alla casa de’ contadini e lavoratori di detta vigna.

Eravi un’altro Tempio dedicato a Giove Olimpio, et era lontano da quel d’Esculapio poco men d’un terzo di miglio, e si dice, che questo era de’ maggiori Tempi, che fussero in tutta Sicilia, si come afferma Diodoro, et anchor hoggi ce lo dimostra il sito, e’l giro, perche la sua lunghezza era di trecento, e quaranta piedi, la larghezza era di sessanta, e l’altezza senza i fondamenti era cento e venti piedi.

Le mura s’alzavano insieme con le colonne, e le colonne in apparenza estrinseca, erano di figura ovale, et intrinsecamente erano quadre. I portichi del Tempio erano d’altezza, e di grandezza maravigliosa, e nel portico, ch’era verso Levante, si vedeva scolpita con bellissimo artificio la guerra de’ Giganti, contra Giove, quando lo volsero cacciar di cielo.

Nell’altro portico, ch’è volto a Ponente, era la rovina di Troia, lavorata con si bella, et artificiosa maniera, che le figure parevano piu tosto vive, che scolpite. La guerra Cartaginese fu cagione, che non si finisse il tetto, che s’era cominciato prima, che la guerra si movesse.

Et anchor che il resto della fabrica in successo di tempo rovinasse, non dimeno una parte, ch’era appoggiata a tre Giganti, et a certe colonne, stette un gran tempo in piedi, laquale è tenuta dalla città d’Agrigento per memoria insino al dì d’hoggi, e l’hanno aggiunta alle lor bandiere. Ma questa anchora, per trascuraggine de gli Agrigentini, rovinò l’anno MCCCCI, a nove dì del mese di Decembre. Et in quel luogo a’ nostri tempi non si vede altro, che un grandissimo monte di pietre, il qual dal vulgo è detto il palazzo de’ Giganti. In quel tempo, che questa fabrica rovinò, si trovò un certo Poeta, che descrisse quella rovina, con questi versi Latini.

[182]

„Quae veteris super una tibi monumenta decoris

„Magnorum testes operum, gazaeque potentis,

„Virtutumque fuere Acragae gens clara tuarum

„Reliquiae cecidere, et terno Athlante revulso

„Sublimes miseram muri oppetiere ruinam.

„Nunc, ubi sunt Siculis regno de Principe signa

„Quae referas? oppressa iacent, foedisque sepulta

„Ruderibus, quorum spolijs se nona Decembris

„Unius à mille, et centum quater induit anni

„Lux inimica, tua clade, et squallore triumphans.

       Il senso de’ quali è questo.

„Quelle rovine venerande, e belle

„Che dell’opre famose, e de gli alteri

„Edifici, e superbi, e de l’immense

„Ricchezze tue, o glorioso, e chiaro

„Agrigento, facean memoria, e fede,

„E de le tue virtuti, erano illustri

„Testimoni, son’hor, oime, per terra

„E sotto il pondo de le gravi, e grosse

„Mura, piegando i tre Giganti il collo,

„E le ginocchia, e le robuste spalle,

„Ch’eran di quella mole alto sostegno,

„Misere andar ne la rovina estrema.

„Ove son’hor le maraviglie tue

„O Regno di Sicilia? ove son quelle

„Chiare memorie, onde potevi altrui

„Mostrar per segni le grandezza antiche?

„Oime, ch’oppresse da l’ingiurie gravi

„Di vecchiezza, e di tempo, hor son sepolte

„Sotto à brutte rovine, e’l dì funesto

„Ch’elle andaron per terra, il dì fu nono

„Del mese di Decembre, e de la nostra

„Salute, l’anno si girava intorno

„Mille, quattrocent’un, nelquale il tempo

„Nimico al tuo splendore, andò superbo

„Trionfator de le miserie tue

„E de’ tuoi danni si mostrò giocondo.

Il terzo tempio, degno di memoria, era dedicato a Ercole, e non era molto lontan dalla piazza, come narra Cicerone nel VI libro delle Verrine, et era separato dal Tempio di Giove, solamente dalla strada, et era visitato molto religiosamente [183] in que’ tempi dell’antica superstitione.

Quivi era una statua d’Ercole di rame fatta di getto, laquale statua era tanto bella, e tanto ben condotta, che Ciceron medesimo confessò di non haver veduto mai la piu bella, nè la piu maravigliosa, e narrò il caso, quando Verre mandò i suoi soldati per rubarla, e la difesa grande, che fecero i cittadini, che stavano alla guardia del Tempio. E le sue parole quasi son queste. Havendo Verre, mandati i suoi soldati di notte, col Capitan Temarchide, a rubar questo Tempio, et havendo sentito le guardie di detto Tempio il romor dell’arme, e la venuta di costoro, cominciarono a gridare, e si messero alla difesa, ma essendo essi bastonati, e feriti dalle genti di Verre, furon ributtati, e messi in fuga.

Dopo la cui cacciata, i servi rompendo per forza le porte del Tempio, entrarono dentro, e si misero intorno alla statua d’Ercole per levarla, e portarla via. Ma essendo andato il romore di questo sacrilegio per tutta la città, tutti i cittadini, cosi giovani, come vecchi, destati dal romore, cosi di notte come egli era, si levarono, e presero l’armi, dando ciascuno di mano a quella sorte d’arme, che gli veniva trovata a caso, e da tutte le bande della città concorreva gente alla difesa del Tempio d’Ercole.

Questo Tempio, era posto presso a quelle mura della città, che riguardano il mare. Onde gli Agrigentini, facendo forza a’ soldati di Verre gli ributtarono, e cominciando a piegare, finalmente fuggirono. Cosi gli Agrigentini difesero Ercole, ch’eglino falsamente credevano, che fusse Dio. Da questa istoria si può agevolmente conoscere, che Agrigento vecchio, era in piedi per fino al tempo di Cicerone.

Vedevasi in questo Tempio anchora una tavola di man Zeusi, nella quale era dipinto Ercole bambino, che in presenza della madre Alcmena, e del padre Anfitrione, tutti sbigottiti, e spaventati, ammazzava i due serpenti mandati da Giunone, ilqual pittore, stimandosi che quella tavola non gli potesse esser pagata con prezzo alcuno, ne fece un dono a gli Agrigentini, si come narra Plinio nel XXXV libro al capitolo IX. Di questo tempio a gran fatica è in piedi una colonna, laquale è quella, che si vede dritta, appresso al Tempio di Giove, tra que’ monti di sassi, che anchor hoggi si chiama il Tempio d’Ercole, peroche l’altre son rovinate, e sono in quel monte di rovine.

Il Quarto Tempio era dedicato alla Concordia, et era lontan da quel d’Ercole, quasi un mezo miglio verso Levante, e fu edificato da gli Agrigentini, a spese de’ Lilibitani, poi ch’essi hebbero vittoria di loro. Ilche anche è confermato da una tavola di marmo, ch’è nella piazza d’Agrigento nuovo, dove sono scritte in lettere maiuscole queste parole.

CONCORDIAE AGRIGENTINORUM SACRUM,

RESPUBLICA LILIBITANORUM,

DEDICANTIBUS. M. ATTERIO CANDIDO

PROCOS: ET, L. CORNELIO MAR

CELLO. Q. PR. PR. cioè,

Tempio della Concordia de gli Agrigentini, fatto dalla Republica de’ Lilibitani, [184] dedicato da Marco Atterio Candido, Proconsolo, e da Lucio Cornelio Marcello Quinto, Propretore.

Una grandissima parte di questo Tempio, si vede anchora integra nella Chiesa di S. Gregorio dalle Rape, già Vescovo d’Agrigento.

Il quinto Tempio era dedicato a Giunone Lacinia, di cui fa mentione Diodoro, dove era una Tavola di mano di Zeusi, nella quale era dipinta una Giunone, con bellissimo artificio; ma quando egli la dipinse, ei volle veder ignude le piu belle donne, che fussero in Agrigento, tra lequali, havendone elette cinque bellissime, e pigliando da ciascuna le più belle membra, ne formò una Giunone, et una figura, che veniva a essere in tutte le parti perfettissima, e bellissima, come narra Plinio nel libro XXXIX, al capitolo IX.

Il che fu fatto da Zeusi, accioche nessuna di quelle fanciullette insuperbisse e non havesse ardire d’agguagliarsi a Giunone, s’alcuna d’esse sole havesse ritratta; et anche lo fece, per dipingere una Giunone bellissima, essendo avvezzo, come dice Aristotele nella Poetica, a ritrarre, e dipingere tutte le cose ch’eran tenute, e giudicate piu belle.

Questo Tempio, poi che fu espugnato, e preso Agrigento da’ Cartaginesi, fu abbruciato da Gelia con tutte le persone, e con tutte le cose, che v’eran dentro, il che egli fece per non venir nelle mani de’ nimici, peroche essendosi egli quivi fuggito per salvarsi, come in luogo sicuro, e per uso ordinario e riverenza rispettato, e vedendo che i nimici gli eran venuti dietro, e che con violenza bestiale, et efferata v’entravano dentro, egli prese partito e risolutione di mettervi fuoco, e d’ardervisi con tutto ciò che v’era, si come afferma Diodoro.

Il sesto Tempio, era dedicato alla Pudicitia, ilquale (eccetto il Tempio di Giove) era celebratissimo, et era lontano dal Tempio della Concordia poco piu di mezo miglio, posto in un cantone della città verso Levante, et hoggi è detto la torre delle Pulcelle, e vi sono alcune Colonne fesse, lequali non essendo dato lor qualche aiuto, rovineranno un giorno, con tutto il resto del Tempio.

Il settimo Tempio ch’era in Agrigento, era quel di Proserpina, religiosissimo veramente, e visitato da gli Agrigentini con gran frequenza di popoli, e con grandissima divotione, per cagion delquale, Pindaro nelle sue Olimpie, chiamò la città d’Agrigento, stanza, e seggio di Proserpina, e vi si celebravano le feste, dette Anacalitterie, e le Teogamie, e quelle erano celebrate, perche dopo tre giorni, che Proserpina fu rubata, si seppe dove ell’era, e da chi era stata tolta, e queste si facevano, perche dopo molti fastidi, e disagi, essendo stata trovata da Cerere (si come scrive Esichilo) credevano, che ella fusse stata assunta in Cielo, e stesse la sù appresso a Giove.

L’ottavo Tempio d’Agrigento, fu dedicato a Castore, e Polluce, come afferma Pindaro nel medesimo luogo, ilquale era di bello artificio, e di maravigliosa architettura. E fecero gli Agrigentini questo Tempio, perche eglino havevano Castore, e Polluce in grandissima veneratione, e facevano in honor loro le feste, dette Teogenie. Ma in che parte della città fussero questi due Tempi, io non l’ho potuto sapere per vestigio alcuno; ma quello, che noi diremo adesso, è ben dignissimo di maraviglia.

[185] Egli era fuor delle mura d’Agrigento un Tempio dedicato a Vulcano, dove hoggi è la Chiesa di Santa Maria di Monserrato, secondo che scrive Solino, il qual dice, ch’egli era posto poco lontan dal lago, nel qual si vede andar a galla dell’olio, a cui soprastà questo Colle. In questo Tempio, secondo il costume di quest’antica superstitione, quando gli huomini facevano i lor sacrifici, mettevano sopra l’altare solamente legni di Vite, senza mescolarvi altro fuoco.

E se il sacrificio era accetto, quei sermenti di vite, anchor che fussero verdi s’ardevano, e con quella lor fiamma alludevano a coloro, che facevano il sacrificio. E se la fiamma col suo piegare, toccava alcuno de sacrificatori, e non gli faceva male, essi l’havevan per segno, che ogni cosa era per andar loro bene, et il tutto era accetto a gli Dei. Le quali cose, eran tutte frivole, e di poco momento, anzi vane, et opere di Demoni.

Furono oltre a questi, molti altri Tempi in Agrigento degni di memoria, secondo ch’io ho potuto ritrar da coloro, c’hanno scritto delle lor fabriche; e la cava, d’onde si cavavano quelle grandissime pietre, ch’entravano in queste fabriche; si chiama hoggi Cavetta, la quale è vicina alla Chiesa di S. Biagio, dove sono due lacune, ò vero vivai, ò piscine di maravigliosa grandezza, fatte a posta per raccogliervi dentro l’acque piovane, e son poste sopra colonne.

Erano ancora in Agrigento gli aquedotti, di maravigliosa, e sontuosa fabrica, come afferma Diodoro, per i quali si conducevano nella città, l’acque di quei colli, a’ piedi, et a’ fianchi de’ quali, ella era edificata. E perche il carico di fabricargli, e di condurgli a perfettione, fu dato a un certo Feaco, nobile Agrigentino, però quegli aquedotti dal suo nome furon chiamati Feacij, e di loro restano anchora alcuni vestigij.

Eravi anche un Teatro altissimo, il quale fu molto celebrato da Giulio Frontino, nel suo terzo libro de gli stratagemi, et hoggi a gran pena si conosce dalle rovine de’ fondamenti, che son presso alla Chiesa di S. Nicolò. Era anchora fuori delle mura verso Ponente una piscina, ò vero vivaio, la quale, era stata fatta con grandissima spesa, e Diodoro la chiama Porto, et era stata fabricata da li Schiavi Cartaginesi.

Questa fu consecrata dal popolo al Re Gelone, come a amico, e bene merito, accioche egli vi si pigliasse dentro spasso e ricreatione. Era di giro sette stadij, et era profonda venti cubiti, e vi correvano l’acque del fiume, e de’ fonti vicini, e v’erano pesci di diverse sorti, nutriti non meno da’ buoni pascoli, che dal temperamento salubre dell’acque. Volavano di dentro, e d’intorno alle sue rive gran moltitudine di Cigni, il che faceva un bellissimo vedere, e le dava maravigliosa vaghezza, et amenità, si come afferma Diodoro, et Ateneo nel decimo terzo libro.

Questa piscina per fino al tempo di Diodoro, si per la vecchiezza, si anche per la trascurataggine de’ cittadini, cominciava a rovinare, anzi era quasi tutta rovinata. Et era posta in quel luogo, dove sono hoggi gli orti della Badia, e d’Angelo Strazzante medico Eccellentissimo, tra’ quali anchora passano i fonti, e’l fiume.

Diodoro scrive, che i gentilhuomini d’Agrigento furono liberalissimi, et amicissimi de’ forestieri, la qual cosa accrebbe molta fama, e molto splendore alla città [186] d’Agrigento et Empedocle soleva dir di loro, che le porte istesse della città facevano honore a’ forestieri senza fraude alcuna.

Tra questi gentilhuomini ch’erano liberali, anzi magnificissimi verso i forestieri, teneva il primo luogo, e’l piu supremo grado un certo Gelia, anchor che Ateneo nel primo libro lo chiami Tellia, peroche egli era il piu ricco di tutti gli altri cittadini, ma era molto piu ricco d’animo, e di generosità di core, che di facultà, come afferma Valerio Massimo nel quarto libro, nel Capitolo della liberalità, et era piu tosto nato per ispender i danari, che per guadagnarli, e piu per consumar la roba, che conservarla.

Costui volse, che la sua casa, fusse la bottega della Liberalità publica. Egli faceva fabriche, e memorie a uso, et utile publico, dava spesso qualche trattenimento, e solazzo a gli Agrigentini con qualche publico, et honorato spettacolo, et anche spesso faceva mensa publica, e come si dice, teneva corte bandita. Dava la limosina privatamente a tutti i poveri, maritava fanciulle, et a coloro, ch’erano oppressi dalla cattiva fortuna, dava sempre soccorso.

Erano ricevuti e cortesemente trattati i forestieri in casa sua, cosi del paese, come d’altre regioni, e paesi stranieri, e poi quando partivano, sempre ne portavano qualche cortese dono, e finalmente tutti i suoi beni erano come dire un patrimonio commune di tutti. Dicono gli scrittori di costui, ch’egli teneva ogni giorno alle porte della città alcuni servitori, i quali havevan espressa commissione d’invitare e menar a casa sua i forestieri, che v’arrivavano.

Scrive anchora Timeo nel xv. libro, che una volta cento soldati della città di Gela, sbattuti dalla tempesta, arrivarono in Agrigento, e che tutti alloggiarono in casa di Gelia, e furono rifatti i vestimenti a tutti quanti, ch’erano stati lacerati dalla tempesta. Ateneo nel primo libro, per autorità d’Antifone riferisce, e scrive, che cinquecento cavalli della medesima città di Gela, che nel tempo del verno, cacciati dall’asprezza del freddo, erano venuti in Agrigento, alloggiarono tutti in casa di Gelia, et a tutti fu dato un vestimento, et una camicia per uno, e fu apparecchiata loro una delicatissima cena.

Policleto anche lasciò scritto (si come narra Diodoro) che pigliando soldo in Agrigento, vide un luogo, dove si disegnavano i vasi di Gelia, tra quali n’erano trecento lavorati alla medesima foggia, che tenevano cento anfore l’uno, appresso i quali era un altro vaso di smisurata grandezza, che teneva piu di mille anfore, fuor del quale, come fuori d’una fonte, uscivano l’acque, ch’entravano ne’ vasi predetti.

Quest’huomo, anchor che fusse tanto virtuoso, nondimeno ricevè grand’ingiuria dalla natura, perch’ella lo fece piccolo di corpo, onde, essend’egli stato una volta mandato da gli Agrigentini per ambasciadore alla città di Centuripi, i Centuripini si ridevano di quella sua statura, e come dir, se ne burlavano. Di che accortosi Gelia, disse loro facetamente, e burlando, che gli Agrigentini solevan mandare alle città e Republiche grandi, huomini grandi per ambasciadori, e alle piccole città e Republiche, mandavano huomini piccoli.

Grand’essempio di Magnificenza, si vide anchora in Antistene Agrigentino detto per sopranome Rodo. Costui, havendo maritato una sua figliuola, fece [187] per le strade una cena a tutti i Cittadini, il che fu cosa mirabile. Fece anche fare per tutta la città molti monti, ò vero cataste di legne, et a ciascuna d’esse pose alcuni ministri, e soprastanti, i quali come la Rocca faceva segno col fuoco, havevan commissione d’accender ciascheduno il suo capannuccio, e catasta.

Andando adunque la sposa a spasso per la città, si come era costume, sopra un ornatissimo cavallo, fu dato il segno dalla Rocca, e subito furono accesi i fuochi per le strade, e non solamente per le vie, ma anche alle finestre, e su pe’ tetti delle case, e de’ Tempi si vedevano molti lumi, di maniera, che pareva, che tutta la città ardesse. Dal quale spettacolo essendo commossi gli habitatori delle ville, e de’ borghi vicini, et anche tutti i cittadini della patria, corsero tutti alla città per veder la magnificenza di quest’huomo.

Onde la moltitudine de’ popoli fu cosi grande, che anchor che le strade fussero larghissime, a gran fatica vi potevano capire. Enumerando solamente quelli, ch’eran venuti da’ castelli, e luoghi vicini, si dice, che furono dugento mila persone, lequali tutte accompagnarono la figliuola d’Antistene a marito, ilche fu con grandissimo stupore di tutti.

Non voglio lasciare anche in dietro Esseneto Agrigentino, ma lo voglio meritamente accompagnar con costoro nominati di sopra. Costui, ritornando fuor dell’opinion di tutti vittorioso de’ giuochi Olimpici, fatti nell’Olimpiade novantesima seconda, et entrando vincitore nella città sopra un ricchissimo carro, fu accompagnato da trecento carrette, tirate tutte da cavalli bianchi, e n’erano quattro per carretta: di che gli Agrigentini fecero grandissima festa: e di questo, ne fa mentione Diodoro. E veramente, che Agrigento fu molto famoso di produr belle razze di cavalli, atti a’ giuochi Olimpici, di che anche fa fede Vergilio nel terzo dell’Eneide, quando dice,

„Mostra lunge dapoi l’alte sue mura

„Il famoso Agrigento, ilqual soleva

„Generar già magnanimi cavalli.

La onde, havend’eglino per questa cagion riportate molte vittorie di Grecia (si come afferma Pindaro, e Strabone) s’acquistarono tanta fama, ch’essendo mancata quasi in Cappadocia la razza de’ cavalli, per commissione dell’Oracolo, fu restaurata con Stalloni Agrigentini, comperati da gli huomini del paese. Onde si fece in Cappadocia poi una razza maravigliosissima di cavalli.

E Plinio scrive nel ottavo libro, che gli Agrigentini solevano fare a’ lor cavalli buoni, non solamente le sepolture, ma dirizzavan loro anchora le Piramidi: e Timeo scrive, che per fino a’ suoi tempi, si vedevano in Agrigento le Piramidi sopra le sepolture de’ cavalli, ch’erano stati veloci nel corso.

Questa città d’Agrigento, essendo diventata molto illustre, e famosa, cadde nella Tirannia di Falaride, il cui nome per la sua crudeltà è tanto manifesto, e famoso, che non bisogna farne molte parole, se già non mi tornasse a proposito il farne lunga mentione. Falaride adunque, fu dell’Isola di Creta, e della città di Astifalida, e’l suo padre hebbe nome Leodamante. La madre di costui, (si come narra Cicerone nel primo libro della Divinatione, [188] per autorità d’Eraclide pontico, discepolo di Platone) prima ch’ella lo partorisse, le parve di veder in sogno molte statue di Dei, e d’haverle consecrate in casa.

E le parve anchora, che la statua, et imagine di Mercurio versasse sangue fuor della tazza, ch’ella haveva in mano, il qual sangue, subito che toccò terra, le parve, che bollisse, e crescesse tanto, che’ se n’empieva tutta la casa. Il qual sogno, non volse significar altro, che la crudeltà di Falaride. Essendo morti adunque il padre, e la madre, mentre ch’egli era anchor bambino, venuto che fu in età maggiore, si parti d’Astifalide, per sospitione di Tirannia, havendo lasciata a casa la moglie Eritia, e Paurola suo figliuolo, e se ne venne in Agrigento.

Dove, cominciando a diventare honoratissimo, per ricchezze, per dottrina, e per possanza, se ne fece in ultimo Tiranno, come afferma Aristotele nel quinto libro della sua Politica, e fu il primo Tiranno, come scrive Plinio nel settimo libro, al Capitol cinquantasei. Et anchor che’ si pensi, che Teseo fusse il primo, che inducesse nel mondo la Tirannia, tuttavia, egli fu il primo, che la mettesse nella città d’Agrigento, e che le togliesse la libertà.

E cominciò la sua Tirannide secondo il medesimo Plinio al tempo che Pitagora Samio fioriva, e Tarquin superbo regnava in Roma, si come dice Livio, Gellio, et Eusebio, e fu l’anno dalla creation del mondo circa 4550, se Eusebio conta bene, e LXIIII innanzi all’edification di Roma.

Falari fu d’acutissimo e destro ingegno, di grand’animo, e (come si dice) sfrontato, ò molto ardito, e grandissimo amatore de’ begli studi, e fautor particolare de’ litterati. Quindi avviene, ch’egli perdonò la vita a Stesicoro Imerese Poeta Lirico, che diceva mal di lui, e per questa istessa cagione l’haveva fatto incarcerare, e questo non fu per altro, senon perche egli portava gran riverenza alle Muse.

Et essendo il detto Poeta morto, usò grandissime cortesie alla moglie, e a’ figliuoli, e fece loro molti benefici. Salvò la vita anche a Callescro, che gli faceva tradimento, il che fu per i preghi, et intercessione di Policleto Messenio Filosofo, e medico eccellentissimo.

Si portò anche humanissimamente verso Caritone, e Melanippo c’havevano congiurato contra di lui, e lo volevano ammazzare, e’l caso fu questo. Caritone Agrigentino era molto vago de’ fanciulli, e s’innamorava facilmente de’ garzoni (si come testifica Eliano nel secondo libro della sua varia Historia) ma tra gli altri amò ardentissimamente un certo Melanippo Agrigentino, il qual era giovane bellissimo di corpo, e di viso, e valorosissimo d’animo.

Havendo adunque questo Melanippo non so che lite con un parente di Falaride, e trattandola con lui civilmente in giudicio, Falaride fece intendere a Melanippo ch’attendesse ad altro, e lasciasse stare il suo parente. Ma seguitando egli di litigare, Falari levò via la lite, sospese la causa, e minacciò Melanippo di farlo ammazzare, se non badava ad altro. Dispiacendo a Melanippo d’haver ricevuto questo torto, e non potendo sopportar questa ingiuria, si deliberò d’ammazzar Falaride, e conferì la cosa con Caritone suo amante, pregandolo, che gli volesse dare aiuto, e consiglio, e gli trovasse compagni, che si mettessero a quest’impresa con lui.

Caritone gli offerse se medesimo per compagno, ma gli disse, [189] che per condur questa cosa a buon termine, bisognava affrettar l’occasione. Pensando adunque sopra questo caso, e dubitando ch’il suo innamorato non cadesse in qualche inconveniente, e non precipitasse in qualche grave e dannoso pericolo, si dispose di far questa cosa da se solo, senza farne consapevole altramente Melanippo.

Vedendo adunque Caritone l’occasione, prese il pugnale, et andò alla volta di Falari per ammazzarlo. Ma Falari ch’era accompagnato dalla sua guardia, che armata gli stava sempre appresso, e massime quella delle porte delle stanze dov’egli habitava, fuggì questo pericolo; anzi Caritone, mentre poco accortamente andava per ferirlo, fu preso e messo in prigione, e cominciatolo a tormentare, perche ei confessasse i compagni della congiura, non era possibile cavargli di bocca parola alcuna a proposito, anzi tacendo, e patientemente sopportando, voleva piu tosto provar quei martiri in se medesimo, che sentirgli provar nel amico suo.

Ma andando la cosa in lungo, Melanippo andò a trovare spontaneamente Falaride, e gli disse, che egli non solamente era compagno di Caritone, ma era egli stesso l’autore della congiura, e che non era convenevole dargli piu tormenti, havendo nelle mani il compagno, e’l principale del tradimento, e gli scoperse appresso la cagione, per la quale egli lo voleva ammazzare. Intendendo Falaride queste cose, si maravigliò grandemente del amore, e del valore, e grandezza d’animo d’ambedue, e subito perdonò loro la vita, e comandò loro, che non solamente si partissero d’Agrigento, ma anche di Sicilia. Questi due amici furon commendati dalla Sacerdotessa d’Apolline con questi versi,

„Essempio in terra di celeste amore,

„Fur Melanippo, e Cariton felice.

Scrive Ateneo nel decimoterzo libro, che Apolline, mosso da quest’opera pia, allungò la vita a Falari, due anni: il che, appresso a’ Christiani è una favola degna di risa. Ma benche si dichino queste cose di Falari da gli scrittori antichi, e che le sue Epistole, le quali Angelo Politiano attribuisce a Luciano (il che io non posso credere senza l’autorità di qualche scrittore antico) dimostrino ch’egli fusse huomo di molte lettere, e dotato di molta prudenza, tuttavia Cicerone nel terzo libro de gli Offici lo chiama Tiranno efferato, e crudele, e nel sesto libro delle Verrine lo chiama piu d’ogni altro asprissimo, e crudelissimo.

Molti gravi autori medesimamente dicono, ch’egli fu di cervel bestiale, e di salvatica natura, di maniera che’ si pigliava spasso di flagellar huomini, di sentir le strida de’ tormentati, e di mirar impiccamenti, e squartamenti di persone, e anche havea costume, di tormentare, e di storpiare i forestieri, che gli venivano a casa, come afferma Plutarco ne’ Paralleli. Ateneo nel primo libro, per autorità di Clearco, afferma, ch’ei si soleva far cuocere i bambini che poppavano, e se gli mangiava.

Ma io non debbo passar con silentio quel volgatissimo essempio di giustissima crudeltà, ch’egli usò verso Perillo, ò Perillao, Orafo Agrigentino, ò vero Ateniese, come scrivon molti, il quale, per farsi grato a Falaride, ritrovò una specie di tormento inusitata, e nuova. Costui nel castel d’Economo, formò un Toro di bronzo, voto [190] dentro, maggior del Naturale, che fu quello, che per tal crudeltà lo fece famoso al mondo, come dice Diodoro nel decimonono libro, il qual era d’artificio bellissimo, e di maniera, ch’a parer che fusse vivo, gli mancava solamente il moto, e’l mugliare. Questo artefice, haveva fatto questo Toro a fine, che vi si tormentassero gli huomini, e che i rei, mettendosegli sotto il fuoco, vi s’abruciassero, dentro.

Colui che doveva morire era messo nel Toro per una buca, ch’era in una spalla di questa statua fattavi a questo proposito, e quella molto ben serrata, si metteva il fuoco sotto il toro, e colui che v’era dentro, mandava fuori grandissime strida, e mugiti terribili, et a quel modo pareva, che quella statua mugliasse. Fu presentata questa statua da Perillo a Falaride, sperando di riportarne qualche dono regio, et havendola il Tiranno molto ben considerata, commendò grandemente l’ingegno, e l’artificio dello scultore.

Ma considerando poi, che macchina si horrenda, e che tal sorte di supplicio non potesse essere stata imaginata senon da un’animo bestialissimo, e crudelissimo; condannò l’artefice a quel supplicio prima de gli altri, e volse ch’ei facesse la prova del suo artificio, e fattolo metter nel Toro, ve lo fece abruciar dentro.

Luciano nel suo Falaride scrive, che questo Toro fu mandato in Delfo al tempio d’Apolline, a cui egli l’haveva consecrato, e che Delfo non volse accettar quel dono. Dicesi poi, che Falari si servì lungo tempo di quello instrumento per tormentar huomini, e che dopo la presa d’Agrigento, espugnato da’ Cartaginesi, questo Toro fu portato a Cartagine per segno di vittoria, e che dopo la rovina di Cartagine fu renduto da Scipione a gli Agrigentini, come afferma Cicerone nel sesto libro contra Verre.

Falaride disse, e fece molte cose ingegnosamente, peroche, secondo che afferma Ammiano, egli fu l’inventore dell’Incendiario, o tromba di fuoco, che dal suo nome, si chiamò Falarica. Questo è un instrumento fatto a questa foggia. Ei si piglia un ferro bucato, e si mette sopra un’asta, che sia lunga tre piedi, e ficcato bene il detto ferro, fatto a uso di tromba, sopra l’asta, si mette dentro a quella concavità zolfo, ragia, e bitume, dipoi si mette sopra una balestra, e scaricatala, quel moto violento infiamma quelle materie, e ficcatasi cosi accesa nel legno, arde le macchine fatte di legname, che s’usavano in quei tempi.

Assediando il detto Falari alcuni luoghi in Sicilia di natural sito fortissimi, e vedendo, che l’assedio non faceva profitto alcuno, finse di venire all’accordo con loro, e di far pace, e ripose in quei luoghi ch’egli assediava i suoi frumenti, che diceva essergli avanzati. Ma in questo mentre, egli operò secretamente con coloro che riponevano il grano, che i tetti di quelle stanze dove si riponeva si scoprissero. La onde, cominciando a piovere, et entrando l’acqua pe’ tetti in quei granari, quei frumenti marcirono in poco tempo.

Non sapevano gli habitatori di quei castelli, cosa alcuna di questo, però confidatisi ne’ grani di Falaride, sparsero il loro prodigamente con venderlo a buon mercato, e mandarlo fuori. Seppe questo Falari, e trovate certe leggieri cagioni, mosse lor guerra un’altra volta, et essi essendo privi di frumenti, e trovando marciti quei di Falaride, furon vinti dalla carestia, e dalla fame, e questo l’afferma Giulio Frontino nel terzo libro, al quarto Capitolo.

Mentre ch’egli affliggeva [191] tirannicamente Agrigento, e molte altre città di Sicilia, molte persone, l’esortavano a lasciar l’Imperio, tra le quali era un Filosofo, chiamato Demotelo, a cui egli fece quella risposta, dicendo, che la Tirannide s’agguagliava alla vita humana.

Peroche se l’huomo sapesse prima ch’egli nasca, quanti mali si trovano nella vita humana, e quanti n’ha a sopportare, non vorrebbe mai nascere, e poi ch’egli è nato, et ha provato questa vita, piena di travagli, e calamità, non ne vorrebbe mai uscire, e n’esce malvolentieri; cosi, se il Tiranno sapesse il cattivo stato della Tirannia, prima ch’ei la pigli, non la pigliarebbe mai, e si vorrebbe star gentilhuomo privato, ma poi ch’egli ha preso la signoria, egli è esortato in vano a lasciarla. Esortandolo medesimamente a questa istessa cosa Pittagora Samio, et Epicarmo Megarese di Sicilia, disse, che l’occupar la Tirannide, era in arbitrio del huomo, ma non già il lasciarla, agguagliando quest’operatione a colui, che tira d’arco:

il qual ha ben potestà di tirar la saetta, ma poi ch’egli l’ha tratta, non ha piu possanza di ritirarla indietro. Venne ultimamente in Agrigento Zenon Eleate, Filosofo, per persuadere al medesimo Falari, che deponesse la Tirannide, come afferma Cicerone nel secondo de gli Offici nel Capitolo della Patienza. Ma essend’egli stato con lui molti giorni in vano, tirò finalmente alcuni nobili Agrigentini a far congiura per ammazzarlo.

Ma essendosi scoperta questa congiura, e messo Zenone in prigione, cominciò a esser tormentato in presenza del popolo, accioch’egli scoprisse i congiurati: ma non fu mai possibile per tormento alcuno fargliene manifestare alcuno, e pur quando nominava qualche persona, non nominava se non famigliarissimi, e favoritissimi del Tiranno, per fargli venire in sospetto. Dipoi ritrovandosi pure in su’l tormento, cominciò con acerbe parole a riprendere la viltà, et dappocaggine, de’ Cittadini d’Agrigento, dalle cui parole essendosi tutti commossi gli Agrigentini, Telemaco d’Agrigento, o Tebano, come dicono molti, si fece capo del tumulto, et a furor di popolo andando contra Falaride, lo lapidarono, et di questo sono autori Cicerone, e Valerio, che noi seguitiamo.

Regnò Falaride nella sua tirannia secondo il computo d’Eusebio XXXI anni, ma altri dicono, ch’ei non regnò se non xvi. Essendo egli adunque morto, e per questo havendo tutta la Città mutato forma, stato, e governo, gli Agrigentini mandarono un bando, che nessuno portasse ne’ suoi vestimenti colore azzurro, mettendo grandissima pena a chi contrafacesse, et questo fecero, perche non vi fosse cosa alcuna, che pur rappresentasse la Tirannia, o che la tornasse loro a memoria, ne anco ne’ panni, peroche quel colore era la livrea di Falaride, e tutti quei della sua guardia portavano i cosciali, e le calce solamente di quel colore, e di questo ne fa fede Plutarco nella sua Politica.

Havendo dunque gl’Agrigentini acquistato la libertà, la conservarono bravamente, forse per cento e cinquanta anni. Ma l’anno della creation del Mondo 4700, nel qual tempo secondo Eusebio, le città della Sicilia cominciarono a esser sotto i Tiranni, un certo Tero figliuolo d’Enesidemo, occupò un’altra volta la Republica d’Agrigento, come afferma Erodoto nel settimo libro, et Diodoro nel II la cui stirpe Pindaro, che gli dedicò due Ode Olimpice, la tira da Cadmo edificator di Tebe, e da Edippo, e da Cadmo la deduce a [192] questa foggia.

Polidoro fu figliuolo di Cadmo, secondo, ch’afferma Menecrate. di Polidoro fu figliuolo Emone, il quale havendo ammazzato un suo compatriota, se ne fuggì in Atene, e dipoi a Rodi, e finalmente se ne venne in Agrigento: da Emone per fino a la madre di Tero si contano XXVII generationi. Da Edippo la tira cosi. Edippo fu figliuolo di Laio Re di Tebe, il quale amazzò Laio suo Padre disavedutamente. figliuoli d’Edippo furono Eteocle e Polinice.

Di Polinice fu figliuolo Tesandro, ma essendosi amazzati Eteocle e Polinice l’un l’altro, di Tesandro, che restò vivo fu figliuolo Tisamene, e di costui Antesione, e di questo Tera, e di questo Sanio. Questo Sanio hebbe due figliuoli, cioè Telemaco, e Clitio, de’ quali Clitio si restò nell’Isola di Tera, ma Telemaco partendosi di quivi con gran compagnia, navigò in Sicilia, e comperando molte possessioni nel paese d’Agrigento, fu fatto finalmente gentilhuomo Agrigentino.

E costui fu quello (com’io ho detto) che mosso dalle parole di Zenone, fu il primo a invitare il popolo, e a correre a lapidar Falaride. Di Telemaco nacque Calliopeo, et di lui nacque Emmenide, e di questo Enesidemo, e di questo Terone e Senocrate. Di Terone fu figliuolo Trasideo, e di Senocrate Trasibulo.

Terone adunque figliuolo d’Enesidemo di stirpe reale de’ Tebani, ma nato nella città d’Agrigento, occupò la Tirannide della sua Patria, costui nondimeno si portò tanto modestamente, usò tanta giustitia, e clemenza, et governò per xvi. anni cosi bene la Republica, ch’egli mentre fu vivo, riportò grandissima gloria, e dopo morte meritò, che gli fussero fatti honori, e lodi divine, come dice Diodoro nel II. e noi ne faremo mentione nell’ultima Deca piu diffusamente.

Morto, che fu Terone, Trasideo suo figliuolo prese la Signoria d’Agrigento, come s’ella gli fosse toccata per ragione d’heredità. Costui havendo nome d’huomo scelerato, ed homicidiario per fino al tempo, che’l Padre vivea, dimostrò molto piu manifestamente queste sue qualità, poi che prese il Principato, e massime nell’oppressioni della città. Ma havendo guerra co’ Siracusani, e restando perditore, fu cacciato d’Agrigento, e da’ suoi propri, e da Hierone, in Megara, dove ei s’era fuggito condennato a morte, fece una fine degna della sua vita. E gli Agrigentini havendo havuto la pace da’ Siracusani, i quali erano stati offesi, non da loro, ma dal Tiranno, governaron la Repub. col governo de’ Nobili, e de’ Cittadini.

Ma questa quiete non durò loro molto tempo, perche l’anno CLXXXI innanzi alla venuta di Christo, e della creation del mondo 4779 come conta Eusebio, essendo eglino assaltati da gl’Ateniesi, di cui era Capitano Alcibiade, perderono in un subito la libertà, e la città.

Dopo la guerra Ateniese medesimamente, la città fu espugnata, e messa a sacco da’ Cartaginesi: il sacco e la rovina fu di sorte, che la città a gran fatica pareva piu città, e sarebbe restata del tutto deserta, se Timoleone non vi havesse mandato una gran colonia di persone cavata d’Elice città d’Acaia, che fu inghiottita dal Mare sotto la guida di Megelo e di Ferisco, e non havesse riuniti i Cittadini, ch’andavano dispersi, e del tutto restaurato la città, come afferma Plutarco.

Essendo poi stata piu crudelmente trattata da’ Cartaginesi con la maggior parte della Sicilia, innanzi alla prima guerra Cartaginese, mentre che durava questa guerra, per cagione d’una fortezza, che si [193] teneva contra i Romani, fu assediata dall’esercito Romano, essendo Consoli Lucio Postumio, e P. Emilio, e vinti i Cartaginesi, essendo stata presa, e cavatine molti servi, e molta richezza, con gran calamità divenne soggetta all’Imperatore Romano.

Ma essendo poi di nuovo guastata da’ Galli, che erano soldati pagati da’ Cartaginesi, (come scrive Polibio nel primo libro) provò sempre una varia, e cattiva fortuna. Et ultimamente al tempo della seconda guerra Cartaginese, dopo la presa di Siracusa fatta da M. Marcello, Livino Consolo Romano havendone cacciati i Cartaginesi, la diede in preda a’ soldati, et havendovi fatto dentro prigioni i Capi della rebellione, gli battè prima colle verghe, et poi gli uccise con le accette come era costume; et di questo ne fa fede Livio nel sesto libro della terza Deca.

Cosi essendo un’altra volta ritornata sotto i Romani, et non vi essendo quasi piu habitator nessuno, Tito Manlio pretor della Sicilia, per commissione del Senato, raccolse da molte città una Colonia, e fattivi tornar per forza i Cittadini vecchi, la riempiè di Popolo. La onde ritrovandosi in Agrigento due sorti di habitatori, cioè di Cittadini vecchi, e di gente nuova, dubitando Scipione, de gli habitatori nuovi essendo in maggior numero, non si sollevassero contra i vecchi, e non gli cacciassero via, ordinò per legge, che il numero de’ Vecchi, e de’ nuovi Cittadini fosse eguale, et questo afferma Cicerone nel quarto contra Verre.

Ma poi da chi fosse rovinata questa cosi gran Città, e fosse traportata nel colle vicino a l’antica, che hoggi volgarmente è detta Civita, è del tutto rovinata, non vi si vede cosa alcuna intera di quei si belli, e grandi edifici, ma alcuni di loro son mezi rovinati, e gli altri del tutto son per terra coperti da spine, arboscelli, et herbe inutili, e vili, et alcuni son sepolti da’ terreni, e da gli aratri cosi dentro le mura, come fuori, delle quali mura ancora se ne vede una parte, e son tali, che facilmente possono condurre altrui nella maraviglia della lor possanza, e grandezza.

Vi si vedono in oltre pietre di tanta smisurata grandezza, che chi non havesse mai veduto gli obelischi, e le piramidi portate d’Egitto, non potrebbe credere, che quelle moli cosi grandi, potessero essere state condotte in quel luogo per forza humana, e poi poste in alto.

Io sono stato spesso a vedere quei luoghi, e stando intento a cosi gran spettacolo mene sono stupito, non solamente per la magnificenza di cose tanto maravigliose, ma per la gran possanza del tempo, e della invidia della fortuna, che hanno guasto, e rovinato cosi miseramente ogni cosa.

Et havendo molto ben considerato ogni cosa, non potetti far di non sospirare amaramente, pensando a quei bellissimi edifici, a quei superbissimi Templi, e a quella Architettura maravigliosissima, c’hoggi son tutte rovinate. Peroche mi vennero allhora in mente tanti Heroi, tanti Capitani e tanti huomini illustri in ogni facultà, che non solamente erano atti a far chiara una città, ma illuminar tutto’l Mondo, per memoria de’ quali, la prudenza, l’humanità, la militia, e ogni virtù, piglia gloria e splendore.

E M P E D O C L E  nacque, e fiorì in Agrigento, il cui Padre fu Metone, [194] come dice Ippobato, o Archionio, come scrive Telange discepolo di Pitagora. Costui fu filosofo grandissimo, et insieme con Zenone Eleate fu discepolo di Parmenide. E partendosi poi da lui, ascoltò Pitagora, et Anassagora, de l’un de’ quali approvò, e imitò la bontà della vita e la gravità de’ costumi, e dell’altro seguì l’opinione, ch’egli haveva intorno a le cose naturali, come afferma Laertio per autorità d’Alcidamante.

Il che mi par molto verisimile, essend’egli concorso per la maggior parte con l’opinione d’Anassagora circa i principij delle cose naturali. Perche amendue posero il Caos, nel qual dissero, che erano le cose tutte mescolate insieme, e confuse, ancor che l’una ponesse i principij infiniti, e l’altro finiti, come riferisse Aristotele nella sua Fisica, il qual scrive medesimamente nel suo sofista (la qual’opera non è appresso di noi Latini) che il detto Empedocle fu il primo inventore dell’arte Oratoria, come Zenone della Dialettica.

A cui s’accosta Satiro nelle sue vite, il quale dice, ch’ei fu Medico, et Oratore eccellente, e che Gorgia Leontino, che fu il primo che illustrasse con lettere l’arte Oratoria, fu suo Discepolo, et che fu molte volte in sua compagnia, quando attendeva all’arte magica. Questo Empedocle fu molto studioso delle cose d’Homero, onde Aristotele nel libro de’ Poeti, lo chiama Homerico, et afferma, che nel dire fu molto acuto, e ne’ suoi scritti, nelle translationi, e nell’altre figure poetiche fu molto vago. Compose molte opere, e Girolamo Filosofo confessa d’haverne lette quaranta tre, come scrive Laertio.

Scrisse in versi heroici un’opera maravigliosa delle cose naturali, un fragmento delle quali è nella libraria de’ Medici in San Lorenzo di Fiorenza, la qual’opera, è cosa chiarissima, che fu veduta da Aristotele, si perche ella è d’una medesima farina con la sua filosofia, che noi habbiamo, si ancora perche egli in molti luoghi cita de’ suoi versi. La onde, egli nella sua Poetica l’agguaglia di maniera ad Homero, che egli fa, che il verso sia commune ad ambedue. Perloche, Homero fu chiamato Poeta, et Empedocle filosofo naturale.

Timeo ancora dice, che egli per queste, e per molte altre cose fu huomo degno d’ammiratione, peroche egli non solamente prediceva le future tempeste, ma pensava ancora a’ rimedij, accioche le biade non fossero guaste da quelle. Per la qual cosa, egli fu chiamato per sopranome da gli Agrigentini Colisamenone, cioè sforzatore, e prohibitore de’ venti: e la cagione di questo fu, perche essendo una volta molestata dall’impeto del vento la città d’Agrigento, e’l suo paese, rimosse ogni pericolo dalla città con metter d’intorno a le mura, e su pe’ colli vicini, pelli d’Asini acconce a uso d’utri, come disse Timeo nel XVIII. libro, raccontandolo Laertio: e Plinio dice nel libro XXXVII. cap. XXVII, che con certi fuochi egli medicò una grandissima pestilenza.

Dice Eraclito, che egli con artificio conservò trenta giorni un corpo morto humano dalla corruttione, e intero. Fu anco indovino delle cose future, si come si potette vedere (dice Eraclito in Laertio) in quei suoi versi scritti a gli Agrigentini, dove egli gli salutò, e volse da loro essere stimato uno Dio, e che gli fussero fatti i divini honori. Ma Aristotele dice, che egli hebbe [195] l’animo libero da ogni passione, e massime dall’ambitione, e in segno di questo, egli ricusò con gran constanza, e fermezza d’animo il Regno d’Agrigento, offertogli prontamente da gli Agrigentini, anteponendo la simplicità del vivere privato, alle delicatezze della vita Regia. La qual cosa anco fu lasciata scritta da Zanto.

Ordinò in Agrigento il Magistrato triennale, che era di cento huomini, nel numero de’ quali non solamente entravano i Nobili e illustri di sangue, ma anco quei di mediocre stato e anco dell’infima plebe, pur che fussero huomini da bene, il qual Magistrato non fu approvato da Timeo, secondo che scrive Laertio.

Essendo una volta vittorioso ne’ giuochi Olimpici, che si facevano co’ Cavalli, e non potendo distribuirsi cose animate, come era la legge, egli fece un Bue di mirra, d’incenso, e d’altre spetierie, e lo distribuì a coloro, che andarono a rallegrarsi della sua Vittoria, e a celebrar la sua festa, si come fu ordinato da Pitagora. Era tenacissimo delle nemicitie, e de gli odij come dice Suida, e molti antichi scrittori affermano.

Dovendo ricercare il numero de gli Dei, si metteva indosso una veste di porpora, come narra Eliano nel XII libro, portava in testa una ghirlanda d’oro, e i calzari di rame, e portava in mano rami d’alloro. Fiorì quasi al tempo, che Serse fu vinto da gli Ateniesi a Salamina, essendo Capitani de’ Greci Temistocle, et al tempo, che i Fabij furono amazzati a Cremera, e che M. Coriolano andò co’ Volsci contra Roma, come scrive Gellio nel XVII libro al capitolo ultimo. Laertio finalmente scrive, che tutta la Sicilia fu illustrata da Empedocle, e che egli al suo tempo, non hebbe pari al mondo, cosi nelle cose di guerra, come anco in quelle dove s’haveva adoperar l’ingegno.

Della sua morte si dicono varie cose: peroche Eraclide dice, che ritrovandosi a un sacrificio insieme con gl’altri nel paese di Pisianatta, poi che fu finito il sacrificio ognuno andò cercando l’ombre di diversi alberi, e vi si gittarono sotto, ma egli solo stando fermo nel luogo, dove s’era fatto il sacrificio, la mattina non fu trovato da gli altri, ch’essendosi levati, l’andarono a cercare, e non sapendo i compagni cio che gli fusse avvenuto, uno de’ servi disse, ch’a meza notte haveva udito una gran voce, la qual chiamava Empedocle, et essendosi levato disse di non haver veduto altro, ch’una gran luce, e un gran splendore di fiaccole.

Molti altri autori, i quali segue Favorino, scrivono, che andando a Messina, si roppe a caso una gamba per la strada, e che crescendo il dolore, et entratovi lo spasmo, si morì in Megara, e fu sepolto quivi, essendovi d’età di LXXVII anni, ancor che molti dicono ch’ei visse CIX anni. Sono alcun’altri ancora, che scrivono, che essend’egli in odio a gli Agrigentini, si partì di Sicilia, e andò nel Peloponneso, e quivi morì, a l’opinione de’ quali s’accosta Neante Cizziceno in Laertio, il quale disse, che egli morì in Metona, dove ei s’era ritirato per fuggire certi tumulti di Tirannide, che erano cominciati nella sua Patria. Altri narrano, che havendo egli medicato in Agrigento una gentildonna Agrigentina detta Panthia, ch’era stata disperata [196] da’ Medici, cominciò a esser tenuto immortale da gli Agrigentini. Et egli per confermargli in quella opinione, se n’andò nel Monte Etna, e si gittò in quella voragine, e la fiamma rigittò fuori i suoi calzari o stivaletti, i quali furono trovati nell’orlo della bocca tra la cenere, si come narra Suida.

A l’opinione di costoro s’accostò Lattantio Firmiano nel III libro delle divine institutioni, il qual narra la cagione, e’l modo, ch’ei tenne a gittarsi in quella voragine, e di questa fantasia parve che fusse anco Horatio in quei versi

„Empedocle bramando esser tenuto

„Immortal Dio, nella cocente fiamma

„D’Etna gittò se stesso. etc.

Avolo di costui fu un’altro Empedocle, non molto inferior di lui, il quale non solamente fu famoso in guerra, di cui diede un grandissimo essempio nell’Olimpiade LXXI, di cui riportò la vittoria, onde Laertio lo chiama allievo di cavalli da guerra, ma fu anco gran Filosofo, et havendo composto ventiquattro Tragedie, si morì.

C R E O N T E  filosofo e medico fu anch’egli Agrigentino, il quale fu molto commendato da Empedocle. Dice Plinio nel libro XXIX al Capitolo primo, che da costui hebbe principio la fattione de’ Medici chiamati Empirici. Peroche le specie della medicina sono state appresso à gli antichi, et anco appresso i moderni di tre sorti, cioè l’Empirica, che procede solamente per puri esperimenti senza adoperare altre ragioni; la Latralepticha, che adopera unguenti, e fregagioni; e la Farmaceutrica, che procede per via di medicine.

A Z O N E  figliuolo di Zenone e molto stimato nella Patria sua, fu Agrigentino, come dice Suida, e fu medico e filosofo eccellentissimo, e fu prima d’Ippocrate, lesse publicamente in Atene insieme con Empedocle, e scrisse in lingua Dorica molti volumi di Medicina, e di Filosofia.

P O L O  Orator famosissimo, discepolo di Gorgia Leontino nacque in Agrigento. Costui poiche egli hebbe descritta la Geneologia de’ Greci, e de’ Barbari, e quanti huomini illustri andarono all’assedio di Troia, uscì di questa vita. Luciano nel suo Erodoto scrive, che egli astutamente andava a orare in quei luoghi, dove ei sapeva, che si facevano feste publiche, onde per questa cagione s’acquistò gran nome in breve tempo appresso diversi popoli. Fu questo medesimo, Filosofo eccellentissimo, di cui fa mentione Aristotele nel proemio della Metafisica.

D I N O C O L O  discepolo d’Epicarmo Comico fu Agrigentino, e poeta eccellente, e scrisse in lingua Dorica XIIII Comedie.

A R C H I N O  Agrigentino fu Poeta Tragico, e compose LX Tragedie, per le quali egli conseguì fama grandissima.

S O F O C L E   huomo chiarissimo, e dottissimo fu Agrigentino, e fiorì al Tempo de i Romani, come scrive Cicerone contra Verre.

[197] S E N O C R A T E   medesimamente germano di Terone, a cui Pindaro dedicò due Ode, fu d’Agrigento, costui nella Pithia xxiiij, restò vincitore nel corso de’ carri, per esser molto perito nell’arte di carrettiero. Et queste cose siano a bastanza, circa la città vecchia d’Agrigento.

La nuova città d’Agrigento è posta sopra un colle, et è lontana dalla vecchia manco d’un miglio. Et benche questa sia molto inferior di quella di grandezza, e di fama, nondimeno ell’è ornata del titolo di Vescovato, et ha sotto la sua Diocesi xxv. castelli grandi, i quali le furon sottoposti da Ruggiero Normanno Conte di Sicilia, come appare per un suo privilegio, il quale è questo:

Io Ruggiero Conte di Calabria, e di Sicilia, aiutato dall’aiuto divino, e cinto della spada della superna gratia, et ornato della celata, e dello scudo della santa e buona intentione, andai in Sicilia contra l’abominevol setta de’ Saracini per combatter con loro, et aiutandomi lo spirito santo, anzi operando ogni cosa la bontà, e misericordia divina, gli vinsi et espugnai, e scemai la loro audacia, et humiliai la lor superbia, ch’essi havevano verso la nostra fede, e per dir piu veramente, del tutto l’annichilai;

e chi è colui che vedendo la gran ruina de’ lor castelli, e delle loro città, ch’io ho fatta, e la destruzzione de’ palazzi, che superfluamente erano stati fatti da loro, non consideri la loro calamità, e la loro desolatione? Havendo dunque annichilata la potenza e la bestialità di costoro, che mostravano verso i Christiani, e dando a me, et a’ miei obedienza tutta la Sicilia, Io Ruggier predetto Conte l’anno di nostra salute 1093. essendo Pontefice Urbano, e Ruggiero Duca di Calabria, e di Puglia, ordinai in Sicilia molte Chiese Cathedrali, una delle quali è la Chiesa di Agrigento, il cui Vescovo si chiama Gerlando, a cui consegno nella Parrochia tutto quello che si contiene dentro a’ sottoscritti confini, cioè dal luogo, dove nasce il fiume sotto Coriglione per fin sopra la pietra di Zinet, e quindi si va per le divisioni di Latina, e di Cefala, e poi alla divisione di Biccari, e d’indi per fino al fiume Salso, che è dove si divide Palermo da Terme, e dalla foce di questo fiume, dove egli sbocca in Mare, et questa Parrochia si distende presso al mare per fino al fiume torto,

e da questo e da donde ei nasce si va alla Pira sotto a la Pietra d’Elia, e di qui per fino a l’altro Monte, che è sopra Pira, e quindi per fino al fiume Salso, dove si congiunge col fiume di Pietra d’Elia. Et da questo fiume, come discende a Imprando, che è un luogo, che divide Agrigento da Butera, e quindi andando giù per la riviera per fino al fiume de’ Bilicli, che è la divisione di Macaria per fino a sotto Coriglione dove comincia la divisione. Et di tutte queste cose, se alcuno a questa Chiesa o al suo Vescovo ne leverà via qualcuna, o gliene riterrà ingiustamente, e sia che persona si voglia, sia scommunicato.

In proprio poi cosi di te, come de’ tuoi successori, ti do e commendo in perpetuo il Casal di Catta con cento Villani. Et in oltre tutto quello, che per l’avvenire, o per liberalità de’ Principi, o per limosine de’ fedeli, la Chiesa d’Agrigento si potrà acquistare giustamente e canonicamente, voglio, che siano tue, e de’ tuoi successori perpetuamente, e ti siano conservate intatte. Queste cose scrisse Ruggiero, le quali furono tutte confermate da Papa Urbano al detto Vescovo Gerlando, come appare per un suo privilegio [198] dato in Bari l’anno di nostra salute 1093. a dieci d’Ottobre.

È nobilitata adunque questa città d’Agrigento dalla Chiesa Cathedrale fabricata con bellissima architettura, e di pietre tirate in quadro, e dal sepolcro del Beato Gerlando primo Vescovo d’Agrigento dopo la cacciata de’ Saracini, il qual Vescovo fece miracoli.

Alla cima presso al Tempio si vedono le rovine di fabriche grandissime, che furon fatte da Manfredi, Giovanni e Federigo, di Chiaramonte, e queste rovine son molto simili alle rovine antiche. Nella città son molte bellissime opere publiche, fatte da’ medesimi, come sono il Tempio maggiore, il Convento di S. Domenico, e di S. Francesco, e de’ Carmelitani, un Monasterio di Monache dell’ordine di S. Benedetto, lo Spedale, verso il Mare, le mura, e’l ponte, della città. I posteri de’ quali per essersi ribellati da Martino Re di Sicilia, furono gastigati come ribelli de’quali si parlerà piu diffusamente nell’Historie.

Giovanna Pancia Donna Agrigentina maritata a Bernardo Belluardo Agrigentino è stata donna fecondissima, perche havendo partorito circa trenta volte, ha fatto settanta tre figliuoli. Et questo è stato al mio tempo, il che non debbe parere impossibile ad alcuno, percioche Aristotele nel settimo libro della natura de gli animali al cap. IIII. scrive, che una certa Donna in quattro parti partorì XX. figliuoli, perche ogni volta ne fece cinque. Alberto Magno medesimamente dice, che in Germania una donna si sconciò, et mandò fuori i corpi di XXII.

bambini, che erano già formati, e figurati. Un’altra (dice) n’haveva in corpo settanta. Et che un’altra gittò in un catino i corpi di CL. bambini, che erano grandi come il dito piccolo della mano. Et accioche la maraviglia si faccia maggiore, ei si sa per cosa certissima, che Margarita Contessa d’Enneburgh l’anno di nostra salute MCCLXXVI, essendo ella d’età di XLII. anni, nel dì del Venerdì Santo, a hora nona, innanzi mezo giorno, partorì CCCLXIIII bambini maschi e femine tutti vivi; et la fama di questo s’è saputa di mano in mano, e ne fan fede le publiche inscrittioni, e’l numero di detti corpi, che ancor si vedono in quella città; e a maschij di questo numero fu posto nome Giovanni, et alle femine Lisabetta, da Guido Vescovo Suffraganeo di Traiet, il quale gli battezzò.

Costoro essendo morti insieme con la madre, furon messi nella Chiesa Cathedrale in un sepolcro, nel quale fu scritta con lettere intagliate la memoria di detto caso. E per mettere ancora de gli esempi de’ nostri, si deve sapere, che l’anno di nostra salute MCCCCXXX. si trovò in Messina una Donna d’età di XLII. anni, che a un portato partorì nove figliuoli, e poi ch’ella hebbe partorito subito morì insieme con loro.

Et ancor che si trovino molti, che dichino che nella matrice sono solamente sette celle, et che si possino generare in essa solamente sette figliuoli, il che affermano anco per autorità di Galeno nel libro dove trattò della virtù della sperma, d’onde anco i Legisti hanno pigliato errore, tutta via l’esperienza è in contrario: e gli huomini dotti tengono, che quel libro non sia di Galeno. Ma basti fin qui d’haver detto delle cose che sono dentro alle mura d’Agrigento.

Nel paese d’Agrigento si trova un lago, nel quale va a galla sempre un certo grasso, come olio: di cui Plinio nel XXXV lib. al cap. XV. parla a [199] questa foggia. In un lago, che è nel paese d’Agrigento si genera e va a galla un grasso o vero bitume liquido simile a l’olio, il qual tien sempre macchiata l’acqua.

Gli habitatori ne raccolgono anco super le foglie delle canne prestissimamente, e se ne servono per ardere nelle lucerne, come si fa de l’olio, e anco l’adoperano per medicar la scabia de gli animali, e questo dice Plinio. Nel lago d’Agrigento (dice Solino) l’olio va à galla. Questo grasso sta anco attaccato alle foglie delle canne, e di quivi lo colgono, servendosene per bestiami. Questa fonte a’ miei tempi si trova ne gli horti d’Angelo Strazzante nominato di sopra, nel quale si vede andare a galla un’unto come un’olio, il quale raccolto, gli Agrigentini adoperano hoggi a medicar diverse infermità. Ma perche questa fonte insieme con molte altre correva nella piscina detta disopra, però ella fu da Plinio, e da Solino chiamata lago.

Ne’ medesimi horti è un’altro fonte, che getta sempre acqua, et è buona a bere, et esce d’una caverna, la cui acqua in spatio di tempo s’indurisce e diventa marmo bianco. Io vidi l’anno di nostra salute MDXXVIII. del mese d’Aprile una pietra quivi generata d’acqua, la quale era appiccata a un tegolo, ma era talmente appiccata, che pareva una cosa medesima, tuttavia ei si conosceva l’opera dell’arte, e quella della natura.

La qual cosa parve maravigliosa a gli huomini di giudicio. Ma non minor maraviglia mi mise nell’animo un vaso di pietra, che era stato gran tempo nel fondo di detta fonte, il quale era coperto intorno intorno da una crosta di marmo, generatasi quivi dentro.

Strabone nel sesto libro scrive, che nel paese d’Agrigento si trovavano molti laghi, i quali havevano sapor d’acqua di mare, ma la natura era diversa: perche le cose gravi, che a modo alcuno non istanno a galla, vi stavano sopra a guisa di legni, e non andavano mai a fondo, la qual cosa procedeva dalla grassezza dell’acque come pensa anco Aristotele. ma dove siano hoggi questi laghi, io veramente non lo sò.

Egli è lontano da Agrigento quattro miglia verso Tramontana un terreno chiamato con voce saracina Maiaruca, il quale non è buono a cultivare, perche tutto quanto detto terreno, che gira d’intorno un mezo miglio, è tutto cenere.

Quivi si vedono certi sortivi d’acqua indeficienti, la qual’acqua è mescolata con cenere, e questa cosa si vede in moltissimi luoghi e sempre gettano, e non manca mai il Terreno, come anco ne fa testimonianza Solino. Ma questa cosa è degna di maraviglia, la qual non seppe Solino, e noi l’habbiamo veduta per isperienza, che quasi ogni cinque anni questo luogo fa novità, e mena furore, perche tonando terribilmente, o sentendosi grandissimo romore, con nembi oscurissimi, esce fuor di quivi tanta gran quantità di cenere, e di fango, che la terra cresce quasi sei braccia, mettendo alla bocca d’una di quelle buche un bastone, e ficcandovelo anco dentro (il che non si può far senza gran forza, per amor della strettezza della buca) egli n’è cavato con gran prestezza dal vento sotterraneo, che impetuosamente esce di quivi.

Ei si trova un’altro campo in Agrigento otto miglia lontan dalla città pur verso Tramontana, il qual campo è chiamato Aborangio, dove è una miniera di sale differente dalla natura de gli altri sali. Percioche gittandolo nel fuoco si strugge, e gittandolo nell’acqua s’indurisce; salta, e scoppia, di cui fa mentione Plinio [200] nel XXXI. libro al cap. VII. et anco Solino, e noi l’habbiamo veduto per isperienza. Gli scrittori dicono ancora, che si trovan in Agrigento i metalli delle saline che servono in cambio di pietre, e di sassi, peroche gli scultori ne sogliono fare statue d’huomini e di Dei.

Non lontano da questo terreno tra Agrigento, e Bibbona castel moderno, è un lago di solfo, detto hoggi volgarmente Bissana, che è di giro quasi cento passi, dove sono due buche, che gittano fuori l’acqua in alto tre braccia, e questo fanno perpetuamente. Ma basti fin qui haver detto d’Agrigento, seguitiamo adesso la descrizzione.

Ritornando in su la riviera, e passata la foce del fiume Acraga, si trova lontan quasi tre miglia Agrigentino, dove si fa il mercato del grano, e dopo nove miglia si trova la Torre della guardia, detta la Rocca da Monte Rosso, dopo la quale un miglio, si trova un luogo detto Siculiana, dove si fa il mercato del grano, et è luogo usato da poco in qua; e tra terra un miglio, si trova un castel del medesimo nome fabricato da Federigo Chiaromontano l’anno di nostra salute MCCCL. l’insegne, et armi del quale si vedono ancora poste in cima. Dopo Siculiana del Mercato segue la foce del fiume Siculiana che nasce ne’ Monti vicini.

In tutto il resto poi della riviera per fino a Eraclea, si trovano gli scogli molto spessi, e rupi grandissime tutte continuate, le quali son famose per un naufragio dell’armata Romana. Perche al tempo della prima guerra Cartaginese CCLXXX navi Romane, sforzate da la tempesta, vennero a percuotere in questi scogli, dove fecero un naufragio grandissimo, come afferma Polibio nel primo libro, e noi piu diffusamente n’habbiamo trattato nell’Historie.

Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento, agrigento storia, girgenti

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