La mattina del 19 luglio del 1966, Ciccio Farruggia, netturbino, era stato comandato in via Santo Stefano (oggi via XXV aprile). Tutto andava come sempre: aveva cominciato alle sei e mezza ed era passata un’oretta quando aveva appena acceso la prima sigaretta e stava appoggiato ai sacchi già pieni di spazzatura.
Sentì prima i cani abbaiare e poi aprirsi davanti a sé, sulla strada, una crepa, mentre il palazzone in costruzione, davanti a lui, sembrava scivolasse giù, ondeggiando.
Non ci pensò un attimo e dopo il primo spavento cominciò ad urlare con tutto il fiato che aveva: “Curriti, curriti, u tirrimotu”. Qualcuno sentendolo, aprì l’uscio e gli buttò una voce: “Che è, don Ciccio, ma chi è pazzu vossia ?”. Ma poco il palazzo che aveva visto prima barcollare, si sventrò e allora cominciarono dapprima tutti quelli che abitavano all’estremità della via Santo Stefano, sotto la Chiesa dell’Addolorata, sotto il Rabato e poi tantissimi altri che sentirono tremare e spaccarsi la terra ad uscire di casa, così come ci si trovava, e ci fu persino chi dimenticò il bambino in culla scappando da casa e corse di nuovo indietro a salvarlo e così nessuno morì sotto le macerie quella maledetta mattina in cui la frana devastò interi quartieri sulla collina di Girgenti.
Mille e duecento famiglie persero la casa, alla fine si contarono ottomila senza tetto. Palazzi interi si sbriciolarono, miliardi di lire di danni, e uno strascico di polemiche, ma nessun condannato, nessun responsabile per quello rimasto famoso come “il sacco di Agrigento”, il caso italiano più eclatante di dissennato abusivismo edilizio. Solo un mulo quel giorno pagò con la vita, perdendola per io crollo di un tetto.
Gli studiosi hanno poi ricostruito momento per momento quel disastro: “alle ore 7, all’estremità occidentale del centro urbano, si manifestano i primi segni di un movimento franoso che in poco più di un’ora interessa un’area di circa 0,5 kmq estesa fino all’alveo del torrente Drago, provocando dissesti e crolli di edifici, alcuni dei quali ancora in costruzione. Secondo la commissione d’inchiesta «il movimento franoso cominciò a manifestarsi con alcuni segni premonitori. Questa fase preliminare, durata alcuni minuti, ha consentito alla popolazione di mettersi in salvo, allontanandosi dalla zona che si manifestava sempre più pericolosa. È a questo intervallo di tempo che si deve se i crolli verificatisi non hanno causato vittime. Successivamente il fenomeno franoso si manifestò con estrema rapidità, violenza ed estensione.
frana 1966 agrigento
Nei giorni seguenti si verificarono alcune manifestazioni secondarie, specialmente nelle zone più basse della città, e i fenomeni di assestamento si esaurirono in un mese circa. Sempre secondo la commissione il movimento franoso fu dovuto a un complesso meccanismo di deformazione del banco calcareo, sede della frana, legato ai lenti spostamenti delle sottostanti argille. L’aumento graduale degli sforzi indotti sul banco calcareo ha portato al raggiungimento del limite di rottura, tra la chiesa dell’ Addolorata e il Macello, cui ha fatto seguito immediatamente il franamento”.
Il disordine edilizio insomma, alimentato da concessioni e favori, “ciò ignorando la legge ovvero considerando la sua applicazione come un fatto personale, di cui ognuno diventa arbitro esclusivo”, come disse la commissione d’inchiesta. E soprattutto il direttore generale dell’ Urbanistica, Michele Martuscelli, che ebbe dal governo il compito di condurre un’ inchiesta sulle cause della frana, tracciò la storia del dissesto urbano di Agrigento con espressioni di potente energia, rimaste nella storia: «Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento.
Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’ aspetto sociale, civile ed umano». Martuscelli stesso chiese che amministratori e costruttori di Agrigento rispondessero delle loro condotte. Un processo si celebrò nel 1974, ma tutti gli imputati finirono assolti con formula piena. Fu scandalo. Altri agrigentini invece accolsero quella sentenza quasi con soddisfazione. Si sentivano tutti imputati, vittime di un’opinione pubblica e di uno Stato che, prontissimi ad aprire un “processo alla città”, non hanno fatto nulla, anche dopo la frana, per darle una mano a liberarsi dai suoi secolari guai.
frana di agrigento
Il 19 luglio del 1966 arrivò ad un tragico capolinea uno scontro che ad Agrigento era iniziato ormai da un ventennio tra chi vedeva nei “grattacieli” (i famosi tolli), nello abbattimento della villa Garibaldi, nella urbanizzazione senza regole di zone come il sottogas un simbolo di modernità e di progresso e soprattutto significavano lavoro e quindi, dinanzi alla necessità di portare il pane a casa, non si ponevano questioni estetiche quando vedevano tirarli su quei palazzoni; e chi invece – come il sovrintendente Pietro Griffo – protestava: “Mettiamoci un poco a guardare dalla Collina dei Templi verso la città. Innumerevoli attentati sono stati già fatti ed altri ancora si è in procinto di farne.
Il vecchio colle di Girgenti era una volta un insieme simpaticissimo ed armonico di un’edilizia assai discreta , miracolosamente fusa – nella compostezza dei suoi volumi e dei suoi colori – con il generale aspetto ambientale. Tra le sue messe equilibrate sono sbocciate in pochi anni le note più discordanti. Gravi squilibri di volumi, disarmonie non necessarie…E ultimamente, ad aggravare vieppiù le sproporzioni, ci si è dati a presumere che tra le vecchie e pittoresche costruzioni della città storica possano e debbano inserirsi fabbriche di nuovo stile e inconsuete dimensioni, o addirittura moderni “grattacieli”, la cui verticabilità sarebbe veramente – e proprio dalla visione della zona archeologica – quanto di più inadatto si possa pensare nell’ambiente agrigentino”. Così scriveva il sovrintendente Griffo nel 1960 e concludeva: “Soltanto un miracolo potrebbe mutare lo stato di queste cose. Ma è materia, codesta, in cui sia possibile contare sull’intervento del soprannaturale ?!”.
Non un intervento soprannaturale, ma un tragico evento assai poco naturale e piuttosto firmato da responsabilità di uomini che hanno “errato, fortemente e pervicacemente”, quel 19 luglio 1966 ha mutato lo stato di quelle cose, perché da quel giorno Agrigento ha dovuto fare i conti con se stessa.